Per informarsi sul WEB sui cammini
sinodali
Sito del Sinodo 2021-2023 (generale)
Siti del cammino sinodale delle Chiese italiane
https://camminosinodale.chiesacattolica.it/
Sito della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi
http://secretariat.synod.va/content/synod/it.html
Manuale di sinodalità
-4-
“No, il dibattito, no”
Nel film di Nanni Moretti Sono un autarchico, del
1976, c’è una sequenza che presenta un cineforum al momento in cui al termine
del film dovrebbe iniziare il dibattito. Tutti però stanno iniziando ad alzarsi
per uscire. Il conduttore li richiama, con scarso successo, perché
restino. A quel punto uno dei presenti, interpretato da Moretti, si alza e se
ne va gridando “NO, IL DIBATTITO,NO!”. La gente non ha voglia di
discutere. Ha visto il film e le basta. Però il cineforum non si fa solo per
questo. Purtroppo anch’io sono stato uno spettatore superficiale di cineforum,
di quelli che non rimanevano, quando mia madre un anno, negli anni Settanta, mi iscrisse ad uno che tenevano i salesiani
della vicina loro università, condotto dal prof. Noël Breuval, grande anima, che all’epoca dirigeva il Centro
per gli audiovisivi, che ora si chiama Scuola della Comunicazione
sociale ed è inserito nella Facoltà di Scienze della Comunicazione
sociale. Eravamo in pochi, quell’anno, non più di una ventina, in
prevalenza religiosi che lì studiavano. Il professore introduceva il film con
una presentazione sempre molto interessante, e da quello ho appreso
praticamente tutto ciò che so del cinema, in modo che, guardando l’opera,
potessimo capire bene il passaggi
fondamentali. Poi, appunto, introduceva il dibattito, in modo altrettanto
interessante, e, infine, dava la parola ai presenti. A quel punto me ne andavo.
Mia madre mi aveva raccomandato di rimanere e di partecipare, e, naturalmente,
in quanto adolescente, facevo l’opposto. Ora me ne dispiace tanto, soprattutto
perché, vivendo quell’esperienza in un piccolo gruppo, avrei potuto
interloquire direttamente con il prof. Breuval e averne preziosi orientamenti
per la vita, un grandissimo arricchimento. Ora lo capisco bene, ma i giovani,
spesso, sono ciechi e sordi, quando si presentano loro certe occasioni.
Nella
vita ecclesiale, Azione Cattolica a parte – in essa ho appreso i fondamenti
della democrazia e ne ho fatto tirocinio, quel mio atteggiamento, di sottrarmi
al dibattito, è esattamente ciò che ci si attende da chi, non essendo chierico
o religioso, è libero di dire la propria. E’ un orientamento organizzativo che
mi pare molto rigido e persistente. E’ espresso anche nelle linee guida per il Cammino
sinodale delle Chiese italiane [Indicazioni metodologiche per diocesi,
parrocchie e referenti nel primo anno del cammino sinodale (2021-2022)] che
sono state diffuse il 5 novembre scorso:
https://camminosinodale.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/2021/11/Schede.pdf
ed
esattamente in quelle che, pretenziosamente, vengono definite Regole d’oro:
Regola
3. Non procedere mai per dibattito, ma per accostamento di
prospettive. Un gruppo di ascolto sinodale non è un talk show o un dibattito
televisivo, dove ognuno cerca di sovrapporsi alla parola degli altri. Il
discernimento è frutto di un consenso che nasce dall’ascoltare tutti con
rispetto.
Questo indirizzo si
ritrova anche nel Vademecum per il Sinodo sulla sinodalità, diffuso
dalla Segreteria del Sinodo dei vescovi il mese precedente
https://www.synod.va/content/dam/synod/document/common/vademecum/IT-Vademecum-Full.pdf
2.2 […[ Il
processo sinodale è prima di tutto un processo spirituale. Non è un esercizio
meccanico di raccolta di dati o una serie di riunioni e dibattiti. L’ascolto
sinodale è orientato al discernimento.
[…]
2.3 […]
• Non si
tratta di impegnarsi in un dibattito allo scopo di convincere gli altri. Si
tratta piuttosto di accogliere ciò che gli altri dicono come un modo attraverso
il quale lo Spirito Santo può parlare per il bene di tutti (1 Corinzi 12,7).
• Il
dialogo ci porta alla novità: Dobbiamo essere disposti a cambiare le nostre
opinioni in base a ciò che abbiamo sentito dagli altri.
Appendice
B
8. Si può
usare un metodo adatto per il dialogo di gruppo che rifletta i principi della
sinodalità. Per esempio, il metodo della Conversazione Spirituale promuove la
partecipazione attiva, l’ascolto attento, il discorso riflessivo e il
discernimento spirituale. I partecipanti formano piccoli gruppi di circa 6-7
persone di diversa provenienza. Questo metodo richiede almeno un’ora per la sua
esecuzione e comprende tre parti. Nella prima, ognuno, a turno, condivide il
frutto della propria preghiera, in relazione alle domande per la riflessione
fatte circolare in precedenza (cfr. n. 5 di questa Appendice). Non è
previsto alcun dibattito in questa fase; i partecipanti semplicemente
ascoltano a fondo ogni persona e osservano come lo Spirito Santo sta agendo in
loro stessi, nella persona che sta parlando e nel gruppo nel suo insieme.
Segue un tempo di silenzio per osservare i movimenti interiori di ciascuno. Nella
seconda parte, i partecipanti condividono ciò che li ha colpiti di più nel
primo blocco e durante il tempo di silenzio. Si può anche fare un po’ di
dialogo ma mantenendo la stessa attenzione spirituale. Anche questo blocco è
seguito da un tempo di silenzio. Infine, nel terzo blocco, i partecipanti
riflettono su ciò che nella conversazione ha loro mosso qualcosa dentro e su
ciò che li ha colpiti più profondamente. Vengono rilevate anche intuizioni
nuove e domande che non hanno ancora trovato una risposta. Preghiere spontanee
di gratitudine possono concludere la conversazione. Di regola ogni piccolo
gruppo avrà un moderatore e un segretario che prenda appunti (potete trovare
una descrizione dettagliata di questo processo sul sito web del Sinodo dei
Vescovi).
La fissa clericale anti-dibattito
è piuttosto radicata e viene fuori tutte le volte che si precisa
puntigliosamente che sinodalità non è
democrazia e che nella fase di ascolto
chi parla non deve pensare di essere
in un parlamento (insomma di poter contare qualcosa per qualcuno in
qualche campo). E’ un sistema di pensiero che origina culturalmente dal
pervicace totalitarismo antidemocratico che il Papato ha espresso dalla metà
dell’Ottocento, anche se, interpellati espressamente in merito, coloro che lo
predicano in genere negheranno sdegnati di essere contro la democrazia. Semplicemente non la vogliono nella
Chiesa e questo perché in essa dovrebbe agire lo Spirito, qualunque
cosa ciò significhi in concreto. In realtà, al dunque, vogliono dire che nella
Chiesa conta solo ciò che la gerarchia ha deciso che debba essere
considerato verità, in
particolare quando parlano coloro che hanno conquistato la libertà di
coscienza, di parola e di pensiero, vale a dire quelli che non hanno
accettato di essere incatenati nelle maglie gerarchiche. Vale a dire tutti, tranne chierici e religiosi (non
c’è da stupirsi, poi, del calo verticale delle vocazioni in Europa, in cui le
consuetudini democratiche hanno preso molto piede dal Secondo dopoguerra e,
comunque, hanno trovato la loro formulazione ideologica contemporanea).
Sto passando in rassegna materiale di
sinodalità che le Diocesi e le parrocchie pubblicano sul Web. Mi è passato
sott’occhio un provvedimento di un vescovo, del 2008, con il quale è stata
istituita un’Assemblea parrocchiale, regolandone in dettaglio il funzionamento
procedurale. Mi ha incuriosito
perché di solito è materia che è lasciata ai parroci e ai Consigli Pastorali
parrocchiali. Il lavoro dell’assemblea, alla quale formalmente hanno titolo a
partecipare tutti i battezzati, è
definito come quello di discernimento prudenziale del da farsi, sulla base
delle proposte del Consiglio pastorale parrocchiale (che non ha membri
eletti dall’Assemblea).
Ebbene, nella parte relativa al Metodo di
lavoro dell’assemblea è scritto
c) il Moderatore, [un membro dell’Equipe
pastorale che esercita di fatto la
presidenza, nonostante essa sia formalmente attribuita la parroco] secondo il metodo indicato, dà la
parola a tutti i presenti perché esprimano il loro parere motivato, evitando
che si facciano dibattiti.
Ora, chi
ha pratica di lavoro in assemblea, sa che, se non è consentito di dibattere,
vale a dire di cercare di confutare gli argomenti degli avversari e di replicare
alle confutazioni altrui, non si cambia idea semplicemente ascoltando come la pensano gli
altri. E questo soprattutto quando si partecipa in rappresentanza di un altro
gruppo, ad esempio un’articolazione parrocchiale (“i catechisti” ecc.),
un’associazione, un movimento, una confraternita che sono presenti in
parrocchia con proprie articolazioni. A quel punto, seguendo quel metodo, è
decisiva, nell’esito della votazione, l’esposizione delle conclusioni di chi
presiede e parla per ultimo, in un parrocchia il parroco o un suo delegato o
comunque incaricato (il membro dell’Equipe pastorale nel caso
dell’Assemblea parrocchiale di cui si diceva). La forza di quelle conclusioni è
accentuata quando la funzione di chi parla è in qualche modo sacralizzata,
come accade per gli esponenti della gerarchia e dei suoi delegati. Infine, per
come la sinodalità è stata finora tradotta in norme di regolamento, il titolare
del potere gerarchico ha sempre la possibilità di bilanciare orientamenti che
prevede sfavorevoli nominando a sua discrezione membri di sua fiducia, che gli
sono fedeli o siano tenuti ad esserlo. Questa organizzazione non può essere
definita sinodale, perché, sostanzialmente, l’esito delle sue decisioni
è prestabilito e si vuole che sia conforme all’orientamento espresso dal gruppo
di governo dell’istituzione di riferimento accreditato dalla gerarchia. Nei
sistemi totalitari, del resto, questa è appunto la regola e la nostra Chiesa,
dal punto di vista della sociologia del suo potere, è un sistema
totalitario. La sinodalità proposta da papa Francesco vorrebbe allargare
questo schema, ma le strutture procedurali e organizzative finora previste per
questo lavoro non sono ancora adeguate. I cammini sinodali, allora,
rischiano di essere strumentalizzati a fini meramente propagandistici.
La
decisione collettiva cresce nel
confronto dialogico, quindi nel dibattito, proprio quello che terrorizza
i clericali. Non basta proporre una propria prospettiva, vale a dire
quello che si crede di aver già capito su una questione. E non è detto
che si debba cambiare totalmente idea sentendo gli altri. Nel dialogo si giunge
ad una visione più completa dei problemi, quindi a sapere di più. Questo effetto è fondamentale per
l’organizzazione del lavoro intellettuale, che, per essere efficace, richiede
di integrarsi in una comunità di
studiosi. Il vantaggio cognitivo del dialogo è anche alla base dei processi
democratici. Ecco lo schema che ne feci anni fa, illustrando un processo di
riforma costituzionale che poi, dopo un acceso dibattito pubblico, non fu
approvato dagli elettori:
Il disegna spiega l’evoluzione comunitaria
delle prospettive individuali. La prospettiva A e quella B, ciascuna propria di
un solo partecipante al dialogo, nel dialogo divengono patrimonio intellettuale
comune, cioè vengono conosciute da entrambi i partecipanti, pur
rimanendo questi ultimi ancora legati ciascuno a quella propria. Nella
successiva fase di dialogo le prospettive si integrano, dando luogo a una
prospettiva comune AB, condivisa da entrambi i partecipanti e che non è solo la
somma di quelle iniziali (A+B), ma una nuova prospettiva. Senza questo momento non si
produce nulla di collettivo e, anzi, la collettività non si manifesta come
tale. Le culture umane evolvono solo mediante quello schema e, se non
evolvono, muoiono. Nessuna cultura umana è mai stata creata dal nulla.
La conferma per così dire sperimentale la si ha
nell’evoluzione delle lingue. La nostra lingua, che non è altro che il
latino moderno, conserva tracce di antichissime parlate indoeuropee, che i nostri progenitori si sono portati
dietro nelle loro migrazioni, venendone modificate nelle interazioni culturali.
I
clericali pensano in realtà che non si debba produrre nulla di veramente nuovo
e che la sinodalità serva a far accettare a una collettività una prospettiva
predeterminata. Per questo non vogliono che degli argomenti sul tavolo si
dibatta. Ognuno dice la propria e poi un moderatore/presidente espressione del gruppo di comando e integrato
nella gerarchia spiegherà che le prospettive emerse nel complesso non sono altro che la soluzione predeterminata
che si voleva far accettare. Lo Spirito, si dirà, spinge in quel senso e
ognuno deve sottomettervisi.
La
riprova è quando si propone di allargare gli spazi decisionali di una
collettività, anche su questioni minime. Si assisterà fatalmente ad un
irrigidimento invalicabile, perché, da parte di chi non si è legato
organicamente alla gerarchia, come accade ai più, non si accettano che pareri
consultivi, lasciandosi le mani libere di fare e disfare a discrezione.
Questa è
appunto la situazione da superare, valicando muri d’incenso e pipponi
spiritualistici. Nelle procedure sinodali i predicatori vanno messi al loro
posto, perché non debordino: si riserveranno loro i fervorini iniziale e
finale. Per il resto ci si deve sforzare di stare ai fatti e agli argomenti. Ci si deve spiegare con chiarezza e senza
fraintendimenti o mascheramenti in ecclesialese. Non si tratta di varare
nuove definizioni. Bastano e avanzano quelle che già ci sono, che sono
costate un prezzo umano altissimo. Si tratterà solo, di volta in volta, in
ambito parrocchiale, di decidere come organizzare delle attività, i compiti da
assegnare, come impiegare le risorse parrocchiali e, in particolare, i locali e
via dicendo. Si deve arrivare a una decisione collettiva riconosciuta valida e
impegnativa da tutti, compreso il gruppo di comando. La collettività deve poi
esercitare una pressione per ottenere che quelle decisioni siano rispettate. Dirlo
e scriverlo viene facile e sembra tutto ragionevole, nella pratica tutto è più
complicato, perché la nostra Chiesa è ancora un’autocrazia totalitaria, un
apparato obsoleto (lo riconoscono gli stessi nostri gerarchi) che sta andando
rapidamente a fondo perché non riesce a riformarsi. Nel quale si vive un immane
spreco di umanità, per lasciare le mani libere solo a quelli che accettano di
farsi incatenare in una gerarchia ideata nel Medioevo e che si è costruita
addosso una fantasiosa leggenda sacralizzata dura da sfatare. Una cosa
veramente intollerabile in particolare quanto alla dura emarginazione delle
donne che la gerarchia appare voler mantenere a tutti i costi. Ad un prete o ad
un religioso criticarla apertamente come merita può costare molto caro. Spetta
allora a noi persone laiche, che ci siamo conquistati la libertà anche nelle
cose di religione, farlo.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli