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Manuale operativo di sinodalità
- 10.2 -
- Il metodo – 2
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Nell’esercizio della sinodalità ecclesiale, le relazioni tra persone laiche, da una parte, e preti e religiosi, dall’altra, non sono in genere facili. Immancabilmente c’è sempre chi, tra preti e religiosi, sbotta che i laici vogliono fare i preti. È incredibile, e sconfortante, quando questa sciocchezza esce dalla bocca dei giovani: manifesta una evidente carenza formativa.
No, le persone laiche non vogliono fare i preti, perché si sono conquistate la libertà anche nella Chiesa e ad essa in genere tengono. Preti e religiosi, allora, non sarebbero liberi? No, non lo sono, incastrati come sono nella cosiddetta gerarchia. Non spetta a noi persone laiche però risolvere la loro questione esistenziale, che è alla base del calo verticale delle vocazioni in Europa, dove si è affermata una civiltà che riconosce le libertà civili come costitutive della dignità della persona. A noi compete di rivendicare il nostro ruolo nella Chiesa, affrancandoci dalla dura condizione di emarginazione che ancora subiamo e che è riconducibile alla gerarchia, così com’è ora. Non vogliamo essere preti ma rivendichiamo nuovi ministeri, che possano essere esercitati senza essere preti, come, ad esempio, quello del catechista di recente istituito da papa Francesco e del quale, che io sappia, non sono state ancora stabilite le norme attuative. Con il battesimo ogni cristiano è, come dire, cittadino della propria Chiesa e partecipa alla sua missione non solo come platea orante o plaudente.
Qui sotto trascrivo un paragrafo del manuale di catechetica del salesiano Alberich, che può essere utile per chiarire il contesto teologico della partecipazione delle persone laiche alle esperienze di sinodalità che si sono avviate dallo scorso ottobre. Si tratta di un’argomentazione plausibile e certamente non nuova, ma che di solito non rientra nella formazione delle persone laiche, che sono spinte a stare a ricasco di preti e religiosi, quali animatori della liturgia cultuale.
C’è ancora oggi una frattura verticale tra chi ritiene che in definitiva la Chiesa serva principalmente ad animare il culto, in particolare nella celebrazione dei sacramenti, e che il contesto sociale intorno sia indifferente quando non incide su quell’attività, e chi invece ritiene molto importante partecipare come Chiesa alla costruzione sociale, per ordinarla secondo Dio, vale a dire secondo i valori cristiani. Nelle Costituzioni del Concilio Vaticano 2º Luce per le genti e La gioia e la speranza si prese atto che quest’ultimo era diventato il campo principale dell’attività della gran parte delle persone di fede, mentre preti e religiosi si occupavano prevalentemente del culto divino. Si potrebbe osservare che in Italia preti e religiosi dall’Ottocento svolsero un ruolo importante nella costruzione sociale, tanto che il pensiero e l’attivismo di due preti, don Romolo Murri e don Luigi Sturzo, furono fondamentali per la costruzione del partito politico che dal 1945 al 1994 fu fondamentale nell’istituzione di una nuova Repubblica dopo la fine del fascismo mussoliniano e nella direzione della politica italiana.
L’esperienza sociale e politica delle persone di fede in Italia e in Europa non venne condotta fuori della Chiesa, ma partì proprio nella Chiesa, contribuendo a cambiarla, anche se i clericali in genere non lo riconoscono o presentano i cambiamenti come degenerazione. Se si vuole che la Chiesa e i suoi valori continuino ad essere rilevanti in Europa in quest’epoca di veloci cambiamenti, è necessario ampliare lo spazio per le persone laiche nella Chiesa, perché possano essere efficaci, fuori, anche nella società in cui la Chiesa è immersa. Questo è appunto ciò che si vorrebbe ottenere stimolando la sinodalità totale, intesa come reale partecipazione di tutti nella Chiesa a ciò che riguarda tutti. In questo siamo veramente molto indietro. E, a parte il partito clericale che vi si oppone strenuamente - non dobbiamo pensare alla nostra Chiesa come a una realtà sociale pacificata, in genere tutti non sanno bene che fare perché di sinodalità non si è mai fatto tirocinio, ne è mai rientrata nella formazione di base, salvo che nelle organizzazioni che fanno riferimento all’Azione Cattolica.
Rispetto alle attività che oggi si fanno in una parrocchia, l’esperienza di sinodalità si caratterizza per non essere finalizzata principalmente a una sorta di benessere spirituale di chi vi partecipa, secondo quella concezione della religione come medicina dell’anima. Si lavora per costruire fuori da se stessi. Questo spiega perché la spiritualità c’entra, certo, perché si lavora pur sempre da persone di fede e come Chiesa, ma non deve essere l’aspetto principale, non deve assorbire tutto. Quando ci si riunisce sinodalmente, così, non bisogna prendere esempio dai monaci e dai frati, che si irregimentano nelle loro congregazioni immaginando di vivere una super spiritualità. Altrimenti il nostro riunirci sarebbe inutile. Né bisogna stare a ricasco dei preti, che dovrebbero partecipare a queste attività, quindi all’interno del gruppo sinodale (del quale senz’altro possono far parte), in condizione di uguaglianza rispetto a chi prete non è. Naturalmente bisognerà poi tener conto dei preti quando si tratterà di impostare la co-decisione, nelle materie nelle quali si deciderà di essere sinodali, e quindi di co-decidere, dove il loro ministero sia effettivamente implicato (non lo è sempre), quindi nelle relazioni tra gruppo sinodale e parroco o collegio presbiterale, all’esterno del gruppo sinodale, e allora, in quei campi e solo in quelli, la regola consigliabile è quella del «non senza i preti, ma non solo dai preti»: insomma che nessuno possa fare da solo. Ma, ad esempio, se si decide di scegliere sinodalmente di attivare un’attività sportiva o culturale da svolgere nel nostro pratone, non ci sono ragioni per dare ai preti un diritto di veto. Parlo del pratone perché ho letto che proprio in parrocchia si costituì il comitato che con lotte durate molte anni, alla fine conquistò il nostro bel parco. La lotta per il verde pubblico, come in genere quella per la tutela dell’ambiente ha sicuramente significato religioso, come spiegato nell’enciclica Laudato si’, del 2015.
Fare spazio significa, nelle esperienze di gruppi sinodali, eleggere una presidenza che consenta di regolare in modo ordinato il dibattito sugli argomenti in decisione e di disciplinare il voto, nella fase decisionale, rendendola effetttiva. Propedeutica a questa fase cruciale è l’approvazione di un regolamento che disciplini il modo di eleggere l’ufficio di presidenza, la sua durata, i compiti, la scadenza. Data l’importanza della funzione è consigliabile che l’elezione avvenga con una maggioranza qualificata, ad esempio quella dei due terzi degli aventi diritto.
La nostra socialità richiede, anche nella sinodalità ecclesiale, un ufficio di coordinamento, altrimenti la società non si manifesta realmente. Esso deve essere espresso dai membri sinodali e il suo potere non deve essere senza limiti o con limiti fissati in modo troppo vago. Deve esserne previsto il ricambio periodico. Meglio che l’ufficio sia collegiale, con partecipazione paritaria di uomini e donne, e che io ricambio riguardi solo una frazione alla volta, in modo che i nuovi eletti possano acculturarsi all’ufficio nella relazione con chi c’era prima.
Mario Ardigó- Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.
[da: Emilio ALBERICH, Manuale di catechetica fondamentale, Elledici 2001, pag, 262-263]
Nota mia: il prof. Alberich insegnava catechetica nella facoltà di Scienze dell’educazione dell’Università Pontificia Salesiana negli anni ’70, quando vi studiò mia madre Annarosa Messini D’Agostini]
2.3. La rivoluzione cristiana del culto come «liturgia della vita»
Se la liturgia cristiana si qualifica come «esercizio del sacerdozio di Cristo» (dalla Costituzione sulla divina liturgia Sacrosanctum Concilium, del Concilio Vaticano 2º), risulta illuminante sottolinearne il carattere originale e universale e ricuperare alla sua luce il significato veramente rivoluzionario del culto cristiano.
Il sacerdozio di Cristo, come attesta la lettera agli ebrei, rappresenta una radicale novità di fronte alle concezioni vetero-testamentarie e pagane del sacerdozio. Gesù, infatti, non appartenendo al ceto sacerdotale ebraico, non esercita un sacerdozio cultuale e liturgico ma, consacrato sacerdote fin dall’Incarnazione, offre tutta la sua vita, e specialmente la sua morte e risurrezione, come sacrificio perfetto di una nuova ed eterna alleanza. Questo sacerdozio non si attua per mezzo di riti o offerte sacrificali: il nuovo è definitivo sacrificio è quello della vita donata nel compimento della volontà di Dio (confronta la Lettera agli Ebrei, capitolo 10, versetto da 5 a 7 – Eb 10, 5-7). Nel mistero pasquale di Cristo, che è sacerdote altare è vittima, si consuma la pienezza del sacerdozio.
[cita da J. Mateos, Cristiani in festa, Dehoniane 1981: «Cristo, offrendo se stesso ha posto termine al culto dell’Antico Testamento e al suo ritualismo esteriore (Eb 10,9). Il suo sacrificio, infatti, non è una realtà parallela alla sua esistenza, ma assume la stessa esistenza, dal suo ingresso nel mondo (Eb 10,5) fino alla morte sulla croce (Eb 2,14; 12,2).
Resa «popolo sacerdotale» per mezzo dello Spirito, la Chiesa partecipa della dignità e novità de, sacerdozio di Cristo. Come quello di Cristo, il suo è
«il sacerdozio della vita, consegnata agli uomini per fedeltà a Dio; il suo luogo sacro è il mondo, il suo tempo Sacro è la storia, illuminata dalla speranza, la sua e il suo sacerdote è l’uomo, consacrato a Dio e al prossimo. La consacrazione si riceve nel battesimo che incorpora a Cristo, alla sua morte e alla sua vita; il suo esercizio è la vita intera: gioia e dolore, festa o lavoro».
È molto importante ribadire l’originalità del culto cristiano come “culto spirituale» e offerta della vita (confronta la lettera ai Romani, capitolo 12, versetto 1 e 2 – Rm 12,1-2), come attesta chiaramente la terminologia neotestamentaria e la prassi dei primi cristiani. Essi hanno preferito essere chiamati atei, i «senza culto», piuttosto che travisare la novità del loro sacerdozio. Avevano una liturgia, ma espressa in un linguaggio non cultuale. La loro liturgia, il loro culto era la vita stessa offerta in sacrificio. Ora, esiste sempre il pericolo di perdere questi tratti originali e ricadere in una concezione cultuale della liturgia:
«Vediamo qui il vero concetto di culto cristiano: non può essere separato dalla vita, ma consiste nella vita cristiana. Questo concetto – l’ho già detto – non è connaturale all’uomo, che spontaneamente mette una differenza tra culto e vita. Anche i cristiani lo fanno spontaneamente. È necessaria una continua rieducazione per far capire che Cristo ha cambiato questa situazione è che adesso non c’è culto autentico al di fuori dell’offerta personale esistenziale. Il culto cristiano non consiste in cerimonie, non consiste nemmeno in sacramenti, consiste nell’offerta della propria persona nella vita concreta. Mi pare che dobbiamo ripetere questo molte volte, perché entri veramente nelle menti e nei cuori.
[da A. Vanhoye, I due aspetti del sacerdozio cristiano, in «Presenza pastorale», 1987]
Va ripensato perciò il significato – pur sempre centrale- della vita liturgica, superando ogni enfasi unilaterale sulla dimensione cultuale dell’esperienza cristiana. Se è vero che «la liturgia è la fonte sorgiva di ogni iniziativa di carità» [cita A. Fallico, Pedagogia pastorale questa sconosciuta. Itinerario di formazione per operatori presbiteri, religiosi e laici, Chiesa-Mondo, 2006], è la carità a garantire la «verità» della liturgia. Essa, come la Chiesa, non costituisce un fine a se stessa, ma va riferita al progetto del Regno nella totalità delle sue realizzazioni e valori. Slegata da questa tensione essenziale, staccata dalla liturgia della vita, essa degenera facilmente in ritualismo e viene meno alla sua funzione.