Contro il totalitarismo ecclesiastico
[da
Fulvio De Giorgi, Fabio Caneri (a cura di), Ardigò. Educare le comunità
politiche. Coscienza etica e impegno Civile, collana Maestri, Scholé
- Morcelliana, 2021, pag.39, 41-42 - Fulvio De Giorgi, Un maestro]
[dagli
anni ‘90] Sembrava infatti che, per il vertice ecclesiastico italiano, il paradigma
da preferire e da perseguire non fosse quello di laici cattolici formati e
informati, bensì uniformati e conformisti. La comunità ecclesiale, dunque, non
puntava ad educare, con un lavoro necessariamente lungo e paziente, all’autonomia
e alla coscienza critica, evangelicamente critica, ma puntava ad ottenere - con richiami da
caserma e adunate oceaniche - ubbidienza e docilità, da parte di un laicato
tenuto perennemente minorenne, anzi bambino. Ciò portò nel tempo ad una desertificazione
delle voci più libere e creative, senza che potessero fiorirne altre, più
giovani, destinate a succedere loro. Come una guerra lascia vuoti di
generazioni e guasti che durano lungamente nel tempo, ciò ebbe effetti di lungo
periodo, con un inaridimento di massa del laicato cattolico, con una quasi
totale rottura nella trasmissione della fede alle generazioni più giovani e con
un evidente (e forse salutare) declino del ruolo della Chiesa italiana nell’ambito
della Chiesa universale.
E se il pontificato di Bergoglio ha trovato
ancora qualcosa, forse il merito maggiore va a questa area, lungamente emarginata,
di cattolici del consenso critico e del dissenso mite (ma mai annacquato o pavido).
[…]
In Italia i vertici di una sempre più verticistica
compagine ecclesiale lessero i processi in corso, quelli della globalizzazione,
come una forma di neoideologia anti-cristiana, come un nuovo totalitarismo
culturale, successivo al comunismo ma in qualche modo in continuità con esso
per il carattere ateo e materialistico. Elaborarono pertanto una strategia
pastorale di risposta, nella forma del «Progetto
culturale», che apparve di grande respiro, anche se poi non si
rivelò tale. Essa, in ogni caso, nasceva da un notevole sforzo di intelligenza,
che tuttavia condusse a una soluzione sbagliata che impedì pure la possibilità
che se ne rivelasse l’errore. Leggendo infatti, erroneamente, la
globalizzazione neoliberale come un totalitarismo culturale si pensò di opporle
un totalitarismo culturale opposto, attestato sulla dottrina cristiana,
rigidamente codificata, su valori non negoziabili, su intransigenza
comunicativa e mobilitazione sociale di massa, per una semplificatrice soluzione
nazional-cattolica alla coesione sociale in difficoltà. Ma la globalizzazione
neoliberale non era un neo-totalitarismo, anzi era la decostruzione
post-moderna, preventiva e metodica, di ogni orizzonte totale di discorso. E così
la pastorale del Progetto culturale fu facilmente neutralizzata, decostruita e metabolizzata,
rubricandola come formulazione di interessi cattolici, da accontentare, corporativamente,
quanto basta, e da accogliere finché si può, nella misura in cui non si attaccavano l’individualismo
ruggente, il mercato e il profitto. Si
realizzò dunque anche in Italia, in quel periodo quasi ventennale, quello che è
stato definito un disastro antropologico: giudizio corretto ma lacunoso e omissivo,
perché andrebbe completato con l’ammissione, appunto, di un grande fallimento pastorale.
Purtroppo l’intrinseca dinamica centralizzatrice, verticistica e
autoreferenziale della pastorale del «Progetto
culturale» impediva che ci fossero “gruppi di controllo” che ne
segnalassero l’eventuale errore.
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Si trattò sostanzialmente, dalla metà degli
anni ’80, di una lotta a bassa intensità contro ogni espressione del cattolicesimo
democratico, che rivendicava autonomia di pensiero nelle cose sociali, e i teologi viventi di riferimento che potevano essere colpiti in quanto inquadrati
nel clero o in ordini religiosi. Un totalitarismo
ecclesiastico, appunto, come ha sintetizzato De Giorgi nei brani che ho
sopra trascritto.
Cogliendo le opportunità della sinodalità a cui siamo invitati, occorre farsi forza e
contrastare duramente quel totalitarismo. Del resto in questo modo ci si
allineerebbe ad una millenaria tradizione di sinodalità che vide, almeno
fino al Cinquecento, sinodi e concili come sedi di durissime lotte teologiche e
ideologiche, senza esclusione di colpi, fra correnti contrapposte, nonostante il mito
irenico che teologi e Magistero in genere ci costruiscono sopra. Bisogna agire e
parlare con franchezza, poi, al termine del confronto, forse si potrà arrivare
a ricucire, ma senza accettare una soluzione imposta d’autorità. Naturalmente la pratica della democrazia come
oggi la si intende, che dal Concilio Vaticano 2° è stata sempre più praticata
anche nelle occasioni di collegialità ecclesiale, probabilmente aiuterà nel
prevenire fratture insanabili tra orientamenti divergenti.
Le premesse, tuttavia, non sono buone. In
realtà le indicazioni metodologiche che vengono dalla Segreteria del Sinodo dei Vescovi
e dalla nostra Conferenza episcopale vanno nel senso di cercare di ricoprire di apparente e ipocrita uniformità i
contrasti che ci sono, impedendo in particolare ogni dibattito.
Con pazienza e determinazione dobbiamo,
invece, cercare di dibattere le
questioni, vale a dire di raccogliere gli elementi utili per valutarle e di confrontare
argomentazioni, non semplici prese di posizioni (dire come ci si
schiera). La differenza tra un’argomentazione e una semplice presa di posizione (“la
penso così”) consiste nel fatto che argomentando si cerca di dare una spiegazione ragionevole
dell’orientamento che si propone e si accetta di discutere i propri argomenti con le altre persone. Argomentando
e discutendo si può poi arrivare a orientamenti realmente
condivisi.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.