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Manuale operativo di sinodalità
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10.7
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Il metodo 7
1. Una po’ di storia in breve. Il Concilio ecumenico Vaticano 2° si svolse a Roma tra il
1962 e il 1965. La sua convocazione fu annunciata dal papa Giovanni 23° nel
1959. Non coinvolse solo Papa e vescovi, ma tutti i fedeli. Quando vi fu
coinvolta, la Chiesa era ancora organizzata secondo un pesante totalitarismo teologico,
ideologico e istituzionale. Al centro di quel Concilio vi fu proprio la Chiesa
e il suo totalitarismo ecclesiastico. Si volle aprire degli spazi di impegno
anche per tutte le altre persone di fede. In base ai deliberati del Concilio fu
ampliata la facoltà di creare associazioni e movimenti caratterizzati da una
certa autonomia. La nostra Azione Cattolica fu riorganizzata facendo
dell’esercizio dei valori e del metodo democratici uno dei suoi principali
elementi caratterizzanti. Nelle parrocchie e nelle diocesi furono introdotti
organismi di partecipazione, per altro con funzioni esclusivamente consultive,
in cui tutte le persone di fede, comprese le donne, potevano collaborare. Per
circa vent’anni si cominciò ad uscire dal precedente totalitarismo
ecclesiastico. La Chiesa, lo ricordo bene, manifestava una viva effervescenza.
Nella nostra parrocchia s formò un
numeroso gruppo di giovani, animato dal viceparroco don Franco. Si avviò
l’esperienza delle mamme catechiste, in cui fu molto coinvolta anche mia
madre. Dall’inizio degli anni ’80, con la deliberazione del nuovo codice di
diritto canonico (1983), l’esortazione apostolica I fedeli laici - Christifideles
laici (1988), con la lettera Il concetto di comunione - Communionis
notio (1992) della Congregazione per la dottrina della fede, la delibera
del Catechismo della Chiesa cattolica (1992) come legge dottrinale valida anche per la teologia, la
lettera apostolica [Il Signore costituì] I suoi Apostoli - Apostolos
suos (1998) e, infine, in Italia, l’avvio del Progetto culturale (1997),
si produsse il sostanziale congelamento di quei moti di rinnovamento. Si
produsse così quello che alcuni definiscono un lungo inverno nella Chiesa italiana, dal quale il fecondo
cattolicesimo democratico nazionale ne uscì praticamente annientato, nella
Chiesa e nella società italiana. Invano dal 2005, a partire dalla Lettera ai
fedeli laici della Commissione
episcopale per il laicato Fare di Cristo il cuore del mondo, si tentò di
indurne la ripresa. Già quell’anno la devastazione antropologica prodotta nel mondo cattolico nazionale
appariva in stato terminale. Questa fu la situazione che trovò il Papa
attualmente regnante, agli inizi del suo ministero nel 2013. La svolta degli
anni ’80 è riconducibile essenzialmente alla teologia di Joseph Ratzinger, il
quale regnò da Papa dal 2005 al 2013. Quando Ratzinger assunse la guida della Congregazione
per la dottrina della fede, l’organismo di polizia teologica e ideologica
del Papato, riscuoteva una indiscussa fama come uno tra i massimi teologi
cristiani del suo tempo tra tutti gli altri teologi di ogni confessione. Egli
era stato tra i teologi non vescovi che erano stati protagonisti, come esperti,
del Concilio Vaticano 2°. All’epoca condivideva il moto di aggiornamento
pastorale che era stato promosso dal
papa Giovanni 23°. Nell’epoca successiva, quando si era passati alla fase
attuativa dei principi ecclesiologici deliberati in quel concilio, temendo per
l’integrità del corpo ecclesiale che appariva attraversato da fratture
insanabili, aveva cominciato a manifestare l’esigenza di contenere e
disciplinare i moti di rinnovamento ecclesiale. L’orientamento principale era
quello di suscitare comunione intorno al ministero del Papa e alla Chiesa
universale manifestata dal collegio episcopale. Con il Progetto
culturale si propose di costruire,
dopo la fine del partito cristiano fondato sull’idea di unità politica
dei cattolici, la Democrazia Cristiana, una proposta ideologica e politica basata
sulla dottrina sociale che, adottata da tutte le formazioni sociali del
cattolicesimo italiano, consentisse di fronteggiare il modello sociale e
politico del neo-liberismo individualistico che si venne affermando dagli anni
’80 nel mondo e, dall’inizio degli anni ’90, anche in Italia, producendo una
rivoluzione tra i partiti politici che avevano retto le sorti nazionali. Come
ha scritto Fulvio De Giorgi in Fulvio De Giorgi, Fabio Caneri (a cura di), Ardigò.
Educare le comunità politiche. Coscienza etica e impegno Civile,
collana Maestri, Scholé - Morcelliana, 2021:
Leggendo infatti,
erroneamente, la globalizzazione neoliberale come un totalitarismo culturale si
pensò di opporle un totalitarismo culturale opposto, attestato sulla dottrina
cristiana, rigidamente codificata, su valori non negoziabili, su intransigenza
comunicativa e mobilitazione sociale di massa, per una semplificatrice
soluzione nazional-cattolica alla coesione sociale in difficoltà. Ma la
globalizzazione neoliberale non era un neo-totalitarismo, anzi era la
decostruzione post-moderna, preventiva e metodica, di ogni orizzonte totale di
discorso. E così la pastorale del Progetto culturale fu facilmente
neutralizzata, decostruita e metabolizzata, rubricandola come formulazione di
interessi cattolici, da accontentare, corporativamente, quanto basta, e da
accogliere finché si può, nella misura in cui non si attaccavano
l’individualismo ruggente, il mercato e il profitto.
I vescovi italiani imposero un’apparenza di comunione a tutte le
formazioni che caratterizzavano il cattolicesimo nazionale e che continuarono
ad animarlo anche dopo la gelata. Tuttavia quelle di orientamento
reazionario o neo-reazionario (basate sulla nostalgia di un neo-passato,
un passato in realtà mai accaduto, ma solo sognato) apparvero avere un accesso
privilegiato al Papa, durante il regno del papa Giovanni Paolo 2°. L’Azione
Cattolica non fu certamente tra esse. Essa si proponeva di educare persone
dalla fede adulta e i vescovi italiani in genere manifestarono una certa
idiosincrasia per quell’idea, diffidandone come generatrice di indisciplina e
di disunione. Fu l’epoca in cui venivano apprezzate le adunate oceaniche e
plaudenti ai piedi del Papa, che davano l’immagine (ma solo quella) di un
cattolicesimo identitario, popolare, compatto e numeroso. Non fu quello il
metodo dell’Azione Cattolica italiana, che pure storicamente lo aveva
praticato, radunando masse di fedeli in piazza San Pietro e altrove, forte dei
suoi tanti aderenti, i quali anche da quando il loro numero raggiunse minimi
storici, si contavano pur sempre intorno ai trecentomila. Perché non continuò a
farlo? Veniva rimproverata per non aver continuato su quella via. Ha scritto De
Giorgi nel libro che ho sopra citato:
Sembrava infatti che, per il vertice ecclesiastico italiano, il paradigma
da preferire e da perseguire non fosse quello di laici cattolici formati e
informati, bensì uniformati e conformisti. La comunità ecclesiale, dunque, non
puntava ad educare, con un lavoro necessariamente lungo e paziente,
all’autonomia e alla coscienza critica, evangelicamente critica, ma
puntava ad ottenere - con richiami da caserma e adunate oceaniche - ubbidienza
e docilità, da parte di un laicato tenuto perennemente minorenne, anzi bambino.
Ciò portò nel tempo ad una desertificazione delle voci più libere e creative,
senza che potessero fiorirne altre, più giovani, destinate a succedere loro.
Come una guerra lascia vuoti di generazioni e guasti che durano lungamente nel
tempo, ciò ebbe effetti di lungo periodo, con un inaridimento di massa del
laicato cattolico, con una quasi totale rottura nella trasmissione della fede
alle generazioni più giovani e con un evidente (e forse salutare) declino del
ruolo della Chiesa italiana nell’ambito della Chiesa universale.
Dagli anni ’80 l’Azione Cattolica
italiana fu tacciata di essere obsoleta, superata, da grandi neo-movimenti
ecclesiali di orientamento neo-reazionario che la accusavano di aver
provocato il tramonto del
cattolicesimo nazionale. Nelle polemiche
intraecclesiali di quegli anni merita di essere ricordato che egli anni ’80 si
svolse una durissima polemica tra l’Azione Cattolica, che continuava a seguire
la via della mediazione culturale, per capire la società in cui
si viveva e per inculturarvi i
valori evangeli con il metodo del dialogo, e Comunione e Liberazione, originata
da esperienze di Azione Cattolica negli anni ’60, che sostanzialmente si proponeva come la nuova
Azione Cattolica, proponendo di
praticare il metodo della presenza, vale a dire di contrapporre alle
altre formazioni della società italiana una propria identità comunitaria di
tipo quasi neo-tribale, in quanto
basata su una cultura comunitaria vissuta, praticata, proposta per la sola adesione,
senza possibilità di mediazione. Si arrivò a lanciare all’Azione
Cattolica accuse di eresia sotto specie di protestantesimo. A Milano, davanti
al vescovo Martini, fu anche introdotto un processo ecclesiastico per
diffamazione promosso da un’associazione cattolica, la Rosa Bianca, a cui per
inciso aderiva David Sassoli, lamentando la diffamazione di Giuseppe Lazzati in
un articolo pubblicato dal periodico di Comunione e Liberazione. La vicenda si
chiuse con il ritiro dell’esposto da parte della Rosa Bianca, a seguito di una
mediazione. Così ne riferì Repubblica:
ROMA Chiuso il caso-Lazzati. I 16 aderenti del
movimento cattolico Rosa bianca hanno ritirato dal tribunale ecclesiastico di
Milano la denuncia presentata contro Il Sabato in difesa della memoria storica
dell' ex rettore dell' università Cattolica, accusato di protestantesimo dal settimanale
ciellino. La difesa del professor Lazzati fatta sabato scorso dal cardinale di
Milano, Carlo Maria Martini, nell' aula magna dello stesso ateneo cattolico, è
stata considerata dai difensori dell' ex rettore come parola conclusiva della
polemica in corso col giornale di Cl. I 16 della Rosa bianca, oltre a
dichiararsi completamente soddisfatti per quanto il cardinal Martini ha detto
su Lazzati (Visse integralmente l' insegnamento del Vangelo operando in mezzo
al mondo), hanno fatto sapere che non si preoccupano più dell' impegno assunto
dal settimanale di pubblicare un articolo che rivaluti la figura del rettore.
La promessa della pubblicazione del pezzo riparatore era stata fatta dalla
direzione del Sabato dopo la mediazione dell' arcivescovo di Milano della
scorsa settimana. La Rosa bianca per la redazione dell' articolo aveva proposto
lo storico Pietro Scoppola o uno dei suoi più stretti collaboratori, ricevendo,
però, un immediato, anche se cortese, rifiuto. L' accordo, infine, era stato
raggiunto sul nome dell' attuale prorettore della Cattolica, monsignor Pietro
Zerbi. Dopo il chiaro intervento del cardinal Martini afferma Vinicio Russo,
uno dei firmatari dell' esposto ci sentiamo completamente soddisfatti, in
quanto le parole dell' arcivescovo per noi rappresentano la migliore
riabilitazione che si potesse immaginare. Si è trattato di un autorevole ed
insindacabile intervento, che, di fatto, ha rimesso le cose a posto. E, di
conseguenza, come Rosa bianca, abbiamo deciso di ritirare l' esposto senza
attendere l' articolo del Sabato.
In quel clima, dal 1983, nella nostra
parrocchia si insediò uno dei nuovi movimenti comunitari e mi parve che
progressivamente lo si sia voluto proporre come unica via per fare Chiesa da noi. Questo mi parve provocare problemi con
la gente del quartiere, che spesso se ne mostrava insofferente. Cominciò quindi
ad arrivare gente da fuori, solo per vivere in quel movimento. Successivamente
nella nostra parrocchia si insediò un altro movimento di neo-spiritualità
che, come il primo, iniziò a richiamare gente da fuori.
Va detto che l’Azione cattolica parrocchiale,
benché sia federata con le strutture diocesana e nazionale, per l’articolazione
caratteristica statutaria dell’associazione è profondamente radicata nella
parrocchia, non è una frazione ma
parte autonoma in una struttura
federale che cresce dal basso. Non impone né una spiritualità né una teologia
proprie caratteristiche. E’ retta con
metodo democratico.
Inutile rivangare ulteriormente il passato.
Basti dire che tra il 1983 e il 2015 l’Azione Cattolica parrocchiale non si
sentì particolarmente apprezzata, anche se certamente riuscì a sopravvivere
fino a che, ad un certo punto, l’orientamento di chi dirigeva la parrocchia
cambiò, e ancora oggi vive. Tuttavia, come in altre situazioni
ecclesiali, è stato interrotto il ricambio generazionale, non essendo stata più
proposta come via per l’approfondimento della vita e della cultura di fede. Mancano
quindi i più giovani, la fascia fino ai trent’anni. E questo mentre la
parrocchia, come anche accadeva altrove, perdeva tanti giovani dopo la Prima
Comunione o la Cresima, che comincia ad essere definito ormai il sacramento
dell’addio.
2. Le conseguenze sulla nostra
sinodalità. Le informazioni di storia ecclesiastica che ho
dato, e che ho tratto oltre che dalla mia memoria personale e da diversi libri,
tra i quali, oltre a quello di Fulvio De
Giorgi che ho sopra citato, segnalo quello di Giuseppe Ruggieri, Chiesa
sinodale, Laterza 2016 (anche in ebook), vanno tenute presenti nel progettare
e programma la sinodalità parrocchiale.
Delle circa 1.000 persone che può stimarsi
frequentino abitualmente la parrocchia, circa un terzo può ritenersi vi vengano
per partecipare principalmente per frequentare movimenti che vi si sono insediati,
non per vivere la parrocchia, nella quale spesso neppure risiedono. Queste
persone sono molto impegnate nei movimenti di riferimento, che assorbono molto
del loro tempo con una spiritualità molto impegnative, e si sono dimostrate fin
qui poco propense a lavorare con le altre persone della parrocchia, con le
quali non di rado appaiono in una certa polemica, in particolare criticandone
gli stili di vita troppo poco impregnati di religiosità. Per ciò che me ne è stato
riferito, la progressiva impraticabilità, e quindi l’obsolescenza, del Consiglio
pastorale parrocchiale è conseguita essenzialmente dall’impossibilità di
trovare un campo comune di impegno. Gli aderenti a quei movimenti non di rado presentano
il momento della loro adesione come una vera e propria rinascita e
quindi mi pare che vivano come un ritorno alla situazione di prima, che
li aveva delusi, ogni commistione con l’altra gente, anche di fede.
Delle altre persone, può stimarsi che,
attualmente, solo qualche decina abbia tempo, in termini di ore/settimana,
per lavorare nel campo della sinodalità, in particolare in su un qualche
progetto concreto, che non consista solo in chiacchiere.
Queste le forze in campo.
Del resto, nei Vangeli si narra che il Maestro
iniziò raccogliendo intorno a sé dodici uomini, in una società che in genere,
disposta ad accettare la sua benefica opera di guaritore prodigioso, si mostrava
non sempre ben disposta ad accogliere il suo invito alla conversione al suo
vangelo. Noi siamo sicuramente messi molto meglio, perché, nonostante spesso si
pensi diversamente, viviamo in una società profondamente impegnata dell’etica
cristiana, vale a dire nella quale, certo, si fa il male su larga scala, come
del resto è sempre avvenuto, ma per distinguere
il bene dal male si fa ancora riferimento ai principi cristiani. Inoltre la maggioranza
della gente, quando cerca di immaginare il soprannaturale, un’idea di un dio,
immagina secondo l’immaginario dei cristiani, il Padre, il Figlio, lo Spirito
Santo, la Madonna, i Santi. Non è poco, se ci si determina a lavorarci sopra
con una certa sapienza.
E’
consigliabile quindi organizzare la sinodalità dal piccolo per estenderla più
in grande non per convocazione massiva, ad esempio mediante un annuncio
pubblico, o per lo meno non solo
mediante esso, ma tessendo pazientemente
relazioni forti, vale a dire che rechino un impegno spiritualmente
motiva di ore/settimana da spendervi
sopra, al modo di chi lavora a maglia e procede punto per punto confezionando anche lavori grossi, come una
grande coperta.
Non basta proporre di riunirsi per discutere
di sinodalità, è necessario
organizzarne il tirocinio sulla base degli interessi che si manifestano nelle persone
disposte a impegnarvisi. Esse, poi, impratichendosi di sinodalità, potranno
essere la base di ulteriori gruppi sinodali. Chi si impratichisce può anche
insegnare.
E’ importante, nei gruppi sinodali iniziali,
chiarire quali sono gli interessi sul quali le persone sarebbero disposte a
dare ore/settimana. Per evitare che le persone rimangano confinate nel
gruppo di interesse, ma imparino a relazionarsi anche con le altre che operano
altrove, e in particolare con quelle che hanno deciso di impegnare tempo nei servizi
parrocchiali, si potrebbe deliberare che una parte del tempo, in ore/settimana
che ciascuna persona è disposta a impiegare nella sinodalità nel campo di specifico
interesse, ad esempio in un gruppo parrocchiale di lettura per autoformazione,
sia impiegata anche nell’attività svolta da un altro gruppo sinodale o in uno
del servizi parrocchiali, ad esempio affiancando le persone che fanno le catechiste
ai ragazzi più grandi, in modo, in particolare, a spiegare in questo ambiente
la sinodalità praticata e da contribuire a inculturarla.
Ma che fare con le persone che frequentano la
parrocchia e che di sinodalità non vogliono sentir parlare, addirittura
ritenendola pericolosa e contaminante
per la propria spiritualità? E’
questione che andrebbe affrontata nel Consiglio pastorale parrocchiale,
che da noi, però, non è operativo. Sarebbe una buona idea riattivarlo. Non bisogna
aver paura che poi al suo interno ci si scontri, purché si discuta, perché
lavorando insieme, conoscendosi meglio, penso che alla fine si arriverebbe ad
intendersi, soprattutto se si rivedesse la composizione dell’organismo in modo
da bilanciare il peso delle varie componenti, in modo che nessuna possa prevaricare
e si inserissero persone note per la loro capacità di mediazione (cosa di cui
io ad esempio sono poco capace). Si potrebbe pensare a occasioni non
specificamente sinodali, ma comunque di compresenza per qualche attività
interessante, come ad esempio un viaggio. I tempi di pandemia, purtroppo,
ostacolano cose del genere, ma può prevedersi che, nella bella stagione, si
avrà una ciclica regressione dei problemi sanitari consentendo una più vasta socialità.
L’importanza è come accadde tra l’89 e
il ’90 tra Europa occidentale e quella orientale, aprire varchi nei muri e
potersi incontrare. Tra persone religiose, quindi animate da alte concezioni
della socialità, alla fine inevitabilmente si arriverebbe a individuare
qualcosa da fare in comune. Non sarebbe male cercare di ottenere di limitare l’autoritarismo
interno alle formazioni che operano in parrocchia, come condizione ineludibile
per continuare ad abitarla. Parliamo di totalitarismo ecclesiastico, ma
certe volte mi sono trovato di fronte a casi di totalitarismo di movimento
non meno aspro (e dannoso). Occorre cercare un terreno organizzativo comune nei
principi deliberati durante l’ultimo Concilio, in base ai quali va escluso che sia
consentito a chiunque di provare a rifare le persone da capo, distruggendo quello che erano
prime e tiranneggiandole per cambiarle secondo un qualche modello. Questo è lavoro
per lo Spirito, tanto invocato a sproposito talvolta, non per qualche
autoreferenziale e autocratico capetto.
Mario Ardigò – Azione Cattolica
in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli