Note sulla sinodalità, in occasione dell’inizio
dei Sinodi generale e italiano 2021, per
il gruppo parrocchiale di Azione Cattolica in San Clemente papa – in Roma,
Monte Sacro Valli
9 ottobre 2021
a
cura di Mario Ardigò, associato del gruppo
Il logo del Sinodo |
Avvertenza: l’autore non è un teologo, e
non ha il minimo interesse a diventarlo, ma cerca solo di sforzarsi di essere una
persona colta e di capire i problemi che si pongono; non ha né vuole avere
alcun mandato associativo o ecclesiale.
Scrive sotto la sua esclusiva personale responsabilità. Accetta ogni critica da
chi ne sa di più. Chi voglia farne, gli scriva a mario.ardigo@acsanclemente.net
Tutti i testi inseriti di seguito, sono comparsi
sul blog http://acvivearomavalli.blogspot.com/
, anche se in questa raccolta sono stati adattati tenendo conto degli scopi della
pubblicazione.
il sito del Sinodo generale 2021-2023
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0.
Introduzione
Oggi,
sabato 9 ottobre 2021, dalle 9, a Roma,
nella Sala nuova del Sinodo, con
una solenne celebrazione di Intronizzazione e
Proclamazione della Parola di Dio e momenti di riflessione verrà dato inizio al
Cammino sinodale della Chiesa
universale, tutta convocata sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione
e missione”. il 17 ottobre tutte le
diocesi del mondo daranno inizio al Cammino sinodale in sede locale. Per la Chiesa italiana
inizierà anche un suo proprio Cammino per un Sinodo nazionale sul tema “Annunciare
il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale”. I Cammini
si concluderanno nell’ottobre 2023,
per il Sinodo generale, con l’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, e
nell’ottobre 2025, quello italiano, con l’Assemblea dei Sinodo dei vescovi
d’Italia. Queste assemblee di vescovi saranno precedute da una lunga fase
preparatoria, che costituisce, appunto i Cammini. I due Cammini saranno in parte
concomitanti e si cerchererà di armonizzarli. Quello per il Sinodo generale
prevede una fase di consultazione dei fedeli all’interno delle diocesi, che si concluderà
nel marzo 2022. Anche per l’altro è programmata una fase
di “Coinvolgimento del popolo di Dio
con momenti di ascolto, ricerca e proposta nelle diocesi, nelle parrocchie e
nelle realtà ecclesiali”, alla quale sarà dedicato l’anno 2022.
I due Sinodi contengono una
proposta epocale, qualcosa che non si è mai vissuto nella storia della nostra
Chiesa con l’estensione che si vorrebbe realizzare, in particolare tra le
persone laiche. Un modo di vivere la fede sinodale, partecipativo,
basato sul discernimento comunitario per affrontare i problemi dei tempi.
Da qualche tempo sto
leggendo e riflettendo per capire meglio di che si tratta. Ne ho riferito sul blog
del nostro gruppo parrocchiale di AC
AC VIVE A ROMA VALLI http://acvivearomavalli.blogspot.com/
. Raccolgo qui di seguito, in un unico documento, quei testi, pensando di
farvi cosa utile. Li ho rivisti sfrondandoli di un certo impeto polemico che
talvolta li attraversava e che mi deriva dall’aver vissuto a lungo una storia
difficile della nostra Chiesa, ma che ora è controproducente e inutile in
questa raccolta. Voglio dare credito alla nostra Chiesa, in questa
straordinaria epoca in cui vuole farsi totalmente sinodale.
Potete trovare ulteriori
notizie sul Cammino sinodale italiano su
https://www.ceinews.it/wp-content/uploads/2021/06/CartadIntenti_Assemblea.pdf
Il Cammino è programmato
come una procedura fatta di incontri per riflettere insieme che nelle
fasi preparatorie è rivolta all’alto, ai vescovi che si riuniranno nelle
loro Assemblee sinodali e che poi dall’alto ridiscenderà verso di
noi fedeli, nella fase attuativa. Le fasi preparatorie sono già Chiesa sinodale: tutti dovremmo
sentirci impegnati a costruirla per rispondere sempre più pienamente alla
nostra comune vocazione di fede. Ma questo è un impegno a cui più fortemente
siamo chiamati noi dell’Azione Cattolica: infatti l’idea di Chiesa tutta
sinodale nasce dai principi
deliberati durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e la loro attuazione a
tutti i livelli è uno dei principali campi di lavoro della nostra associazione.
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1. La sinodalità
come vita cristiana
Una
nuova impostazione nel modo di considerare il valore dei laici arrivò con il
concilio Vaticano 2º (1962-1965). Il concilio fu annunziato da Giovanni 23º
senza che il Papa indicasse le tematiche che dovevano essere trattate. Furono,
invece, i vescovi ad essere interrogati per sapere quali problemi ritenessero
più importanti per un rinnovamento pastorale della chiesa. Le risposte dei
vescovi andarono a toccare le questioni più diverse. I vescovi tedeschi
complessivamente seguirono da vicino il votum molto elaborato
del cardinal Döpfner, allora vescovo di Berlino, presentato nel novembre del
1959. Döpfner propose che compito del concilio fosse «annunciare davanti a
tutto il mondo la dignità dell’essere umano», presentare «una specie di “carta”
dei diritti umani». I fedeli sono membri della chiesa ai quali Dio dona la sua
grazia, per questo i laici non dovrebbero esser considerati a partire dai
chierici, ma positivamente a partire dal battesimo e dalla cresima. All’accenno
messo sulla struttura gerarchica deve seguire ora il riconoscimento della
chiesa come popolo santo di Dio, il quale, in base alla sua natura di
«sacramento primordiale» deve svolgere una «funzione sacerdotale» nei confronti
del mondo».
[da Peter NEUNER, Per
una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016]
Negli anni
Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in Europa Occidentale, era molto vivo
tra le persone laiche lo scandalo della loro emarginazione nella Chiesa
cattolica, mentre, al contrario, il loro ruolo nelle nuove democrazie costruite
nel secondo dopoguerra e nelle altre Chiese cristiane era diventato sempre più
importante, anche nel campo etico, tanto che poi sfociò nell’edificazione
dell’unità continentale, sul fondamento dei diritti universali dell’uomo.
Ai tempi
nostri la situazione, almeno in Europa occidentale, è molto diversa, per vari
motivi. In tutto il mondo si assiste ad una ripresa del fenomeno religioso e ad
una sensibile desecolarizzazione delle concezioni comuni in società. Specchio
di quest’ultimo fenomeno, avvertibile ormai in tutto il mondo, può essere
considerato l’ampio spazio che, in Italia, quotidiani che furono
storicamente fortemente anticlericali riservano oggi ai detti e agli
scritti di Papa e vescovi. Due giorni fa era l’anniversario della presa di Roma
da parte dell’esercito italiano, con l’abbattimento dello Stato Pontificio e il
completamento dell’unità nazionale, occasione in cui tradizionalmente si
rinfocolavano le polemiche anticlericali, e su media non se ne
è praticamente trattato. Ma è significativo anche l’accento che si dà ai
diritti civili fondamentali, quindi non condizionati dai
rapporti di forza o sociali del momento, e, in questo senso, non negoziabili.
Questo clima culturale è favorevole alla proposta di una sinodalità come
espressione comune della vita cristiana che ci è venuta. Molto
condivisibilmente si è però posto il tema dell’agente collettivo in
grado di sorreggere in società questo programma di riforma. Infatti, proprio
per le caratteristiche dei tempi, il clero non può bastare. Esso, di fronte ai
temi della fede, non appare più distinto dalle persone laiche: ha gli stessi
problemi, le stesse ansie, ma anche gli stessi aneliti. Parlo, naturalmente,
cercando di sintetizzare una linea di tendenza, ma so che nel clero e tra le
persone laiche ci sono anche quelli che vivono la fede come negli anni
Cinquanta, e non mi interessa criticarli né pretendere che cambino. Accetto
pienamente il pluralismo, anche se ovviamente contrasto vivamente quelli che
del passato vorrebbero mantenere o per meglio dire riesumare il totalitarismo
religioso, e quindi coartarmi.
Non è più
tanto questione di bilanciamento di poteri tra clero e laici (i religiosi si
sono via via clericalizzati, come storicamente in precedenza il clero aveva
assunto costumi dei religiosi), ma più in generale di come essere
cristiani nella società in cui viviamo.
La questione
va contestualizzata nell’Europa occidentale di oggi, perché altrove i problemi
sono diversi, e anche molto diversi. Certamente nel Sinodo universale che
è stato convocato, che non riguarda solo i vescovi del mondo ma tutte le
persone che si riconoscono nell’espressione popolo di Dio, difficilmente
si troverà un modo solo per dare concretezza alla sinodalitá. Ad esempio, nelle
Chiese africane mi pare ancora sensibile la sacralizzazione del potere
gerarchico.
Döpfner, nel
’59, scriveva di battezzati e cresimati come
connotazione essenziale dei membri del Popolo di Dio, ma, se
affrontiamo con spirito pratico il tema della sinodalitá come
espressione comunitaria della vita cristiana, quello potrebbe
non bastare. Bisognerebbe prendere in considerazione il caso, che in una
persona chiamata alla sinodalitá, pur battezzata e cresimata, manchi il
consenso ad essa. A questa persona potrebbero bastare la partecipazione alla
vita liturgica animata da clero e religiosi, le tradizionali opere di carità e
di misericordia, e un’accettazione di principio dei doveri etici fondamentali.
Il
problema ha aspetti pratici di non poco conto, che si sono posti ad esempio
nelle parrocchie che hanno sperimentato la convocazione di propri sinodi.
Quando ci si aggrega bisogna stabilire criteri di riconoscimento e di
attribuzione di facoltà e poteri. Altrimenti diventa impossibile procedere
ordinatamente e questo anche nelle realtà di base, come le parrocchie. Insomma,
procedendo nella sinodalitá diffusa, che significa co-decisione e
co-responsabilità occorre acquisire il consenso e e
l’impegno delle persone coinvolte.
Se si volesse
iniziare un processo sinodale in una parrocchia come la nostra, ci dovremmo
confrontare con i circa 1000 – 1500 praticanti abituali, tra giovani, adulti e
anziani, per circa il 70% ultracinquantenni, con la necessità, per poter
lavorare utilmente, e anzitutto per potersi riunire, di suddividerli in una
decina di assemblee minori, e di progettare un programma complesso di
formazione, conoscenza e poi istituzioni di co-decisione. Che accadrebbe se, al
dunque, in una fase avanzata di aggregazione si presentasse a partecipare tanta
più gente? D’altra parte, con criteri troppo restrittivi, si finirebbe per
creare i problemi che hanno avuto i gruppi con disciplina settaria, che
riservano quello che intendiamo ora per sinodalità a cerchie ristrette di iniziati.
Fermo
restando che l’accesso alla pastorale (liturgie, sacramenti,
formazione) deve essere universale, non si può procedere sulla via della vera
sinodalitá senza strutturare percorsi che consentano di ottenere e
di riconoscere il consenso di chi è coinvolto, in modo che quest’ultimo abbia
per noi un volto. Per non continuare a rimanere sostanzialmente estranei gli
uni agli altri pur andando insieme in chiesa.
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2.
Capire di che si tratta
[…] nella
teologia cattolica si era affermata una visione che accentuava prima di tutto
la visibilità della chiesa, la forma esteriore della sua organizzazione, e che
nello stesso tempo metteva al centro la gerarchia [=il sistema del clero: papa,
vescovi, preti, diaconi - nota mia]. Riprendendo il pensiero
del teologo e cardinale gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621) la chiesa fu
definita come la comunità di coloro che sono battezzati, confessano la retta
fede e vivono nell’obbedienza verso il papa e i vescovi. Nel corso del Medioevo
e dell’epoca moderna la gerarchia era diventata, come abbiamo visto, sempre più
potente e si era appropriata di tutti i poteri esercitati nella chiesa,
arrivando a presupporre, perlomeno tacitamente, una equiparazione tra chiesa e
clero.
Ora, di fronte a questa immagine della chiesa, il concilio Vaticano 2°
[celebrato tra il 1962 e il 1965 - nota mia] dichiarava che la chiesa non
è in primo luogo un’istituzione con un determinato ordinamento. […] è fondata
nel disegno di Dio sul mondo. In essa è permanentemente presente ciò che Cristo
ha portato nel mondo e ciò che deve continuare ad essere vivo nella forza del
suo Spirito. […] Prima ancora della differenziazione in diversi ordini,
uffici e funzioni, all’inizio della sua presentazione della chiesa il concilio
ha messo in evidenza l’uguaglianza fondamentale de suoi membri. La chiesa non è
stata più descritta, cosa che fino ad allora era usuale, come comunità di
diseguali. Tutti coloro che nel battesimo e nell’eucaristia partecipano di ciò
che è santo, che mediante la Parola e i sacramenti vengono santificati,
sono uguali gli uni agli altri nella dignità e nella chiamata all’apostolato
della chiesa. Ancor prima di ogni differenza riguardante gli uffici e i
compiti, il concilio sottolinea la fondamentale unicità che abbraccia tutti i
credenti e i santificati da Cristo.
[…]
La
teologia del popolo di Dio del Vaticano 2° afferma che tutti i credenti, uniti
nella comunione, sono chiesa […] ha affermato chiaramente che nella chiesa
tutta la potestà è affidata al popolo di Dio nella sua totalità e che è il
popolo ad attuarla.
[…] I
laici non vengono quindi visti in primo luogo come «non-chierici» […] Da
questa uguaglianza fondamentale dei battezzati deriva, per il concilio, la
chiamata comune di tutti all’apostolato nella chiesa. […] I laici partecipano
all’apostolato della chiesa stessa, vi sono chiamati da Cristo stesso. In
questo modo si fa semplicemente cadere l’impianto dell’Azione Cattolica [come
costruito all’epoca della sua istituzione, nel 1906 - nota mia], secondo il
quale i laici potevano soltanto partecipare all’apostolato della gerarchia o
eventualmente collaborare con esso. Se, secondo questa concezione, l’apostolato
è mediato dalla gerarchia e, quindi, in qualche modo dipende ontologicamente da
essa, ora si dice invece che l’apostolato è partecipazione alla missione della
chiesa stessa. In virtù della loro appartenenza alla chiesa, di cui sono
membri, i laici hanno il diritto e il compito di collaborare all’apostolato
della chiesa e di realizzarlo secondo le loro rispettive possibilità.
Questo non richiede nessuna delega speciale o nessun conferimento di
poteri da parte del clero o della gerarchia, ma deriva direttamente
dall’appartenenza alla chiesa. Né il conferimento né l’attuazione concreta di
questo apostolato avvengono mediante una delega, dunque in dipendenza
dall’ordine sacro, ma risultano entrambi dalla potestà trasmessa nei sacramenti
del battesimo e della cresima. Ogni argomentazione o idea di un
«prolungamento del braccio dei vescovi» viene abbandonata.
[…]
La
sottomissione tradizionale dei laici nella chiesa era causata in buona parte
dal privilegio del clero derivante dalla sua formazione teologica. Per dare a
tutti la possibilità di essere corresponsabili dell’apostolato e di
parteciparvi, il concilio ha chiesto che «i laici si applichino con diligenza
all’approfondimento della verità rivelata e domandino insistentemente a Dio il
dono della sapienza»[ costituzione Luce per le genti - Lumen gentium 35].
[…]
Il
concilio attribuisce ai laici, in modo particolare, il carattere secolare (Luce
per le genti - Lumen Gentium 31] [secolare= quanto riguarda la
costruzione, l’organizzazione e il governo delle società civili. Secolare, in
quanto soggetto al mutamento dei tempi, distinto dall’eternità della cose
sacre, date (irrealisticamente) per immutabili- nota mia]. Essi
devono e possono essere «sale della terra» là dove la chiesa può essere
presente ed efficace attraverso di loro. Nella costituzione sulla chiesa [Luce
per le genti - Lumen gentium] queste affermazioni non sono intese in senso
restrittivo, come se fosse proprio dei laici esclusivamente un apostolato nel
mondo e non anche in ambito ecclesiale. […] E’ una vera e propria alterazione
del significato del testo conciliare la lettura fatta da alcuni documenti
successivi che traggono da questa affermazione del carattere secolare la
conclusione che i laici abbiano competenze esclusivamente secolari e che
l’ambito ecclesiale debba restare riservato al clero, interpretando così il
compito secolare in termini restrittivi.
[da Peter
Neuner, Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016]
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La Chiesa di Dio è convocata in sinodo, si legge nel
manifesto del Sinodo universale/italiano che inizierà il mese prossimo. Nel Documento
preparatorio ci sono state poste delle domande, a partire da
quella fondamentale
Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina insieme”:
come questo “camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa
particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel
nostro “camminare insieme”?
ma non si
tratta di un sondaggio. In realtà, poiché il tema che verrà trattato è
la sinodalità, vale a dire come fare Chiesa tutti insieme, c’è molto più di
questo, ed effettivamente è una questione decisiva per la vita e la
missione della chiesa, e non è cosa che riguarda solo i vescovi e il
Papa, ma tutti noi, per quel diritto e dovere di apostolato che ci
deriva dall’essere battezzati, menzionato da Neuner nel brano che ho
trascritto.
Dobbiamo decidere, tutti insieme, come proseguire ad essere Chiesa insieme nel
mondo di oggi, nella realtà.
Sarà molto importante, per tutta la durate dei
Cammini sinodali (universale e per la Chiesa italiana) cercare di
informare tutti di che cosa si
tratta.
La
Chiesa come la comunità di coloro che sono battezzati, confessano la retta fede
e vivono nell’obbedienza verso il papa e i vescovi, così si pensava nel
Seicento. Per molti di noi, non è ancora questo che si intende
per Chiesa?
E
quanti di noi si sono veramente applicati con diligenza
all’approfondimento della verità rivelata, vale a dire hanno studiato un
pochino per capire le questioni implicate nell’essere cristiani, secondo gli
auspici dei saggi dell’ultimo Concilio? Per i più, ma in fondo per tutti nei
momenti di ignavia, non si è fatto forse come sempre, stando a rimorchio dei preti?
Ciò che noi siamo e facciamo nel mondo è anche apostolato: non è che lo
si fa solo negli spazi liturgici o durante le cosiddette attività
pastorali. L’apostolato non è tanto propaganda religiosa,
ma è un ordinare il mondo, e quindi, ad esempio, noi laici che
abbiamo in qualche modo collaborato ad un processo di unificazione europea che
ha realizzato un lunghissimo periodo di pace continentale, anche così abbiamo
fatto apostolato, per quanto da parte della gerarchia in genere non venga
riconosciuto come tale. La costruzione, l’organizzazione e il governo delle
società possono essere un’alta forma di carità, si è cominciato a insegnare
dagli anni Trenta del Novecento. Su queste basi i cristiani democratici hanno
collaborato a rivoluzionare l’assetto degli stati dell’Europa occidentale.
Ma
anche la Chiesa stessa è il campo del nostro apostolato laicale. Questo
significa che, partecipandovi attivamente, dobbiamo contribuire a organizzarla
in modo che sia sempre più conforme agli alti principi morali della nostra fede
e, prima di tutto, alla sua natura.
La
nostra Chiesa com’è adesso non scaturì per incanto dopo la Resurrezione, né
c’era prima. E’ il risultato di una costruzione sociale che in gran parte
risale al Secondo Millennio e poggia sulla costruzione di una cristologia
che si è affermata dal Quarto al Nono secolo del Primo Millennio. Per
dire: nel Primo secolo non si era neanche formato un vero e proprio clero, che
oggi è la parte dominante nell'organizzazione ecclesiale. L’evoluzione delle
concezioni sociali nei due millenni della storia cristiana ha molto influito su
quelle riguardanti la natura e la missione della Chiesa. Così si è stati
cristiani secondo i propri tempi. E, in base ai principi di civiltà dei tempi
nostri, i primi tempi non furono interamente e propriamente virtuosi, ma
anzi molto intolleranti, violenti, bellicosi. E, per la verità, si proseguì
così. E' solo dal Novecento, e in particolare dalla seconda metà di quel
secolo, che i cristiani, nel grandioso movimento ecumenico, hanno vissuto
la loro fede per fare veramente la pace tra loro. Quando lo si è realmente
voluto, la pace fu fatta. Però si è diventati migliori della nostra tremenda
storia solo da poco.
La
separazione della nostra Chiesa dai tempi in cui vive, per certi versi il suo
anacronismo, che per alcuni è addirittura una virtù ma che in realtà è
all’origine della crescente disaffezione della gente per l’istituzione pur in
un crescente interesse per le questioni spirituali, dipende essenzialmente dal
fatto che noi stessi siamo divisi nell’animo nostro e non sappiamo più bene
raccordare, come si dice, fede, religione e vita. Così,
progressivamente, le questioni sulla fede sono diventate argomento quasi
esclusivo della teologia che vi ha agito in modo dispotico e autoreferenziale.
In fondo andiamo in chiesa più che altro per sentirne parlare, e
allora lo spazio è tutto del clero, che vi è stato formato, perché noi ne
sappiamo troppo poco. Purtroppo la teologia, la cui affermazione come scienza,
in particolare dal Duecento europeo, non è stata storicamente sempre
tanto positiva per le nostre Chiese, per come si è sviluppata nel Secondo
Millennio ha ancora troppo scarsa capacità di mediazione con gli altri aspetti
della vita e, più che altro, tenta di assimilarli.
Un
altro modo di porre la domanda fondamentale: la caratteristica propria del
nostro essere persone cristiane è quella dell’andare in chiesa ad ascoltare
i preti e nel fare riferimento ad un’etica personale conforme ai
precetti insegnati dai preti o c’è dell’altro? E, se c’è dell’altro,
questo altro lo si fa da soli o con altre persone? E queste altre persone con
le quali fare dell’altro, le troviamo solo in chiesa, quando
noi siamo ed esse sono in chiesa, o anche fuori, e, in
quest’ultimo caso, qual è il confine tra fuori e dentro, e tra chi
è dentro e chi è fuori? Se noi siamo Chiesa, quali altre persone, intorno a
noi, consideriamo Chiesa con noi?
E
poi: quando i preti ci parlano delle cose della fede, quanto capiamo veramente
di quello che ci dicono? Soprattutto quando ci parlano di comunione?
Cari
amici, vi consiglio di leggere e rileggere i brani del libro di Peter
Neuner che ho sopra trascritto, di rifletterci sopra e di discuterne tra voi.
Riuscite a capire veramente tutto quello che scrive, e in particolare i termini
che usa? Approfondite. In particolare prendendo in mano i documenti dell’ultimo
Concilio Vaticano 2°, a partire dal decreto sull’apostolato dei laici L’apostolato
- Apostolicam actuositatem
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3.Appunti
su sinodo e metodo sinodale
Luglio
– Settembre 2021
3.1.
Due Sinodi da non confondere
Dall’ottobre
di quest’anno all’ottobre 2023, si svolgerà il processo sinodale per
la celebrazione, appunto nell’ottobre 2023, della 16° Assemblea generale
ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale:
comunione, partecipazione, missione”. Nel
programma quel processo dovrebbe essere aperto all’ascolto della totalità
dei battezzati. Spesso, però, in occasioni simili, l’ascolto si è risolto
in una semplice formalità liturgica.
Il Sinodo
della Chiesa italiana è un processo diverso,
distinto, anche se lo si coordinerà con quello del Sinodo Chiesa
universale. In un certo senso, il Sinodo della Chiesa italiana avrà un
oggetto più ampio, comprende la sinodalità ma anche programmi per l’azione in
società nella fase di rinascita dopo i tempi duri della pandemia da
Covid 19. Si cercherà di suscitare proposte in merito.
Nel Sinodo
della Chiesa nazionale si dovrebbe cercare di ottenere che le persone laiche non
siano solo ascoltate, in quello che di volta in volta è loro
concesso di esprimere, ma anche che le loro proposte siano realmente
discusse.
I commentatori
hanno evidenziato che si tratta del primo Sinodo della Chiesa
Italiana, in quanto in precedenza si è proceduto per Convegni
eucaristici e Settimane sociali, eventi che sono
accomunati da questo metodo: sono i vescovi a decidere chi, delle persone
laiche, può intervenire e anche i temi su cui possono parlare. Si manifesta
così una bella uniformità, che però, al dunque, serve poco. Mi pare che in
genere si faccia gran sfoggio dell’ecclesialese e che, da quello
che ne ho letto, la parrèsia, la franchezza nel dire, sia stata in
passato molto evidente. Non di rado i documenti di lavoro mi sono sembrati
indigeste sbrodolature, in cui si dice e non si dice e quello che si dice può
essere poi interpretato in sensi opposti. Si teme di diventare un parlamento.
Non siamo un parlamento, viene detto. E’ vero, non lo siamo,
ma, in fondo, non sarebbe male esserlo in qualche fase del cosiddetto ascolto. Altrimenti
si parla, si scrive, ma nessuno veramente ascolta. La verità scende
dall’alto e si è infallibilmente liberi di crederle. Chi crede in
questo modo ha il cosiddetto sensus fidei, che sarebbe una
specie di capacità di intuire la verità senza bisogno di
ragionarci sopra, e nel complesso così facendo si sarebbe addirittura,
complessivamente, infallibili, altrimenti
si sbaglia perché si parlamentarizza le questioni e
discutendo si finisce per dividersi. Ma, osservo, se non si ragiona insieme sulle questioni, confrontandosi, come si dovrebbe rare
nei parlamenti, l’uniformità è solo di facciata e nasconde i problemi
non risolti. Chi poi non si uniforma non di rado è spinto ai margini. Insomma, non
è più come quando Montini, a chi, nella fase preparatoria del famoso Convegno
ecclesiale nazionale Evangelizzazione e promozione umana del
’76, gli faceva notare che lo storico Pietro Scoppola era un animo molto libero
e poteva creare problemi nel comitato organizzatore, rispose che,
sì, egli era un cattolico a modo suo ma che andava
bene così.
Di questo Sinodo
si è discusso nel maggio scorso nella 74° Assemblea generale della Conferenza
episcopale italiana, organizzata appunto sul tema «Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Per
avviare un cammino sinodale». Ma non si è discusso solo di sinodo. E’ stata approvata la seguente
mozione: «I Vescovi italiani danno avvio, con
questa Assemblea, al cammino sinodale secondo quanto indicato da Papa Francesco
e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Santo Padre.
Al tempo stesso, affidano al Consiglio Permanente il compito di costituire un
gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme, tenendo
conto della Nota della Segreteria del Sinodo dei Vescovi del 21 maggio 2021,
della bozza della Carta d’intenti e delle riflessioni di questa Assemblea».
Ecco
la Carta d’intenti.
Annunciare
il Vangelo in un tempo di rinascita
Carta
d’intenti per il “Cammino sinodale”
L’incontro della
Presidenza della CEI con Papa Francesco lo scorso 27 febbraio ha fatto maturare
la scelta di avviare il Cammino sinodale delle Chiese in Italia. La decisione
s’è arricchita con il passaggio e i contributi del Consiglio Permanente del
24-22 marzo 2021. Con la presente Assemblea Generale dei Vescovi (24-27 maggio
2021) s’intende quindi dare inizio al “Cammino sinodale”. Il percorso non può
essere precostituito per due ragioni: la prima, perché la pandemia insegna che
basta poco per far saltare certezze consolidate o accelerare fenomeni in atto
su cui poco si è riflettuto in passato; la seconda, perché la dinamica del
processo sinodale richiede che il cammino si costruisca e cresca facendo tesoro
dell’ascolto, della ricerca e delle proposte che emergono lungo il percorso. In
tal modo si attiva il ritmo della comunione e lo stile della sinodalità che ne
è lo strumento.
1. Il
“Cammino sinodale” perché?
È prevedibile che i
motivi di fondo che stanno alla base della scelta sinodale possano essere messi
a fuoco e ricevere un arricchimento lungo il “Cammino sinodale”. Li
tratteggiamo brevemente.
a) Nel
travaglio del tempo presente. La pandemia sta
mettendo in ginocchio le comunità cristiane, diocesane e parrocchiali. Con
profezia e parresía occorre mettersi in ascolto della vita
personale e comunitaria per intercettare nuove domande e tentare nuovi
linguaggi, tenendo conto della difformità dei vari territori che compongono il
Paese. Si prospetta uno scenario multiforme (aiuta qui l’immagine del poliedro,
cfr. Evangelii gaudium, 236), in cui stimolare e accompagnare la rigenerazione,
rafforzando quanto di buono e di bello si è già fatto negli ultimi anni,
riaccendendo la passione pastorale, prendendo sul serio l’invito a rinnovare l’agire ecclesiale attraverso un
costante discernimento comunitario. Una lettura cristiana del
tempo presente potrà raccogliere i segni di rinnovamento per il dopo-pandemia.
A questo
proposito, nel novembre 2020 il Consiglio Episcopale Permanente affermava: «Ci
sembra di intravedere, nonostante le immani difficoltà che ci troviamo ad
affrontare, la dimostrazione che stiamo vivendo un tempo di possibile rinascita
sociale. È questo il migliore cattolicesimo italiano, radicato nella fede
biblica e proiettato verso le periferie esistenziali, che certo non mancherà di
chinarsi verso chi è nel bisogno, in unione con uomini e donne che vivono la solidarietà
e la dedizione agli altri qualunque sia la loro appartenenza religiosa. […] È
sulla concreta carità verso chi è affamato, assetato, forestiero, nudo,
malato, carcerato che tutti infatti verremo giudicati, come ci ricorda il
Vangelo (cfr. Mt 25,31-46)».
La Chiesa è
chiamata nel tempo della rinascita a coltivare un ascolto, un’immaginazione e
una pratica in vista di un’Agenda di “temi di ricerca” che si lascia fecondare
dall’annuncio evangelico e da quanto stiamo imparando dalla pandemia. Piuttosto
che cercare affannosamente soluzioni immediate, sarà importante indicare i
“punti cruciali” dell’azione pastorale per il prossimo futuro, facendo tesoro
di quanto abbiamo imparato nel travaglio del tempo presente: l’abbondante
semina della Parola anche attraverso canali di ascolto rinnovati; la proposta
della lectio e della meditazione personale quale nutrimento per la vita
spirituale; la formazione della coscienza; il ricupero dell’aspetto
escatologico della fede cristiana nell’aldilà e nella speranza oltre la morte;
la complementarità di celebrazioni sacramentali nelle comunità e di forme
rituali vissute nello spazio familiare; la catechesi proposta con modalità e
luoghi che superino il modello scolastico; l’azione educativa verso ragazzi,
adolescenti e giovani adatta ad accompagnare nei passaggi della vita; la
necessità di un’alleanza familiare per correggere il regime di appartamento e
aprirlo alla scuola e alla comunità; l’urgenza di una nuova stagione di
solidarietà e carità, per venire incontro all’aumento prevedibile e drammatico
delle povertà materiali e della solitudine spirituale; la forza dell’impegno
civile attraverso i corpi intermedi della società che è stato il collante nel
momento della crisi; e, non da ultimo, la pratica di una cittadinanza e di un
servizio politico all’altezza della ripresa auspicata.
b)
La prospettiva sintetica del cammino. Possiamo ora
formulare in positivo la questione essenziale con la seguente domanda: “Che
cosa comporta intraprendere un ‘Cammino sinodale’ per il prossimo quinquennio
della Chiesa?”. L’incoraggiamento di Papa Francesco richiede di dare risposta
sollecita e coraggiosa. Per fare questo occorre riprendere in mano Evangelii
Gaudium alla lente d’ingrandimento del Discorso di Firenze, per poter dare
avvio al Cammino, facendo tesoro delle esperienze che in Italia già diverse
Chiese locali hanno fatto in questi ultimi cinque anni. Il ricco materiale già
disponibile aiuterà la riflessione perché non sia una partenza da zero. Su
questo sfondo è possibile intravedere la prospettiva sintetica del Cammino.
Forse possiamo formularla così: l’itinerario del “Cammino sinodale” comporta la
necessità di passare dal modello pastorale in cui le Chiese in Italia erano
chiamate a recepire gli Orientamenti CEI a un modello pastorale che introduce
un percorso sinodale, con cui la Chiesa italiana si mette in ascolto e in
ricerca per individuare proposte e azioni pastorali comuni. Ci è
chiesto di passare da un modo di procedere deduttivo e applicativo a un metodo
di ricerca e di sperimentazione che costruisce l’agire pastorale a partire dal
basso e in ascolto dei territori.
Finora
gli Orientamenti CEI (per il decennio) erano approvati dall’Assemblea Generale
e proposti alle diocesi che li recepivano attraverso iniziative, percorsi e
azioni pastorali. Spesso hanno attuato anche percorsi e proposte assai
stimolanti ed efficaci.
La
prospettiva del “Cammino sinodale”, che emerge per il prossimo quinquennio,
dovrebbe sviluppare insieme riflessione e pratica pastorale: ascolto, ricerca e
proposte dal basso (e dalla periferia) convergeranno in un momento
unitario per poi tornare ad arricchire la vita delle diocesi e delle
comunità ecclesiali.
“Ascolto”,
“ricerca” e “proposta”: questi sono i tre momenti perché la lettura della situazione
attuale e l’immaginazione del futuro possa smuovere il corpo ecclesiale e la
sua presenza nella società. È il vivo desiderio che ci ha
trasmesso Papa Francesco, per ripensare il presente e il futuro della fede e
della Chiesa in Italia: la prospettiva teologica e spirituale di Evangelii
Gaudium e del Discorso di Firenze predispone la trama dei “contenuti”
essenziali del percorso. Si intravede la promessa di un percorso circolare: il
processo sinodale propone una conversione pastorale già per il modo con cui
viene elaborato e vissuto nelle parrocchie, nelle diocesi e nelle realtà
ecclesiali e sociali. Le Chiese che sono in Italia ne potranno uscire
arricchite nella misura in cui i variegati soggetti ecclesiali del Paese si
lasceranno coinvolgere. Forse emergeranno anche istanze di rinnovamento o di
riforma delle strutture che dovranno essere tenute in debito conto, per
snellire la macchina degli Uffici e dei Servizi pastorali, sia al centro sia
alla periferia.
2.
Il “Cammino sinodale” come?
La scommessa
del “Cammino sinodale” chiama anzitutto la Chiesa al risveglio della sua
coscienza missionaria. Merita ricordare, la parola profetica che il Card.
Montini pronunciava alla vigilia del Concilio: «Il Concilio è una straordinaria
occasione ed uno stimolo potente per aumentare in tutta la cattolicità il
“senso della Chiesa”. Sembra pronunciata per questa circostanza la memorabile
parola di Romano Guardini: “Si è iniziato un processo di incalcolabile
importanza: il risveglio della Chiesa nelle anime”» (Discorso su “Il Concilio
Ecumenico nella vita della Chiesa”, 25 marzo 1962). Ciò che il futuro Paolo VI
diceva del Concilio, vale, in modo analogo, per ogni ripresa di iniziativa
delle Chiese in Italia. Il “Cammino sinodale”, perciò, ha bisogno di condividere
uno stile ecclesiale, un metodo sinodale e alcuni strumenti di lavoro. Lo stile
ecclesiale rappresenta la sfida decisiva: esso dovrà essere attento al primato
delle persone sulle strutture, alla promozione dell’incontro e del confronto
tra le generazioni, alla corresponsabilità di tutti i soggetti, alla
valorizzazione delle realtà esistenti, al coraggio di “osare con libertà”, alla
capacità di tagliare i rami secchi, incidendo su ciò che serve realmente o va
integrato/ accorpato.
Tutti saremo
chiamati a risvegliare quel sensus ecclesiae, che lo stile sinodale
è chiamato a far crescere.
Il
metodo sinodale dovrà favorire alcune azioni pastorali, che si potranno
scandire nei tre momenti di “ascolto”, “ricerca”, proposta” e che dovranno
attuarsi in una logica di collaborazione e condivisione.
I
momenti sono tra loro circolari e indicano un metodo che si impegna ad
“ascoltare” la situazione, attraverso un’attenta verifica del presente, vuole
“cercare” quali linee di impegno evangelico sono immaginabili e praticabili,
intende “proporre” scelte concrete che ciascuna Chiesa locale può recepire per
il suo cammino ecclesiale. Ascolto e concretezza sono le due istanze a cui ci
ha richiamato insistentemente Papa Francesco.
Gli
strumenti di lavoro (ad es. un’Agenda di “temi di ricerca”, Instrumentum
laboris, Schede per l’ascolto e la verifica, Piattaforma digitale per il
confronto e la comunicazione) avranno il compito di indicare prospettive comuni
su cui orientare l’ascolto dal basso.
È importante
che gli strumenti favoriscano l’espressione della multiformità dei territori e
il confronto fraterno e costruttivo.
La
Segreteria Generale della CEI con i suoi uffici accompagnerà il percorso e sarà
essa stessa luogo di sintesi di quanto giungerà dalle Chiese locali.
L’elaborazione della mappa dei contenuti è affidata al momento preparatorio del
cammino, che potrà assumere anche buona parte della riflessione, già preparata
per gli Orientamenti CEI, attorno a tre aspetti: Vangelo, fraternità, mondo.
Nel rapporto
tra Vangelo e mondo, mediato dalla fraternità ecclesiale, sono emerse, a titolo
esemplificativo, alcune attenzioni pastorali (la “forma di Chiesa” per il
futuro prossimo; l’Eucaristia domenicale al centro della vita ecclesiale;
l’accompagnamento delle famiglie; la presenza dei giovani nel cuore della
Chiesa; l’attenzione verso i poveri) e alcuni campi d’impegno sociale e
culturale (cattolicesimo popolare, cultura, cittadinanza, casa comune) che
possono diventare luoghi su cui attivare la ricerca e far convergere le
proposte.
3. Il
“Cammino sinodale” quando?
Per dare avvio al
“Cammino sinodale” sembra necessario prevedere due aspetti: la scansione dei
tempi lungo il quinquennio e la previsione dei primi passi del cammino. La
scansione dei tempi. Il cammino avrà un arco temporale che va dal 2021 al 2025
e sarà scandito da alcune tappe che condurranno all’Anno Giubilare del 2025.
Il
calendario con le diverse tappe è prevedibilmente soggetto a una certa
flessibilità.
• Avvio del
processo sinodale (2021, in sintonia con l’avvio della preparazione del Sinodo
universale) •
Prima tappa: dal
basso verso l’alto (2022) – Coinvolgimento del popolo di Dio con momenti di
ascolto, ricerca e proposta nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle realtà
ecclesiali.
• Seconda tappa: dalla
periferia al centro (2023) – Momento unitario di raccolta, dialogo e confronto
con tutte le anime del cattolicesimo italiano. • Terza tappa: dall’alto verso
il basso (2024) – Sintesi delle istanze emerse e consegna, a livello regionale
e diocesano, delle prospettive di azione pastorale con relativa verifica.
• Giubileo del 2025 –
Verifica a livello nazionale per fare il punto del cammino compiuto.
Nell’itinerario
saranno innestati alcuni eventi già in agenda:
- 49ª Settimana Sociale
dei Cattolici. Tema: “Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro.
#tuttoèconnesso” (Taranto, 21-24 ottobre 2021); -
XXVII Congresso
Eucaristico Nazionale (Matera, 22-25 settembre 2022); - Incontro sul
Mediterraneo (primi mesi 2022).
Queste note
rappresentano la “Carta d’intenti” su cui convergere per iniziare il “Cammino
sinodale”. L’Assemblea Generale dei Vescovi ha approvato (27 maggio 2021) il
percorso indicato in questo testo, perché il “cammino” prenda avvio con
libertà, scioltezza e condivisione.
La
Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi il 21 maggio 2021 ha annunciato la
XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi per l’ottobre 2023, dal titolo:
“Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. Il percorso
proposto dalla Segreteria Generale è armonizzabile con il “Cammino sinodale”
delle Chiese in Italia, perché il cammino che approda al Sinodo universale dei
Vescovi disegna un percorso di ricerca e confronto sulla “sinodalità”. Questo
percorso può diventare il primo momento del “Cammino sinodale” italiano, il
quale ha però l’orizzonte più vasto dell’annuncio del Vangelo in un tempo di
rinascita. Per questo la Presidenza della CEI si premurerà d’indicare una
proposta per i tempi e i momenti del “Cammino sinodale”, perché si sintonizzi
su quello della Chiesa universale.
3.2.
Sinodo e sinodalità
Nel prossimo ottobre
inizierà il “processo sinodale” della Chiesa italiana. La proposta è nuova. Non
lo si vuole infatti solo come un’assemblea dei vescovi italiani e dei loro
invitati, preceduta da una consultazione della base, ad esempio delle
parrocchie, ma come un’attività di riforma del modo di essere e di fare Chiesa
che coinvolga tutti i fedeli. In modo che le decisioni non calino solo dai
vertici, ma scaturiscano anche dal tirocinio, dalle sperimentazioni e dalle
proposte emergenti nella base. La novità sta appunto in questo: di coinvolgere
in quel modo la base. Stando alle esperienze storiche è infatti più facile
cambiare in basso che in alto, a causa della rigidità delle strutture di potere
ai vertici.
Si stanno
pubblicando molti studi sul tema della sinodalitá, anche accessibili a chi non
è teologo, ma ha solo una acculturazione generica al discorso teologico.
Anch’io sto
facendo alcune letture e vorrei farvi parte di ciò che credo di stare capendo.
È chiaro che
si tratta di materia molto complessa, perché la storia delle nostre Chiese lo
è. Anche i grandi esperti la affrontano con l’umiltà che è tipica
della vera scienza, vale a dire quella che è sempre in ricerca. Tanto più se la
si affronta senza aver avuto una formazione scientifica. Si legge, quindi, per
poter porre ulteriori domande alla comunità di coloro che si interrogano e
ricercano.
La cosa che mi
pare emerga con molta chiarezza è che le Chiese delle origini erano organizzate
in modo molto diverso da ora, in particolare nel Primo secolo, nel corso del
quale si consolidarono le tradizioni confluite negli Scritti Sacri che
definiamo Nuovo Testamento. Agli inizi la guida era sinodale, si ritiene. Per
la scarsità delle fonti abbiamo però informazioni insufficienti a stabilire con
precisione il metodo seguito, per imitarlo. Dal Secondo secolo piuttosto
rapidamente la direzione delle Chiese locali si accentrò intorno a “un”
vescovo, sul cui ministero venne costruita la teologia del “la Chiesa è dove è
il vescovo”. Quasi contemporaneamente si sviluppò il sacerdozio, modellato
culturalmente su quello dell’antico giudaismo palestinese, come attributo di
una persona, non più quindi legato al servizio in una determinata comunità.
Dall’inculturazione del Vangelo nelle filosofie ellenistiche, in un’interazione
caratterizzata da aspri conflitti teologico-politici con caratteristiche molto
diverse dal giudaismo delle origini, si sviluppò un sistema teologico con una
diversa visione del mondo nella sua interazione con il Cielo, che, in modo
ancora piuttosto misterioso, coinvolse la classe dirigente dell’antico impero
romano. All’inizio del Quarto secolo venne proclamata la libertà religiosa,
quindi anche la libertà di essere e vivere da cristiani, e il cristianesimo
rapidamente sostituì l’antica religione politeistica come ideologia pubblica
dell’impero; alla fine del Quarto secolo il cristianesimo fu dichiarato
religione obbligatoria per tutti i sudditi. Dal Quarto al Nono
secolo la politica dell’impero influì potentemente nella definizione dei
principali dogmi, vale a dire delle formulazioni principali delle convinzioni
di fede, di quella che ormai era una nuova religione. Tutti i concili svolti
nel Primo Millennio e riconosciuti come “ecumenici”, vale a dire riguardanti
tutte le Chiese, furono convocati e di fatto anche presieduti, direttamente o
da loro delegati, dagli imperatori romani. Il vescovo di Roma vi inviò dei
delegati. L’impero “romano”, a quell’epoca, non era più centrato su Roma, ma su
Bisanzio/Costantinopoli, secondo il grandioso disegno politico realizzato dal
326 dall’imperatore Costantino Primo (306-337), nato in Serbia e morto in
Anatolia nelle vicinanze dell’attuale Izmir. Costantino pensò se stesso come
vescovo supremo, Vicario del Cielo, addirittura apostolo. La sua figura e la
sua teologia politica, organizzata intorno a se stesso fu celebrata dal vescovo
palestinese e scrittore (in greco) Eusebio di Cesarea, che fu suo consigliere e
che fu protagonista del primo concilio ecumenico, quello svoltosi a Nicea, in
Anatolia,nel 325, che definì ciò che è per noi Cristo, vale a dire il
fondamento della nostra fede.
“Da Costantino,
ma soprattutto con Teodosio [nato in Spagna nel 347
e morto a Milano nel 395] le disposizioni dei sinodi diventano anche
leggi per lo stato […] In ambito intraecclesiale la
normatività delle scelte dei sinodi precede il riconoscimento civile” [da
Nicola Salato, La sinodalitá al tempo di Francesco -1- Una chiave di
lettura storica dogmatica, EDB,2020 (anche in eBook).
In sostanza,
dal Secondo secolo il Sinodo diventò cosa per capi religiosi, tanto che nel
libro che ho citato si osserva che i Padri della Chiesa (scrittori di teologia
tra il 1^ e il 7^ secolo il cui pensiero è riconosciuto come particolarmente
importante per la definizione della nostra fede) non conoscono la sinodalitá,
ma solo il sinodo, in quella accezione.
La proposta
attuale di un “processo sinodale” riecheggia quindi le più lontane origini del
nostro vivere come Chiesa.
3.3.
Tempi nuovi e processo sinodale.
Un dato mi pare
eclatante confrontando la situazione tra i cristiani d’oggi con quelle che
storicamente si manifestarono fin dalle origini: una condizione in genere
pacificata e di reciproca tolleranza e, in molti casi, di reciproca stima.
La storia
dei cristiani è stata infatti caratterizzata per la sua massima parte da feroci
controversie che, cristianizzate le ideologie pubbliche europee, sfociarono in
vere e proprie guerre. Il Secondo Millennio, poi, fu caratterizzato da una
lunga serie di persecuzioni a sfondo religioso condotte con i metodi della
polizia politica da istituzioni ecclesiastiche e civili. E, sempre in
quest’epoca, risalta l’evangelizzazione genocida delle Americhe, nel corso della
quale potenze europee riconosciute come cattoliche cercarono di annientare le
culture dei nativi, che nel Centro e Sud America erano molto evolute. Da ciò,
appunto, derivò la cosiddetta “America Latina”. Ma anche nel Nord America non
ci si condusse diversamente, da parte dei cristiani, cattolici e non.
Di solito, quando
si cerca di orientarsi in materia di fede, si scandagliano i tempi antichi,
alla ricerca di tradizioni consolidate che ci confermino in un certo
orientamento. Ma dobbiamo prendere atto che, purtroppo, quel passato non
corrisponde del tutto alle semplificazioni agiografiche che di solito vengono
insegnate nella formazione di base dei fedeli. Innanzi tutto, le fonti che
riferiscono sui primi tempi sono piuttosto incerte e anche divergenti. Poi dal
Quarto secolo la politica influì potentemente nella definizione delle decisioni
in materia di fede divenute vincolanti, dògmata, dogmi, nel greco
antico.
Francamente,
l’asprezza di certe controversie dei primi secoli, con pesanti conseguenze per
la vita dei protagonisti, spesso persone che cercavano sinceramente di essere
virtuose, sconcerta, ma anche ripugna. Eppure il corpo delle dottrine di fede
che oggi seguiamo si è consolidato con quei metodi. In generale, ciò che
indichiamo come “teologia” non si è manifestato tanto utile per trovare
una via di convivenza pacifica e i sinodi, dall’epoca in cui si affermò il
potere monocratico dei vescovi come quello proprio di un ordine
autoreferenziale, furono in genere occasione di scontro e, al più, le sedi
di precari armistizi, con qualche notevole eccezione naturalmente. La svolta
epocale è stata recentissima e risale al movimento ecumenico affermatosi dalla
seconda metà del Novecento. La pace religiosa tra i cristiani ne è il frutto. Ma
da quale pianta è derivato? Come è possibile che, da una storia tanto efferata,
ad un certo punto sia nata questa nuova realtà, che talvolta, ma senza grandi
appigli, proiettiamo nel passato?
È una
domanda importante.
3.4.
Distinguere tra Cielo e Terra.
Leggo, citato in SALATO
Nicola (a cura di), La sinodalità al tempo di papa Francesco – 1 – Una
chiave di lettura storico – dogmatica, contributo “La
sinodalità nella riflessione dei Padri della Chiesa, di Roberto Della
Rocca, questo brano tratto dall’opera De Dominica Oratione, 23
– Sulla Preghiera del Signore, 23, del vescovo di Cartagine e
“Padre” della Chiesa Cipriano, vissuto nel Terzo secolo in Nord Africa, appunto
nell’antica colonia romana di Cartagine, ricostruita dai romani nell’area
dell’attuale Tunisi dopo la distruzione dell’antico insediamento di origine
fenicia:
«Infatti Dio comanda
che nella sua casa tutti siano miti, concordi e in pace e vuole che noi, una
volta rinati, continuiamo a essere quali ci ha creati grazie alla seconda
nascita. Noi, che iniziamo a essere figli di Dio, dobbiamo rimanere in pace con
Dio perché vi sia una sola anima e un solo sentire in coloro nei quali c’è un
solo spirito. Così Dio non accetta il sacrificio di colui che non è in pace, e
gli comanda di allontanarsi dall’altare e di riconciliarsi prima con il
fratello, perché Dio possa essere propiziato con preghiere di pace. Infatti il
sacrificio più grande per Dio è la pace che regna tra noi, la nostra concordia
di fratelli e il fatto di essere un popolo riunito nell’unità del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Della Rocca
evidenzia che la definizione della Chiesa come popolo riunito
nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo divenne
classica e che ad essa ci si richiamò durante il Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), tanto che nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce
per le genti – Lumen gentium, al n. 4 viene riportata quella stessa
citazione:
Lo Spirito santificatore
della Chiesa
4.
Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv
17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare
continuamente la Chiesa e affinché i credenti avessero così attraverso Cristo
accesso al Padre in un solo Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la
vita, una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Gv 4,14;
7,38-39); per mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il
peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm
8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un
tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza della loro
condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli
introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica
nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni
gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor
12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la
rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo . Poiché lo Spirito e
la sposa dicono al Signore Gesù: « Vieni » (cfr. Ap 22,17).
Così la
Chiesa universale si presenta come « un popolo che deriva la sua unità
dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo » [CIPRIANO, La Preghiera del Signore - De Orat.
Dom. 23, formula richiamata anche da Agostino -vissuto tra il 4° e
il 5° secolo- e Giovanni di Damasco -vissuto tra il 7° e l’8° secolo].
Ora, è
indubitabile che l’obiettivo di rimanere in pace con Dio perché vi sia
una sola anima e un solo sentire in coloro nei quali c’è un solo spirito è
stato storicamente sempre fallito dalle Chiese cristiane
salvo che in rari e precari tempi di sentire condiviso su base
mistico-carismatica. Esso, realisticamente, non è dunque alla portata
degli esseri umani: può solo essere un criterio etico orientativo, non
politico. La storia della Chiese cristiane è stata sempre,
con le eccezioni che dicevo, una storia di divisioni, polemiche e anche di violenze,
che raggiunsero efferatezze, intensità ed estensioni che ai tempi nostri ci
paiono incredibili.
Se il processo
sinodale che inizierà nel prossimo ottobre punterà a far scendere il Cielo
sulla Terra, proponendosi un’unità con quelle caratteristiche, è altamente
probabile, se non certo, che fallirà, perché è quasi sempre andata così,
in particolare, da ultimo, nella fase attuativa del Concilio Vaticano 2°. E’
bene essere più realisti sugli obiettivi ottenibili.
Riconoscere
al processo sinodale non solo la natura, ad esempio, di conferenza
teologica o spirituale, o di azione liturgica, ma propriamente di
azione di ricostruzione sociale, vale a dire di riforma, cioè di
azione politica, perché la politica è progettare, costruire e governare
società, esige di porre alla sua base il criterio della distinzione tra Cielo e
Terra e quindi di prendere atto che l’amicizia sociale, ciò che può
essere evocato anche come agàpe in senso
propriamente religioso e che è alla base dei processi politici di qualsiasi
natura, anche religiosa, non deve avere come condizione essenziale e
irrinunciabile un “solo sentire” su tutto come se i molti divenissero una sola
persona, vale a dire che necessariamente, se ci si vuole
veramente distaccare dal nostro tremendo passato, si debba
accettare una pace di tipo pluralistico, la sola alla portata degli
esseri umani, anche se animati dallo spirito religioso. Purtroppo su
questa via non possiamo trarre esempi virtuosi dal passato, in particolare in
base alle vicende nel corso delle quali ci si è scontrati aspramente
su definizioni terminologiche, secondo anche il metodo che poi fu definito
dalla teologia quando fu fondata come disciplina scientifica, all’inizio del
Secondo Millennio. Il che è come dire che se la teologia vorrà imporre il suo
dominio assoluto sulla politica, come mi pare di capire che stia accadendo in
questa fase preparatoria del Sinodo della Chiesa Italiana, si fallirà sicuramente l’obiettivo
politico, per la riforma ecclesiale, dell’amicizia sociale e della pace, e la
teologia rimarrà solo un complesso di idee sulla pace sociale, capace
solo in realtà di produrre il suo opposto.
3.5.
La politica nella costruzione della Chiesa.
Prendo lo spunto
dall’articolo di Domenico Marino pubblicato su Avvenire on line il 21 luglio
2021 con il titolo “Vangelo, cultura e politica: Cassiodoro verso gli altari”,
per articolare alcune riflessioni sulla politica.
Incollo qui
sotto il link per leggerlo
https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/vangelo-cultura-e-politica-cassiodoro-verso-gli-altari
Una biografia
affidabile, per la prestigiosa fonte da cui proviene, di Cassiodoro, anche con
alcuni rilievi critici, si trova in:
https://www.treccani.it/enciclopedia/cassiodoro_%28Dizionario-Biografico%29/
La notizia è
questa: il 22 luglio 2021 presso la Diocesi di Catanzaro-Squillace è stata
celebrata la liturgia solenne della conclusione
dell’inchiesta diocesana per la beatificazione di Flavio Aurelio
Magno Cassiodoro, già proclamato Servo di Dio. Si è seguita la procedura
canonicamente detta “equipollente”, nella quale si prende atto e si approva un
culto esistente da tempo e quindi si prescinde dal riconoscimento di un
miracolo. Ora la pratica passa alla Congregazione delle cause dei santi, con
sede a Roma.
Cassiodoro
visse in tempi antichi, tra il Quinto e il Sesto secolo, quando il
cristianesimo era già divenuto religione di stato nei territori occupati
dall’Impero romano, che dal Quinto secolo erano stati in parte, in particolare
nell’Europa occidentale, invasi da popoli nordici, i cui capi spesso avevano
avuto una lunga consuetudine con le istituzioni Romane. Questo fu il caso di
Teodorico, re degli Ostrogoti, re in Italia dal 493 al 526, al quale
succedettero Alarico, dal 526 al 534, Teodato, dal 534 al
536, Vitige, dal 536 al 540 e Totila, dal 541 al
552.
Teodorico era
stato nominato “Patrizio d’Italia” nel 493 dall’imperatore bizantino Zenone.
Quell’anno Teodorico aveva fatto fuori, secondo alcune fonti con le sue stesse
mani, il suo antagonista in Italia, Odoacre, con il quale aveva appena
giurato un trattato di pace, generale romano golpista di etnia erula il quale
circa vent’anni prima aveva deposto l’ultimo imperatore romano d’Occidente,
venendo riconosciuto re d’Italia dal Senato Romano e dall’imperatore bizantino,
Dall’età di dieci anni e fino ai diciotto Teodorico aveva studiato a
Costantinopoli, dove aveva imparato il latino e il greco ed aveva anche avuto
un’educazione militare.
Odoacre e i
sovrani ostrogoti in Italia integrarono l’amministrazione romana nella
costruzione politica del loro nuovo regno.
Cassiodoro
nacque nel 485 in Calabria, a Squillace. Suo nonno era stato ambasciatore sotto
l’imperatore romano d’Occidente Valentiniano 3^ e in tale veste aveva
conosciuto Attila, re degli Unni. Cassiodoro fu un alto funzionario del re
Odoacre, ma anche sotto i re ostrogoti che gli succedettero, a partire da
Teodorico, il quale lo nominò governatore della Sicilia e
anche della Calabria, e fino a Vitige. Visse l’ultima parte della
sua vita, che si narra sia stata lunga, come monaco, nel monastero di Vivarium,
vicino a Squillace, da lui fondato intorno al 554.
Il pensiero
di Cassiodoro, che fu anche prolifico scrittore, ebbe particolare importanza
nel costruire una legittimazione politica e anche sacrale del regno
italiano degli Ostrogoti, presentato come erede dell’Impero Romano d’Occidente,
sebbene soggetto all’autoritá carismatica dell’imperatore bizantino, e in
posizione di superiorità nei confronti degli altri sovrani dei popoli invasori
dal Nord. Per Cassiodoro Teodorico regnava “per volontà di Dio”, come
l’imperatore bizantino, per restaurare la civiltà romana in Italia.
La Chiesa
cattolica di oggi è impegnata in un processo di riforma, che ha natura
principalmente politica nel suo aspetto di costruzione sociale, e,
secondo il suo costume, cerca riferimenti nel passato più lontano.
Nelle
conclusioni dell’inchiesta diocesana naturalmente vengono posti in grande
risalto gli aspetti spirituali della vita di Cassiodoro come monaco, anche
relativi al lavoro di copiatura, conservazione, trascrizione e studio del
manoscritti antichi, sia cristiani che classici. Ma viene menzionata anche la
sua intensa carriera politica, vista come un esempio di come il
credente possa manifestare l’annuncio di salvezza lavorando nelle istituzioni,
senza temere la cultura del proprio tempo, ma anzi servendosene con sapienza.
L’agiografia
dei candidati alla santità ufficiale è spesso non affidabile storicamente,
almeno nelle informazioni che vengono divulgate al di fuori degli ambienti
specialistici. Certamente il regno in Italia degli Ostrogoti, del quale
Cassiodoro fu corresponsabile quale alto funzionario dei sovrani, non può
essere considerato, con la sua violenza estrema e i suoi intrighi, un modello
per la politica di oggi. E lo stesso dicasi anche per la stessa azione politica
di Cassiodoro, nel suo aspetto di adulazione acritica del sovrano suo signore.
Ma si può essere personalmente santi anche in contesti simili.
Penso che
nel clero affascini ancora l’idea dell’intervento del cristiano in politica
come consigliere del principe, capace di condurre mediante la
cultura il suo signore al rispetto di principi politici di civiltà,
comprensivi anche di un certo umanitarismo cristiano. Cassiodoro li idealizzó,
con riferimento al regno ostrogoto in Italia, nel suo pensiero politico che ci
è giunto mediante un memoriale in 12 libri (!) intitolato Variae. Esso
trovò smentita storica con l’eclisse del regno italiano degli Ostrogoti,
cominciata da quando nel 540 il generale bizantino Belisario catturò Vitige a
Ravenna. Allora Cassiodoro, dopo un lungo esilio a Costantinopoli. si ritirò in
monastero, a Vivarium, dedicandosi all’impegno prettamente culturale
e religioso. Il funzionario civile che si ritira in monastero nell’ultima parte
della sua vita è evidentemente sentito come più vicino alla propria esperienza
dal clero. E probabilmente aiutano in ciò le notizie sul
ministero di Cassiodoro al servizio di papa Virgilio, nel 550, durante un
viaggio a Costantinopoli, dove Cassiodoro risiedette almeno fino al 554, per
poi tornare in Calabria.
Il cristiano
di oggi, in Europa, non è chiamato ad essere, in politica, consigliere di un
autocrate, ma partecipe di un governo largamente condiviso, secondo il metodo
democratico. La condizione politica dell’Europa di oggi non è quella tragica
dei tempi in cui visse Cassiodoro; nel pluralismo che caratterizza i tempi
nostri, come quelli di Cassiodoro, i conti non si fanno facendo strage di
oppositori e dissenzienti. Legittimare il potere in quanto visto come restaurazione
del passato, come sognò Cassiodoro, non è raccomandabile oggi. Trasfigurare
irrealisticamente i propri tempi vedendovi immaginificamente realizzati i
propri sogni di restaurazione civile, nemmeno.
Eppure Cassiodoro
svolse un lavoro di mediazione culturale molto importante
verso i suoi sovrani, che provenivano da popoli invasori con differenti
tradizioni culturali e istituzionali, seppure assai acculturati all’ideologia
politica cristianizzata nella versione bizantina. Un lavoro analogo fu svolto nel
Nono secolo dai bizantini nell’evangelizzazione degli slavi. Anche da ciò
scaturisce l’Europa come ancora oggi viene percepita. La teologia politica dei
cristiani è stata un potente fattore di integrazione dei popoli, ma è stata
anche l’origine di violenze sociali efferate nel suo tentativo di integrare
accentrando intorno ad autocrati con potere sacralizzato. Tentazione che va
accuratamente evitata oggi.
3.6.
Tener conto della storia.
Come vi ho scritto
in precedenza, sto leggendo il libro “La sinodalità al tempo di papa Francesco
– 1 – Una chiave di lettura storico dogmatica”, a cura di Nicola Salato, EDB,
2020, che è composto di una serie di brevi articoli di vari autori. Quello intitolato
“La sinodalitá in prospettiva eucaristico-sinodale” è di Agostino Porreca”.
Leggendolo ci si può fare un’idea dell’estrema difficoltà di sperimentare
cambiamenti nella nostra Chiesa. Ma essa mi pare problema comune anche nelle
altre Chiese cristiane storiche.
Porre le
istituzioni ecclesiastiche in una relazione troppo stretta con la teologia
dogmatica le rende non riformabili.
La
gran parte della nostra dogmatica si è formata tra il Quarto e il
Nono secolo, in un’era in cui ci fu la convinzione di poter creare
tra i cristiani un’unità protetta da un’autoritá di tipo imperiale, a lungo
rappresentata dall’imperatore con sede a Bisanzio, specchio di un ordine
Celeste.
Nell’ambito
di quell’autorità agivano con molta autonomia i patriarcati e gli altri
episcopati, che cercavano di comporre le diversità di vedute su temi di
organizzazione ecclesiastica e di definizioni di fede mediante riunioni
collegiali denominate concili e sinodi. In genere
con risultati precari. Da qui il frequente ricorso all’anatema (il Concilio
Vaticano 2^ è stato il primo che non ne ha deliberati) e alla violenza
politica.
Nell’Europa
occidentale il potere dei vescovi, per influenza degli assetti istituzionali
veicolati dalle dinastie germaniche succedute all’Impero romano, assunse
configurazioni propriamente feudali, venendo i vescovi ad esercitare
anche domini territoriali. Il dominio territoriale che il Papato iniziò ad
esercitare nel Centro Italia, fino alla costituzione, in epoca moderna, di un
vero e proprio stato, del quale l’attuale Cittá del Vaticano riproduce alcune
caratteristiche pur non essendone il successore, originò da quella evoluzione.
Altra manifestazione di questo processo fu che, dal 13^ al 19^
secolo, tre dei sette “elettori” del “Sacro Romano Imperatore” furono
vescovi. Così come lo stato, costituito nel Sacro Romano Impero, del
Principato vescovile di Trento, durato dall’11^ al 19^ secolo.
I riflessi
sulla dogmatica di quelle concezioni del miglior potere politico sono evidenti,
anche se io non ho la competenza culturale e scientifica per trattarne
sistematicamente. In particolare li vedo nella Cristologia e nelle idee su che
cosa è e come si deve vivere come Chiesa. Questo contesto culturale è
irrimediabilmente dissonante con le diverse concezioni del potere politico che
caratterizzano le democrazie europee in fase di integrazione nell’Unione
Europea (una costruzione istituzionale nella quale u movimenti
cristiano-democratici hanno avuto gran parte).
Conciliare
le antiche concezioni con le nuove, che denotano in modo anch’esso molto
evidente gli attuali processi sinodali tedesco e italiano, è impossibile.
I teologi cercano
di farlo estendendo certe sacralizzazioni liturgiche allo “spirito sinodale”
che si vorrebbe suscitare, in sostanza, in tutti i fedeli, in modo da farne la
base per processi di più larga partecipazione, in particolare per sollevare il
laicato dalla sua attuale umiliante condizione. Ciò che viene tentato sulla
base della teologia eucaristica. Questa però si è già dimostrata una via che
non conduce al risultato sperato. La liturgia non funziona nelle assemblee
organizzative, fatte per esaminare problemi, soluzioni e programmi comuni, in
cui il presupposto perché non siano solo vuoto formalismo è la libertà di esprimersi
e l’accettazione del pluralismo.
La teologia ancora
oggi può fare grande danno nell’argomentare solo per via di logica dai principi
dogmatici soluzioni politiche senza tener conto dei risultati
storicamente ottenuti, senza imparare dall’esperienza passata. Aver cercato di
portare il Cielo in Terra ha generato tutte le atrocità della tremenda storia
dei cristiani. Forse la sapienza dei teologi potrebbe riuscire a distinguere la
mistica, che certo è dimensione irrinunciabile della nostra spiritualità, dalla
costruzione sociale di una convivenza pacifica, che richiede la
desacralizzazione della politica, anche di quella ecclesiale. Significherebbe
anche pensare una teologia della democrazia come oggi la viviamo in Europa (e
la viviamo in modo molto diverso da come la si viveva ai tempi dei
primi duri scontri con le Chiese cristiane).
Scrive Porreca:
“A questa essenziale
sinodalità della Chiesa, rivelata è manifestata dalla l’ex orandi [=liturgia],
non corrisponde un adeguato sviluppo delle strutture sinodali, che ovviamente
non possono limitarsi alle sole strutture di consultazione, non
sufficientemente rispettose della corresponsabilità battesimale”.
Ecco, questo
è proprio il problema!
Esso
non ha una soluzione liturgica, ma deve averne una politica, che significa
capire che “il Regno non è di questo mondo” e non significa regno secondo
le impersonificazioni che storicamente vi furono a tutti i livelli, e anche
nella nostra Chiesa. Ciò comporterebbe una diversa configurazione
politica della nostra gerarchia, senz’altro pensabile
senza ledere la dogmatica. L’ideale dei “Principi vescovi” sta
tramontando. Le Chiese cristiane storiche arrivate ai tempi nostri
hanno realizzato ciò che mai era accaduto nella storia, vale a dire un’unità
di agápe e di reciproca stima che corrisponde finalmente ai
comandi evangelici, e ciò pur nel pluralismo religioso. Ciò che chiedevamo, e
ancora chiediamo, nelle nostre preghiere sta iniziando a manifestarsi.
Per la loro
estrema sacralizzazione, incrostata e appesantita dalla gestione dei patrimoni
ecclesiastici, la riforma delle istituzioni di vertice della nostra Chiesa si è
rivelata storicamente impossibile, nonostante le sincere buone intenzioni di
molti. L’unica sperimentazione che si può tentare, sperando realisticamente in
qualche risultato, è quella da fare nelle realtà di base, come le parrocchie.
3.7.Prospettive
di riforma dal basso.
La storia
dell’attuazione dei principi innovativi del Concilio Vaticano 2^ (1962-1965)
dimostra chiaramente che la nostra Chiesa non è
attualmente riformabile in tempi ragionevolmente brevi,
né nelle sue strutture centrali né nei vertici del potere locale,
vale a dire negli episcopati. Troppo intensa è ancora la sacralizzazione di
queste strutture di governo, organizzata dalle teologie proprio al fine di
renderle resistenti alle riforme. Per nostra buona sorte il loro potere
politico è stato molto limitato dai processi democratici sviluppatisi nelle
società europee e dunque, benché palesemente obsolete e declinanti, non vi è
reale urgenza di impegnarsi in un contrasto frontale e radicale. Altra fu, ad
esempio, la situazione dei rivoluzionari repubblicani che nel 1849 sentirono la
necessità politica di abbattere il regno del Papato a Roma (anche in
quel caso senza metterne in questione il Primato in ambito religioso).
Le
innovazioni sono possibili solo a partire dal livello di base, in particolare
da un’istituzione di prossimità territoriale come la parrocchia, nella quale si
vive un certo pluralismo. Quest’ultimo è il principale problema con cui ci si
deve confrontare.
Non sono un
teologo, ma mi sono reso conto, da semplice lettore che cerca di essere colto,
che la teologia può essere affascinante. In teologia si possono però progettare
entusiasmanti riforme, che non avranno mai, tuttavia, la minima possibilità di
essere attuate. Così assisto con una certa diffidenza al rifiorire di tanti
studi su ciò che oggi viene definito “stile sinodale”, e quelli di cui sono
consapevole sono certamente solo una piccola parte di quelli
esistenti, perché abitualmente non mi accosto alla letteratura del ramo.
La teologia
ha preparato il processo di riforma del Concilio Vaticano 2^, è stata la
lingua principalmente parlata in quella assise e la cultura di
riferimento della sua fase attuativa, che però dobbiamo riconoscere
realisticamente essere abortita. Ha aperto delle prospettive, fin dove ha
potuto, in particolare asseverando l’ortodossia del nuovo corso, ma ha anche
creato ostacoli insuperabili nella fase di edificazione sociale,
in particolare costruendoli sistematicamente e ideologicamente come
insuperabili e poi attestandone l’insuperabilità. Qualcosa del genere accadde
nella controversia sulla dottrina della cosiddetta giustificazione, che, quando
le condizioni sociali per la pacificazione maturarono, fu composta rapidamente
senza particolari insuperabili difficoltà teologiche nel 1999 ad Augsburg
(Augusta) con le Chiese luterane, accordo a cui successivamente aderirono altre
importanti Chiese protestanti. Il Pontificio Consiglio per l’unitá dei
cristiani, dopo aver dichiarato incredibilmente che “non vi era stato alcun
rinnegamento del passato”, ammise che quello che definì “comune passo in
avanti” era stato “reso possibile dal clima di fiducia reciproca”. Ecco, questa
è la vera straordinaria novità dei tempi nostri, rispetto ai secoli delle
tremende stragi e persecuzioni fondate su diversità di vedute sulle relative
definizioni teologiche, in realtà causate da controversie politiche. Il
miracolo del “clima di fiducia reciproca” è stato prodotto dai valori delle
democrazie europee, le quali, riducendo le sacralizzazioni dei poteri politici
civili e religiosi ne ha creato le condizioni, superando l’oltranzismo
teologico.
Se si
afferma che il potere di una persona è voluto dal Cielo, e solo dal Cielo
legittimato, e che è dunque obbligo religioso sottomettercisi docilmente senza
possibilità di discuterlo, perché qualsiasi critica ad esso distrugge l’armonia
tra Cielo e Terra e dunque la società che su tale armonia si pensa fondata, per
cui è peccato contro il Cielo, e in questo appunto consiste la sacralizzazione
del potere sociale, allora la riforma è impossibile senza traumatiche divisioni
e poi la guerra tra i monconi che ne derivano. Questa è stata sempre, in
sintesi, la storia dei cristiani, e di ogni ideologia politica sacralizzata
secondo cristianesimi. Quel clima di fiducia reciproca che ha consentito
l’accordo di Ausburg del ’99, il prodigio dei nostri tempi, è il ripudio di un
orrendo passato, del quale anche la teologia di corte degli autocrati che lo
macchiarono di sangue e che trascinarono popoli interi in conflitti che
smentirono ogni principio sociale cristiano porta gravi colpe. Ecco che
l’istituzione dichiara però di non voler rinnegare quel
passato e quindi, sostanzialmente, di sentirsene ancora legata in altre
questioni, ad esempio, ipotizzo, quando si parla di riforma ecclesiale.
Di
solito, nella teologia cattolica, ci si sente riformatori quando
si auspica un’estensione della collegialità episcopale nei confronti
dell’autocrazia papale (ne parlo in questi termini perché così è definita dal
diritto canonico), ma questa visione appare oggi obsoleta: sono lo stesso
episcopato monarchico e la gerarchia episcopale nel suo insieme a creare
problemi organizzativi, in quanto poteri che si vuole mantenere autocratici
anche al di lá delle funzioni di Magistero o di quelle liturgiche, ad esempio,
addirittura, nella gestione di quel simulacro di stato che è la Città del
Vaticano a Roma o di una complessa azienda come quelle
espresse dalle organizzazioni di beni e personale di grandi Diocesi,
con grandi patrimoni e flussi finanziari da amministrare. È in questione quello
che fu al centro del Concilio Vaticano 2º, vale a dire il popolo di
Dio, ma senza che siano indispensabili, per le riforme organizzative
che servono, ulteriori diatribe teologiche e, in particolare, indagare per
cercare in un lontano passato delle Chiese cristiane
quello che oggi occorre, ciò in quanto in quel passato esso
non c’è perché a quei tempi si volle creare politicamente, qui sulla Terra,
quel “regno” che il Maestro aveva rifiutato, nascondendosi alla folla che
voleva farlo re al modo in cui lo erano gli altri re
della sua epoca, vale a dire l’origine di gran parte dei nostri
attuali problemi ecclesiali
Date le condizioni
attuali, la riforma della nostra Chiesa non deriverà verosimilmente da un
concilio o da un sinodo di autocrati religiosi e loro consiglieri e invitati
che approvi una qualche costituzione, ma da una prassi sociale che,
nelle realtà di base, dalla gente di fede, consenta l’ampia e
costante sperimentazione di un clima diffuso di amichevole
compartecipazione e di fiducia reciproca, nel quadro di una maggiore
consapevolezza religiosa, superando l’attuale deplorevole carenza formativa che
è la vera causa della dispersione religiosa in Europa, in un popolo che
si vorrebbe ancora tenere nello stato di gregge mentre è fatto
di persone umane, con menti e cuori, non dunque costituito semplicemente solo
per obbedire docilmente ad ogni dettato dei suoi gerarchi.
Ecco, questa sarebbe sinodalità totale.
Vedo nella
parrocchia l’istituzione che, nel giro di una generazione – l’inculturazione
della riforma deve essere un processo graduale, ampio e progressivo, quindi
lento, misurato sul passo di chi va più piano – potrebbe essere l’ambiente in cui
suscitare un nuovo fecondo modo, secondo l’agápe evangelica,
di vivere la Chiesa. Bisognerebbe partire da questo: creare progressivamente,
ad ogni livello della vita parrocchiale, vere sedi di compartecipazione
amichevole dove, senza tirare in ballo l’ecclesialese, l’urtante e
confuso gergo a sfondo teologico parlato dai dirigenti ecclesiali che
organizzano il laicato, si affermi il principio che proposta e critica
sono sempre ammesse nella misura in cui chi propone e critica
è realmente disposto a contribuire a un progetto comune con
propri personali tempo, energie e affetto, e non condizioni la propria
disponibilità all’accoglimento integrale delle proprie vedute
(principi della solidarietà e del pluralismo).
3.8.Cambiare
la parrocchia dal basso.
3.8.1. Se si
è d’accordo che gli ultimi 75 anni dell’Europa occidentale
contengono un’evoluzione straordinaria anche della vita religiosa, oltre che di
quella civile e politica, allora è su questo che è meglio concentrarsi
per progettare un modo rinnovato di vivere la Chiesa nella
parrocchia. Di solito, seguendo il metodo delle teologie cristiane, si inizia
invece dal riflettere come si fu nei primi secoli, e questo per l’importanza
che si attribuisce, in particolare nella nostra confessione religiosa, alla
tradizione, che, con riferimento alle principali convinzioni di fede, tra i
cattolici si scrive con la “T” maiuscola, Tradizione. Ma di
quei tempi, in particolare quando si risale al Primo secolo, si sa poco e la
memoria che la tradizione ecclesiale ci ha tramandato fino ad oggi non è
completamente affidabile. Inoltre i processi sociali di organizzazione che si
svilupparono nelle Chiese delle origini non contengono quella novità dei tempi
contemporanei a cui ho fatto riferimento. Essa può essere sintentizzata in questo
modo: ai tempi nostri le Chiese cristiane storiche non si combattono più e,
addirittura, in genere si stimano, collaborano, perciò progressivamente vengono
meno o sono attenuate le condanne che si scagliarono reciprocamente contro nel
loro tremendo passato. Questa situazione è nuova nel senso che non c’è
mai stata nei secoli passati, e questo fin dalle origini, nelle quali, in
particolare, tra cristiani si fu veramente molto bellicosi. Essa non ha avuto
ancora una soddisfacente sistemazione teologica e quindi anche una
legittimazione da quel punto di vista. In un certo senso, anzi, la teologia è
rimasta piuttosto indietro e ragiona come se si vivesse ancora nei tempi delle
divisioni dure, per cui, ad esempio, vive male il fatto che sussistano ancora
più organizzazioni cristiane e non una sola. A ben vedere, però, l’ideale di
una unità nel senso di soggezione politico-amministrativa delle Chiese ad un
unico centro di potere o almeno di coordinamento è il risultato di metamorfosi
culturali che non si produssero subito fin dall’epoca detta apostolica,
ma che caratterizzarono l’espansione dei cristianesimi solo a partire dalla
metà del Secondo secolo e, soprattutto, la loro integrazione come ideologia
politico-religiosa nella riforma dell’antico Impero romano. La formulazione
delle nostre principali convinzioni di fede, dei dogmi, ne dipende,
risalendo ad un arco storico tra il Quarto e il Nono secolo.
Una
ricostruzione storica sintetica della storia della parrocchia come istituzione
religiosa locale si trova in
https://www.treccani.it/enciclopedia/parrocchia-e-parroco_%28Enciclopedia-Italiana%29/
una voce scritta dal grande
specialista di diritto ecclesiastico e storico della Chiesa
Arturo Carlo Jemolo (1891-1981).
Da essa
emerge che la parrocchia, come istituzione territoriale locale di decentramento
burocratico-religioso, risale al massimo al Quarto secolo, epoca a cui risale
anche gran parte del cristianesimo ancora confessato nella nostra Chiesa e in
cui i cristianesimi divennero ideologia politica dell’Impero romano, in
particolare sacralizzando il potere dei suoi imperatori. Nel Secondo Millennio
e, in particolare, dal Cinquecento, quando la nostra Chiesa volle darsi
un’organizzazione amministrativa e politica analoga a quella degli stati
nazionali che a quell’epoca cominciarono a formarsi, la burocrazia
parrocchiale svolse una funzione molto importante, come ancora ora, quella della
tenuta dei registri parrocchiali, dove vengono annotate informazioni su
Battesimi, matrimoni, morti. Le parrocchie furono a lungo, come in fondo ancora
sono tra i cattolici, la sede principale della formazione religiosa di base del
popolo di fede e il centro liturgico di prossimità per le persone comprese nel
loro territorio. Dopo il Concilio Vaticano 2° si volle riformarle in senso
comunitario, operazione che non può dirsi, in genere, riuscita.
La teologia
spesso dà un’immagine della parrocchia diversa da quella reale, perché vi
riflette certe sistemazioni culturali su come vive il Cielo che si vorrebbero
riprodurre, in maniera per così dire analoga, sulla Terra, nelle società dei
fedeli. Così facendo i ruoli sociali assegnati agli attori di questa società locale
non ne facilitano l’adattamento ai tempi nuovi, in particolare privando del
tutto di voce e competenza il laicato, facendone solo un gregge curato
dal parroco e dal clero che con lui collabora.
Non mi interessa,
e del resto non ho competenza in merito, discutere quella teologia, posto che è
più semplice partire da alcuni importanti principi che si sono affermati
durante il Concilio Vaticano 2° e che sono anche alla base delle democrazie
europee avanzate. I principali sono quelli della libertà di coscienza e del
pluralismo, il secondo prodotto dal primo. Va detto che essi sono il risultato
di una vera rivoluzione culturale nella nostra Chiesa, che si è cominciata a
manifestare veramente, in Europa, dal Secondo dopoguerra, quindi dal 1945,
benché i fermenti culturali, e in particolare teologici, dai quali
derivò li vediamo manifestarsi a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Una formulazione
della libertà di coscienza si ha nel Decreto sulla libertà religiosa Della
dignità umana del Concilio Vaticano 2°, al paragrafo n.3:
L'uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina
attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua
attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo
ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in
conformità ad essa, soprattutto in campo religioso. Infatti l'esercizio della
religione, per sua stessa natura, consiste anzitutto in atti interni volontari
e liberi, con i quali l'essere umano si dirige immediatamente verso Dio: e tali
atti da un'autorità meramente umana non possono essere né comandati, né
proibiti. Però la stessa natura sociale dell'essere umano esige che egli
esprima esternamente gli atti interni di religione, comunichi con altri in
materia religiosa e professi la propria religione in modo comunitario.
In
quella formulazione, per ciò che posso capire, c’è tutta la teologia
fondamentale che serve per riorganizzare la vita parrocchiale maggiormente in
senso comunitario.
3.8.2. La
parrocchia, in genere e nel caso della nostra, è un’istituzione comunitaria: è
scritto nel diritto canonico, che è il diritto della nostra Chiesa (canoni
515-572). In ciò la sua configurazione è stata cambiata con il nuovo Codice di
diritto canonico, deliberato nel 1983, che ha sostituito il precedente, del
1917, per seguire i principi decisi nel corso del Concilio Vaticano
2º (1962-1965): ci vollero quasi vent’anni, indizio
eclatante delle difficoltà che ci furono nell’applicarli. L’operazione non riuscì
bene. Nella parrocchia istituzione comunitaria, infatti, la
comunità non conta nulla: la parrocchia, dal punto di vista
giuridico, è governata monarchicamente, in tutto, dal parroco, e gli altri, il
clero e i laici che con lui collaborano, non sono nient’altro che esecutori o
consulenti.
Naturalmente
talvolta vi può essere un governo parrocchiale con elementi di reale
compartecipazione, ma questo dipende solo dal parroco, che può anche revocarla
accentrando nuovamente. L’arrivo di un nuovo parroco determina quindi l’inizio
di una nuova era nella parrocchia. Così è stato nella nostra parrocchia, che
nella sua storia ha avuto solo tre parroci, don Vincenzo Pezzella dalla
fondazione, negli anni Cinquanta, al 1983, don Carlo Quieti, dal 1983 al 2015,
don Remo Chiavarini dal 2015 a tutt’oggi. Questa situazione dovrebbe essere
corretta e lo si può fare utilizzando innovativamente i
limitatissimi spazi di compartecipazione consentiti dalle norme canoniche
vigenti, per far emergere la comunità e una tradizione. Lo si è iniziato a fare
in molte parrocchie italiane, con alterni e in genere non stabili risultati,
per come mi pare di capire.
Non è
necessario, è anzi fortemente sconsigliabile, pasticciare con la teologia:
quella che c’è nei documenti del Concilio Vaticano 2^ basta e avanza. Riscosse
un vastissimo consenso tra i padri conciliari e nel travagliato processo
applicativo dei princìpi conciliari è stata anche in qualche modo inculturata
nella gente, anche se la consapevolezza che in genere se ne ha non mi pare
sufficiente.
Piuttosto, vanno
fatti approfondimenti sulla storia recente dell’Europa, che è il contesto
culturale in cui ci muoviamo (è una via improduttiva sognare di riprodurre
epoche del passato, fosse anche quello delle origini), e acquisire
un’informazione sintetica delle evoluzioni ecclesiali dei secoli precedenti.
Questo è un lavoro che in genere non si fa, o, se si fa, è svolto più che altro
con finalità apologetiche, che è un modo di definire una propaganda religiosa
non di rado caratterizzata da una certa faziosità.
San Karol Wojtyla,
nel suo ministero di Papa, in preparazione del Grande Giubileo dell’Anno 2000,
ci guidò nel difficile impegno che definì di purificazione della
memoria, che consiste nel fare memoria veritiera del
nostro passato ecclesiale per non ripeterne gli orrori, cercando invece di
prendere esempio dal bene che espresse. Ricordo che, in questo, fu
duramente criticato dai teologi di corte, oltre che da tutti coloro che
accettavano tutto quel passato come perdurante modello per i
nostri tempi, resistendo ai cambiamenti.
Così non di
rado, in genere inconsapevolmente però, si ripetono gli errori del passato, ed
è solo perché viviamo in una democrazia che le cose non assumono una brutta
piega. Ad esempio, mi è capitato di udire persone palesemente incolte in
teologia scagliare anatemi accusando gli altri di eresia, perché in
disaccordo con loro su certi modi di vedere. E, poveretti, nemmeno si rendevano
conto che, cosi facendo, davano scandalo, allontanando gente dalla Chiesa, con
ciò che ne consegue secondo il monito evangelico.
Spesso sento
favoleggiare delle Chiese delle origini, su cui non sappiamo molto di
affidabile e ciò che si sa non mi entusiasma molto: furono piuttosto bellicose,
rigidissime nello scontrarsi per ragioni di definizioni teologiche, tanto che
già l’apostolo delle Genti Paolo implorò i Galati almeno
di non distruggersi a vicenda (Gal 5,15). Resici consapevoli di quel
passato non dovremmo cercare di riprodurlo integralmente, anche in quegli
atteggiamenti intolleranti che fecero tanto soffrire.
Come ci
insegnò don Remo il giorno che iniziò il suo ministero tra noi, è molto
importante volersi bene, nonostante le diversità di vedute su come
vivere la fede. Ce ne vogliamo? Dico in concreto, non a parole. E spesso,
come lamenta anche il Papa, sono proprio le parole lo strumento per
farci del male, per ferire, allontanare, escludere, discriminare. Una piaga
ricorrente in tutte le parrocchie che ho vissuto. I preti, purtroppo, ne sono
le prime vittime.
3.9.La
formazione dei formatori.
Ieri, discutendo con mia
moglie, insegnante, della formazione religiosa di base che si fa, in genere,
nelle parrocchie, ho osservato che è un peccato che non tenga conto di quello
che bambini e ragazzi imparano a scuola. In particolare, nella scuola primaria
(che quando vi fui alunno si chiamava elementare), si danno
informazioni sugli antichi greci e romani, le cui culture sono state
fondamentali nella costruzione delle teologie politiche cristiane, a loro volta
fondamentali in quella della dogmatica, vale a dire l’insieme delle
definizioni più importanti della nostra fede. Non per nulla la deliberazione di
queste ultime come vere e proprie leggi dello stato avvenne,
nell’impero romano cristianizzato, e in particolare nel suo nuovo centro
culturale a Costantinopoli / Bisanzio, tra il Quarto e il Nono secolo nel corso
di concili ecumenici convocati e presieduti, direttamente o
mediante delegati, dagli imperatori romani che avevano sede in
quella città dell’antica Tracia.
L’attuale
metodo della formazione di base alla fede si basa troppo su elementi mitici e
spiritualizzanti e non costituisce basi valide per l’azione del cristiano nella
società in cui è immerso, che, in particolare, è il compito principale assegnato
dal Magistero ai laici. Tenendo conto che la formazione primaria è, per la
maggioranza della popolazione italiana acculturata alla fede, l’unica della sua
vita, non stupisce poi una certa debolezza del nostro laicato nel coniugare
fede e vita, che non è solo quella personale, individuale, ma anche quella
sociale, il che si esprime sostenendo che la nostra è una fede comunitaria, e
soprattutto non limitata a un sentire o a una convinzione
intellettuale, ma che esige una pratica nelle relazioni
con altre persone.
Naturalmente
cambiare pone il problema preliminare della cosiddetta formazione dei
formatori, che ora mi pare insufficiente, se non inesistente. Ai tempi in
cui mia madre fu coinvolta nel ministero di catechista nella nostra
parrocchia, negli anni ’70, il tempo fecondo del rinnovamento della catechesi
nella Chiesa italiana, invece si fece, anche con l’aiuto di esperti inviati
dalla Diocesi che venivano in parrocchia, ma anche con sessioni specifiche
presso l’Università Lateranense. Mia madre poi la proseguì iscrivendosi al
corso di laurea in Scienze dell’educazione nella vicina Università salesiana, e
naturalmente, quando iniziò a mettere in pratica nel catechismo parrocchiale
quello che stava imparando, venne bruscamente esonerata dal parroco, anche
purtroppo a causa di mormorazioni parrocchiali. Il parroco non era una persona
cattiva, ma era stato formato in un certo modo per cui aveva paura del nuovo,
temendo di non riuscire a gestirlo, in particolare quando generava, appunto,
mormorazioni.
3.10.
Stesso sentire.
L’unità che cerchiamo
secondo la nostra fede è descritta anche come un medesimo sentire. Come
interpretare questa espressione che ci giunge dai tempi antichi ed è anche
cruciale per cercare di vivere uno “Spirito sinodale”?
In una società
pluralistica come la nostra, può significare “pensarla tutti allo stesso
modo”?
Riflettete:
quando mai è veramente successo nella storia delle
nostre Chiese? Per ciò che ricordo, non è successo neppure, vivente tra noi il
Maestro, nel gruppo dei primi apostoli.
Ma proprio
questo quello che ci richiese il Maestro, esortandoci ad essere una
cosa sola?
Un teologo
saprebbe rispondere con la competenza propria della sua scienza e leggendo o
ascoltando gli interventi del Magistero si può avere un insegnamento autorevole
in merito. Ma la costruzione sociale non è solo ufficio loro, bensì di ciascuno
di noi,
Per quanto
mi riguarda, osservo che pensare di proporci una metà che quasi mai è stata
raggiunta tra noi e, quando lo è stata, ancor più raramente lo è stata in modo
stabile, è irrealistico.
Se, ad
esempio, prendiamo in esame le discussioni che prepararono le deliberazioni dei
documenti del Concilio Vaticano 2º, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965,
capiamo bene che anche nella larga maggioranza che poi li approvò si continuò a
pensarla diversamente su alcune importanti questioni, per cui i testi approvati
furono frutto di un compromesso, in quanto decidere fu ritenuto più importante
che non farlo, anche se ciò che fu deciso non rispecchiava esattamente la
convinzione di molti. La stessa minoranza di chi votò contro accettò comunque
la deliberazione collettiva, che non riguardava solo la questione intellettuale
della definizione di una questione dottrinale, come può accadere in un simposio
scientifico, ma ciò che possiamo considerare come leggi della
nostra Chiesa, capaci di modificarne il volto, come effettivamente avvenne. In
questo caso è ancora più eclatante che “medesimo sentire” non
significò identità di vedute e convinzioni sul da farsi.
Un
atteggiamento fondamentalista avrebbe invece condotto alla rottura, non
tollerando l’accoglimento di proposte contrarie al proprio
orientamenti, considerati come irrinunciabili. La frattura sarebbe anche stata
suggerita da posizioni integraliste, determinate da quel fondamentalismo,
ritenendo intollerabile anche solo stare insieme a chi la pensava diversamente,
considerato fonte di impurità sociale. Posizione che fu molto comune nelle
nostre Chiese delle origini, quando mi pare che ci si scambiarono più anatemi,
quindi deliberazioni di esclusione, che lettere di comunione, e
comunque i primi ebbero gli effetti più clamorosi.
Nella
Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum – la Parola
di Dio, che a molti appare incompiuta, possiamo cogliere, per quella sua
incompiutezza, indizi che si andò molto vicini alla frattura. Nonostante
questo, chi partecipò ai lavori del Concilio ne riferì come di un’esperienza
straordinariamente positiva, i cui effetti per diverso tempo entusiasmarono
tutti, anche chi votò contro alcuni e decisioni e a prescindere da questo,
aprendo un’epoca di effervescenza ecclesiale della quale oggi chi non visse
consapevolmente quei tempi fatica a farsi un’idea.
In effetti
si può considerare che la grande importanza che nella storia della nostra
Chiesa si finì per attribuire a identitá di vedute su definizioni è
prassi non trova convincenti riscontri in ciò che il Maestro ci
comandò.
Egli, mi
pare di aver capito, non fondò ad esempio una sua scuola, come era
già usanza nella prassi rabbinica nel giudaismo del suo tempo. Nessuno di
coloro che gli furono vicini fu accreditato come membro di una scuola,
nel senso di mirare a raggiungere un’autorevolezza pari alla sua e distinta
dalla sua, come accadde, ad esempio, nel caso dell’antico filosofo greco
Platone rispetto al suo maestro Socrate. I suoi discepoli, e in particolare
quelli tra loro che svolsero le funzioni di apostoli, presentarono invece la
loro missione come quella di chi ha ricevuto il comando di insegnare esattamente
e solo il vangelo del suo Maestro e, in particolare, l’esportazione
all’agápe, intesa come convivenza
benevola misericordiosa, aiutandosi e sorreggendosi amichevolmente
gli uni gli altri, prendendo esempio da lui.
Del resto
tra i più stretti suoi primi seguaci non troviamo uomini di cultura del suo
tempo, ad esempio uno scriba.
Com’è
allora che molto presto si diede tanta importanza alle definizioni e com’è che
gli scritti che definiamo neotestamentari ci sono giunti in
greco, che non era certamente stata la lingua del Maestro e della prima cerchia
dei suoi seguaci?
È evidente
che sulle tradizioni delle memorie della vita e dei detti del Maestro e su
quelle delle prime comunità riunite nel suo nome dopo la sua morte e
Resurrezione si lavorò molto e, in particolare, da persone che sapevano scriver
nel greco antico.
L’incidenza
della cultura ellenistica, che appunto si esprimeva in greco, nella tradizione
e formalizzazione di quelle memorie può spiegare quell’accanimento puntiglioso
sulle definizioni, che storicamente generò anche efferate violenze. C’è ora chi
di quell’influsso è divenuto insofferente e ne vorrebbe depurare la tradizione
cristiana, ma, a prescindere dalle questioni filologiche implicate nell’analisi
dei testi sacri, che richiedono una raffinata competenza specialistica per
cercare di individuare parti di tradizioni corrispondenti a un deposito
antecedente all’ellenizzazione delle memorie evangeliche, considerando
semplicemente la storia delle nostre comunità delle origini, credo che questo
sforzo si potrebbe rivelare inutile, e ciò per il grande rilievo che ebbero,
fin dalle origini, i gruppi di fedeli formatisi in ambiente ellenistico. Ad
esempio ad Antiochia di Siria, che è ricordato come il primo luogo nel quale i
cristiani furono definiti tali.
Molto
presto, insomma, si cominciò a ragionare di fede, comunità, società, natura,
quindi sul mondo, con categorie filosofiche e politiche correnti nell’ellenismo
del Primo secolo, da cui poi derivò gran parte della nostra dogmatica, delle
definizioni ritenute fondamentali per essere riconosciuti come cristiani,
nonostante che quello non corrispondesse esattamente al modo di insegnare
argomentando del Maestro.
E, come ho
osservato, un sentire comune in materia di definizioni, nel
senso di unanimità, fu assai raro e in fondo questa è anche la situazione
attuale, e non solo tra teologi e clero, ma anche tra tutti noi, anche in un
ambiente di prossimità come la nostra parrocchia.
Però se
considerassimo che il Maestro ci esortò all’unitá intesa come agápe, quindi
non tanto sulle definizioni, sulle quali i colti avversari del suo tempo
tentarono di coglierlo in fallo, ma come pratica di amicizia, compassione e
solidarietà alla portata di tutti coloro che rimanevano coinvolti nel suo
vangelo, allora sarebbe differente. Si potrebbe essere uniti nonostante certe
diversità e questa unità verrebbe prima delle distinzioni concettuali anche se
frutto di culture sofisticate. Come nella parabola del Samaritano
misericordioso, di recente posta al centro dell’enciclica Fratelli
tutti di papa Francesco.
3.11.Pluralismo
e comunità.
Una comunità è una
collettività legata da relazioni più strette, in intensità e frequenza. Alle
origini, i cristianesimi furono comunitari, ben prima che si producesse la loro
istituzionalizzazione.
Necessariamente il
vivere comunitariamente tende a separare le persone, in maniera più
o meno forte, dall’esterno. Questo grado di separatezza è richiesto per essere
riconosciuti come partecipi della comunitá. Gli elementi caratterizzanti la
comunità, e quindi separanti dal resto, variano a seconda delle culture, del
contesto sociale, dei fini del radunarsi. In genere il passaggio da fuori a
dentro è segnato da riti di iniziazione, mentre quello da dentro a
fuori da riti di esclusione. Una procedura sociale ha il carattere di rito
quando presenta elementi simbolici. Il simbolo è un segno o un’azione che
richiama sinteticamente il senso di ciò che accade o si vuole intendere. Ogni
comunità, in quanto racchiude e separa, ha un certo grado di integralismo. Ciò
che socialmente si ritiene non possa essere superato, pena l’esclusione dalla
comunità, ne è il fondamento. Ogni comunità esprime anche un certo
fondamentalismo. Vengono chiamate, però, integraliste quelle
comunità che più intensamente fanno della separatezza una ragion d’essere
e fondamentaliste quelle che estremizzano i loro elementi
caratterizzanti, condizionando ad essi la disponibilità a relazionarsi con
l’esterno.
Moti
integralisti e fondamentalisti hanno segnato i cristianesimi fin dai primi
tempi, ma essi sono convissuti con la tendenza all’apertura universale, nella
convinzione di essere mandati a tutte le genti della Terra per diffondere il
vangelo. Si tratta di una condizione paradossale. In particolare nello spirito
di agápe si vorrebbe includere, e questo
comporta anche il separare sotto certi aspetti, ma nello stesso tempo
mantenendo la solidarietà umana con chi è (per ora) fuori. Si vive quindi
l’inclusione come un accogliere, rimanendo sempre disponibili
a questa accoglienza nonostante i forti legami comunitari, ciò che Papa
Francesco esprime invitando ad abolire le dogane ai nostri
confini comunitari. Mantenere in equilibrio questi elementi apparentemente
contrastanti non è stato storicamente facile, specialmente dopo la marcata
istituzionalizzazione delle nostre Chiese.
Si ha
istituzionalizzazione quando una società produce un proprio diritto, quindi
norme su chi comanda, il modo di farlo e i doveri e facoltà dei consociati, che
siano formali, definite, imposte come obbliganti da una comunità, di modo che
la loro violazione comporti una sanzione che può giungere anche all’esclusione
o peggio.
In una
parrocchia, che oggi si vuole come istituzione e comunità,
quindi istituzione comunitaria troviamo tutti gli elementi a
cui sopra ho accennato. La nostra missione è di questi tempi cercare di
rafforzare l’elemento comunitario, che, come è accaduto nel resto della società
italiana, si è molto indebolito, sia per l’allentarsi delle relazioni sociali
di prossimità derivante dai costumi sociali correnti, sia per l’affermarsi da
noi di tendenze integraliste e fondamentaliste.
I
cristianesimi fin dagli inizi furono, e sono ancora, marcatamente pluralistici:
questo significa che non c’è mai stato un solo modo di vivere da cristiani, al
di là del consenso più o meno ampio su riti e definizioni. Questo pluralismo è
spesso stato vissuto come imperfezione, talvolta cercando di correggerlo con
l’esclusione, talaltra provando a pacificarlo mediante l’integrazione. L’accettazione
di un ampio pluralismo di vita sociale orientata secondo i cristianesimi, pur
nella rigidità in materia di definizioni, fu una delle caratteristiche del
Medioevo europeo, molto idealizzato in genere tra i cattolici. In quel
contesto, anche l’istituzionalizzazione, vale a dire la normazione, fu più
marcatamente una produzione sociale, piuttosto che, come avvenne dal Seicento,
un’imposizione di autorità deliberanti. La tendenza delle società europee di
oggi è nel senso di recuperare quel pluralismo, superando lo statalismo che vi
imperò almeno fino agli anni Cinquanta. Nella Chiesa italiana si manifestano
analoghe tendenze.
3.12.Il
piccolo nel grande.
Tutti, i sapienti come
gli ignoranti, siamo confinati in ambienti cognitivi molto limitati, che
possiamo descrivere come il teatro delle nostre vite
quotidiane. A partire da lì ci figuriamo la realtà, diciamo l’universo,
per indicare tutto il resto che c’è. Non possiamo essere diversi, perché questo
modo di capire dipende da come è fatta la nostra mente ed essa
si è evoluta in milioni di anni. È più o meno la stessa negli ultimi
duecentomila anni, ci insegnano le scienze biologiche.
Per evadere
dai nostri ambienti cognitivi personali limitati ci aiutiamo gli uni gli altri
e quindi formiamo società. L’evoluzione della nostra mente ci permette di
crearne di immense mediante le culture, che sono rappresentazioni immaginifiche
dell’universo secondo le quali ci orientiamo nelle relazioni di massa, vale a
dire con gli individui che non arriveremo mai a conoscere veramente. Le culture
sono possibili in base ai miti, che sono immagini semplificate
della realtà caricate di elementi emotivi. Questo perché noi cerchiamo di
capire per agire e agiamo in base alle emozioni. La parola “emozione” ci viene
dal francese, nel quale a sua volta costituiva l’evoluzione di una parola
latina che richiamava l’idea di mettere in moto, anche nel
senso figurato di suscitare passioni.
Nelle
religioni gli elementi culturali emotivi sono fondamentali. In un certo senso
delle religioni ci si innamora prima di capirle e le si
capisce da innamorati, altrimenti si ha la sensazione di esaminarle
dall’esterno, come fanno gli antropologi.
Questo
innamoramento religioso crea problemi quando si pensa la vita religiosa in
grande, al di là di un piccolo gruppo di prossimità nel quale ci si riesce a
conoscere intimamente tutti, come accade in una famiglia. E parlando di una
parrocchia come la nostra si pensa in grande, anche se non è tra le società più
grandi. Non sappiamo esattamente quanti fedeli contenga: nel suo territorio
vivono circa quindicimila persone, delle quali circa l’80% fanno riferimento al
soprannaturale e all’etica cristiani, circa il 30% vengono saltuariamente in
chiesa e affidano i loro bambini per la prima formazione etica, e circa il 7%
frequenta regolarmente la nostra chiesa parrocchiale, un migliaio di persone
circa, quelle che dovremo cercare di coinvolgere nel processo sinodale che sta
per iniziare. È chiaro che non possiamo pensare di conoscere da vicino, come un
parente prossimo, ogni persona di quel migliaio. L’antropologia concorda che
possiamo arrivare a conoscere in quel modo solo circa 150 persone, detto numero
di Dunbar dal cognome dell’antropologo inglese Robin Dunbar che lo
propose alla comunità scientifica in base alle sue ricerche. Dobbiamo servirci
quindi di una cultura emotiva dell’incontro per mediare le
nostre relazioni con quell’ambiente umano più vasto.
Il nostro
problema è che quella cultura non c’è, va costruita, e senza di essa ciascuna
persona rimane confinata nel proprio particolare o, addirittura, nella propria
individualità. Di solito, infatti, in religione ci serviamo dei riti, che definiamo liturgie,
parola che etimologicamente richiama un’azione di massa, ma non c’è ne
sono per processi sinodali di base, perché da secoli il popolo,
intendendo coloro che non appartengono al clero o ad ordini
religiosi, ne sono stati emarginati. Questo perché si è ritenuto che dovessero
semplicemente seguire dei pastori al modo di un gregge,
temendone il pluralismo. Durante il Concilio Vaticano 2º, preso atto che la
complessità delle società contemporanee richiedeva la loro partecipazione ai
processi decisionali, si cercò di coinvolgerli maggiormente, ma, appena si
iniziò a farlo, nel corso degli scorsi anni ’70, la nostra gerarchia temette di
perdere il controllo del processo e tutto fu sospeso. Ragione per la quale,
ancora ai tempi nostri si raccomanda ai laici la partecipazione ma non la si
consente, non creandone una cultura adeguata. Questa umiliante condizione è
all’origine dei problemi della nostra Chiesa, come di altre Chiese cristiane,
perché si finisce per servirsi della religione più che altro nel suo aspetto
rituale per celebrare con più solennità le feste della vita, in un contesto
propiziatorio o consolatorio, altrimenti appare inutile e addirittura
controproducente.
Quando le
masse religiose vengono radunate per un grande evento religioso, vi partecipano
solo come comparse chiamate a fare e a dire ciò che si dice loro, secondo un
certo copione, nel quale il ruolo principale, nel quale si può veramente
comunicare qualcosa, è riservato al celebrante, appartenente al clero.
In un processo
sinodale parrocchiale dobbiamo cercare di organizzare occasioni di incontro
nelle quali quel migliaio di persone che vorremmo coinvolgere emergano
dall’anonimato e si facciano conoscere. L’unico metodo praticabile è convocarle
per gruppi limitati che mantengano una certa capacità di relazione e dialogo
con gli altri gruppi mediante elementi culturali adeguati. Ciò significa anche
costruire una cornice istituzionale adeguata, una specifica ritualità,
inserendovi elementi emotivi che di solito hanno origine artistica. Quanto a
questi ultimi l’architettura ha storicamente svolto una
funzione molto importante: le chiese cristiane come costruzioni
architettoniche sono sotto questo punto di vista potenti macchine cognitive.
Negli anni ’90 la
nuova chiesa parrocchiale venne progettata architettonicamente per
rappresentare l’incontro secondo le concezioni che vi avevano preso piede nel
decennio precedente. Da ultimo, con la costosa realizzazione del presbiterio e
del grande altare centrale, si completò l’opera. Con tutta evidenza la nostra
chiesa parrocchiale venne pensata per una neocomunità molto
coesa e affiatata di dimensioni molto inferiori a quella che ora costituisce
per noi l’obiettivo del processo sinodale. Una scelta che ora è impossibile
correggere, perché non possiamo pensare di ricostruire la nostra chiesa
parrocchiale, ma anche, in fondo, inutile, perché si deve comunque procedere
per gruppi limitati, anche per radunare quel migliaio. Rimane il rimpianto di
aver subito decisioni così importanti senza il minimo coinvolgimento della base
dei fedeli della parrocchia, salvo che per chiedere loro un contributo
economico.
3.13.
Comunità aperta.
L’ambiente comunitario
della nostra parrocchia è ancora piuttosto debole.
Nella
riforma della catechesi progettata negli anni ’70 si riponevano troppe speranze
sulla capacità di educare alla fede per l’effetto dell’inserimento in una
comunità. Questo perché si diffidava abbastanza di quell’attività di
coinvolgimento e costruzione sociale che definiamo mediazione
culturale.
In
generale si pensava alla cultura religiosa come un
dato preesistente, completo e immodificabile e la vita comunitaria come un
semplice metterla in pratica in modo che le intense
relazioni che caratterizzano le comunità la sorreggessero e la veicolassero.
Sottinteso vi era anche il confidare nella possibilità di esclusione del membro
di una comunità educante qualora si manifestasse
deviante verso la cultura religiosa normativa. Non venne inteso il significato
di coartazione della libertà di coscienza che vi era insito, dissonante con i
principi deliberati nella Dichiarazione sulla libertà religiosa “Della
dignità umana – Dignitatis humanae” durante il Concilio Vaticano 2°.
In realtà
quella concezione di cultura religiosa, che direi totalitaria, non corrisponde
alla realtà della fede delle persone, che reagisce con la loro vita, e quindi
con le loro esperienze sociali, e in definitiva è sempre in via di costruzione.
La storia delle nostre Chiese può convincerci che è sempre stato così. La
fede vissuta comunitariamente evolve continuamente. L’unica
fede che non evolve è quella morta.
L’ossessione
dell’uniformità culturale intesa come ortodossia, che purtroppo ha
caratterizzato le nostre comunità fin dalle origini e ha causato gran parte del
male sociale che esse espressero, conduce inevitabilmente al ricatto
comunitario, secondo il quale chi non si conforma alla cultura ritenuta
normativa nella comunità di riferimento è minacciato di esclusione, ed
effettivamente escluso quando persiste. Bisogna dire che dai vertici ecclesiali
è in genere venuto un cattivo esempio in questo campo, ma non vi è per noi
alcuna possibilità di produrre una riforma a quel livello. In una realtà come
quella parrocchiale, invece, si può tentare.
Questo è un
aspetto molto importante di un processo di riforma parrocchiale volto a
potenziare l’elemento comunitario. Infatti, l’esigenza di ottenere dalle
persone un conformismo a certe prassi ritenute normative perché corrispondenti
a un dato modello di cultura religiosa conduce fatalmente alla chiusura verso
tutto ciò che c’è intorno, anche nell’ambito della stessa parrocchia, in
qualche modo considerata una società carente e da riformare, insomma, qualcosa
assimilabile a ciò che nel gergo religioso viene definito, in senso negativo, mondo.
La chiusura
si fa tagliando legami, impedendone di nuovi e saturando con quelli all’interno
della comunità di riferimento quelli di cui una persona è capace, che non sono
molti. Per chiudere con più efficacia si cerca di ridurre le dimensioni delle
comunità in cui una persona è inserita, operando una selezione, per
aumentare l’intensità della forza comunitaria centripeta. Le relazioni infatti
si fanno molto più intense nei piccoli gruppi e la psicologia
ci parla proprio di specifiche dinamiche dei piccoli gruppi che vengono
utilizzate, ad esempio, nelle procedure di riabilitazione dopo traumi. Se la
persona vive la fede prevalentemente o addirittura esclusivamente in piccoli
gruppi totalitari di quella natura certamente è coartata più efficacemente al
conformismo sociale, ma vive anche in una realtà sociale per così dire artificiale,
che assomiglia a una serra. La persona vi sta piantata lì e attende le cure di
chi si attribuisce le mansioni di agricoltore: è addirittura peggio della
metafora comunitaria del gregge, con il pastore che se ne prende cura. In
entrambi i casi si ha una disumanizzazione indotta
dalla comunità, con persone spinte a pensarsi piante o pecore.
La
parrocchia concepita come comunità di comunità-serra è
in realtà un ambiente in cui ogni persona è estranea alla
maggior parte delle altre e, quindi, è comunità solo di nome:
non può esistere comunità quando si rimane estranei. E non basta quel poco di
consuetudine liturgica che si ha, perché in essa, per come di solito è svolta,
la gente è nelle condizioni di semplice comparsa in uno spettacolo in cui il
copione è scritto da altri e i protagonisti sono altri. Se le relazioni
comunitarie si riducono prevalentemente a quelle liturgiche esse sono ben poco
come relazioni e, in realtà, sono relazioni solo immaginate.
Come ho scritto,
però, coinvolgere anche solo quel 7% delle persone del quartiere che viene
regolarmente a messa la domenica richiede di organizzare incontri per piccoli
gruppi di approfondimento. Come evitare, allora, il totalitarismo comunitario
che ne può derivare? Innanzi tutto rifiutando il ricatto comunitario
di cui ho scritto e poi, molto semplicemente, facendo ruotare le persone tra i
vari gruppi di approfondimento, in modo che acquisiscano una consuetudine con
molta più gente, e, innanzi tutto, si abitui a non temere ciò che c’è fuori dai
gruppi di persone con cui si è più in sintonia.
Anche il
nostro gruppo di Azione Cattolica parrocchiale deve cominciare a praticare
quell’apertura, dando il buon esempio. Naturalmente occorre però dare una
cornice organizzativa e istituzionale, vale a dire progettare un nuovo ambiente
sociale destinato agli incontri che chiamerei sinodali, perché si
sta ragionando in preparazione del processo sinodale che si vorrebbe far
partire dal prossimo ottobre. La sede propria per questa
deliberazione è il Consiglio pastorale parrocchiale, di cui in
genere i fedeli della parrocchia sanno poco, ad esempio, chi vi partecipa, che
si fa, che si è deciso.
3.14.
La lezione della storia.
Quando, ormai più di
vent’anni fa, san Karol Wojtyla, avvicinandosi gli eventi del Grande Giubileo
dell’Anno 2000, volle guidarci, con la sua autorità di Papa, nel lavoro che
chiamò purificazione della memoria, vale a dire nel far
memoria veritiera del nostro passato ecclesiale per non ripeterne il male che
aveva espresso, pose consapevolmente le basi per un inedito processo di
riforma. Infatti, in genere, quella memoria era stata pesantemente alterata per
ragioni di politica ecclesiastica e solo così facendo, ad esempio, si può
favoleggiare di origini a cui si dovrebbe tornare perché
realmente più virtuose a confronto con il nostro oggi.
Anche solo
accostando ad un primo livello di comprensione la storia realistica di
quelle origini si capisce bene infatti, innanzi tutto, che esse furono fortemente
pluralistiche, per cui non esprimono un solo modello sociale,
poi che furono ben poco virtuose dal punto di vista della
ricerca di una convivenza pacifica e solidale, il nostro attuale problema dei
problemi, e, infine, che il tipo di organizzazione ecclesiale a cui siamo
abituati emerse in un processo assai travagliato solo dopo circa un secolo da
quelle origini.
E quel
travaglio significò lotte, violenze, esclusioni reciproche, alle
quali vanamente si cercò di porre rimedio con quello che oggi chiamiamo spirito
sinodale, venendo composte, sempre però precariamente, solo quando la
teologia politica dei cristianesimi creò un’ideologia adatta ai tempi nuovi,
che fu strumentalizzata nel grandioso processo di riforma dell’impero romano
promosso dall’inizio del Quarto secolo, a seguito del quale l’autorità politica
impose la definizione delle principali controversie teologiche nel modo ad
essa politicamente più conveniente, in modo da accreditare la
propria neo-autorità imperiale come quella di un luogotenente del Cielo, vescovo
universale e insieme vicario, il modello poi adottato
nell’Undicesimo secolo nella costruzione teologica e politica di un Papato
Romano imperiale.
In
Italia la materia della storia del cristianesimo è rimasta con
quelle del diritto canonico e del diritto
ecclesiastico, tra gli insegnamenti con affinità teologica ancora
praticati nelle università statali, mentre la teologia vi fu espunta, e questo
ha consentito un pensiero in questi campi libero dai pesantissimi
condizionamenti ecclesiastici ai quali gli insegnamenti teologici furono
soggetti, e quindi maggiormente affidabile, perché non vi può essere ricerca
affidabile che non sia anche libera. Nella storia del cristianesimo si
sono distinti in Italia gli insegnamenti impartiti nell’Universitá
La Sapienza di Roma, fondata dal Papato e acquisita dal nuovo Regno d’Italia
dopo l’unità nazionale.
3.15.
Cultura religiosa.
Negli scorsi anni
Cinquanta i laici italiani cominciarono a contare di più nella
nostra Chiesa, questo essenzialmente per il ruolo politico nelle vicende
nazionali che si erano dimostrati capaci di svolgere. Era stato il risultato di
un lungo processo di formazione che si era svolto prevalentemente in Azione Cattolica,
organismo costruito dal Papato agli inizi del Novecento, nei tempi bui della
persecuzione antimodernista, proprio al fine di costituire una forza sociale e
politica che sostenesse le sue rivendicazioni politiche. La nuova associazione,
in realtà fatta di un complesso coordinato di associazioni di settore, aveva
presto superato le aspettative clericali, finendo per costruire ed esprimere
una multiforme cultura democratica. Poiché l’Italia, ormai organizzata
politicamente come stato nazionale, era divenuta una sorta di laboratorio
politico del Papato, i principi fondamentali di
quell’esperienza finirono per orientare la politica ecclesiastica
mondiale, anche se la cultura teologica che venne impiegata per pensare il
nuovo corso ci provenne in gran parte da intellettuali francesi, in particolare
da filosofo Jacques Maritain (1882-1973) e dai teologi Yves Congar (1904-1995)
,domenicano, ed Henry de Lubac (1896-1991), gesuita. Giovanni Battista Montini
apprezzò particolarmente il pensiero del primo e, al termine del Concilio
Vaticano 2º, consegnò da Papa a Maritain il messaggio del Concilio agli uomini
di pensiero e di scienza. Questo nuovo clima culturale influì molto anche in
Germania, un’altra nazione europea che era finita in preda al fascismo e nella quale
i cristiani, protestanti e cattolici, dal secondo dopoguerra svolsero un ruolo
fondamentale nella ricostruzione politica ed economica nazionale, mentre
durante il passato regime erano stati prevalentemente silenziati e asserviti,
non essendosi manifestato il quel Paese qualcosa di analogo al clericofascismo
italiano. Non sono d’accordo, quindi, con un commentatore politico italiano il
quale ha scritto l’altro giorno che la lunga egemonia politica dei
cattolici italiani, durata dal ’46 al ’94, sia stata “accidentale”: in realtà
si colse ciò che era stato a lungo seminato.
Lo stesso
può dirsi a proposito dei nostri attuali problemi ecclesiali, ai quali ci si
propone di porre un rimedio con il processo sinodale diffuso che inizierà dal
prossimo ottobre.
La politica
ecclesiale degli ultimi decenni prima del regno di papa
Francesco non si è rivelata tanto positiva
per l’Italia, tesa com’era fondamentalmente a sopire, anche con una pressione
disciplinare su clero e religiosi, i fermenti che si erano manifestati nella
nostra Chiesa negli anni Settanta, quelli in cui si cercò di attuare i principi
deliberati durante il Concilio Vaticano 2º. Ne è derivato un certo clericalismo
tra i laici italiani che ne ha ridotto la capacità di pensiero innovativo anche
nel campo loro più proprio delle cose sociali e politiche. Del resto era
proprio questo che si voleva produrre. Finora quindi gli appelli ad un loro
nuovo protagonismo che ciclicamente sono venuti dai vescovi italiani e dai Papi
dal 2005 sono andati delusi. Come i chierici e i religiosi, i laici temono
l’emarginazione esponendosi. Così anche i vibrati appelli al
rinnovamento venuti dal 2013 da papa Francesco non hanno avuto ancora una buona
accoglienza.
È importante
quindi, cercando di liberarsi delle semplicistiche parole d’ordine, vuote di
senso, dell’ecclesialese clericale, provare a riprendere a ragionare di cultura
religiosa nella prospettiva dei laici, cercando di non pasticciare troppo con
la teologia, che, in passato, ha fatto più danni che bene nelle cose sociali.
Come ho scritto, meglio attenersi alla teologia scritta nei documenti del
Concilio Vaticano 2º, definita dal Montini il “catechismo dei nostri tempi”.
Basta e avanza. E per capirla ci vuole comunque molto impegno.
3.16.Rimanere
sulla Terra nelle cose sociali.
I maestri di
spiritualità raccomandano di limitare l’immaginazione man mano che si
progredisce nel farsi pervadere dalla fede. Presentano questo metodo come
uno sbucciare una cipolla, strato dopo strato. L’immaginazione,
infatti, inganna e va considerata come le rotelle delle biciclettine dei bimbi
che imparano a pedalare.
Purtroppo,
invece, quando tra laici ci si incontra tentando di realizzare un nuova
esperienza comunitaria, l’ecclesialese che ci si sente in dovere di praticare
complica le cose. Si tratta, in definitiva, di cercare di andare d’accordo
nelle relazioni quotidiane che riguardano le cose elementari. Questo ci esime
dal travaglio della teologia, della quale, in genere, si ha poca dimestichezza,
finendo per uscirsene non di rado con quelli che a un competente
apparirebbero degli strafalcioni. Del resto, a ben vedere, il Maestro non fu un
teologo e si scelse come discepoli più cari delle persone incolte.
Questo non
significa che la teologia non serva, perché in realtà ci è necessaria per capire
come considerare le nostre complicate società nell’ottica di fede e quindi
anche per trovare orientamenti. Ma è necessario esserci acculturati e, per
insegnarla con competenza, anche specificamente formati. La teologia, infatti,
dall’Undicesimo secolo è stata costruita come scienza, non come letteratura
generalista e tanto meno come un complesso di confuse ed
estemporanee chiacchiere ispirate. Tuttavia, naturalmente, si può, e
anzi si deve, descrivere la propria fede parlando e scrivendone senza per questo
doversi fare prima teologo. Questo pone al riparo da una certa presunzione e
anche ad una qualche aggressività che storicamente si è quasi sempre
manifestata nel discorso teologico, e questo fin dalle origini, quindi ancor
prima che la teologia avesse statuto scientifico e richiedesse pertanto un
discorrere rigoroso, vale a dire conseguente con le premesse.
Ho notato
che gli incolti in teologia, quando parlano in ecclesialese, il confuso gergo a
sfondo teologico che sembra di prammatica quando i laici che hanno qualche
funzione ecclesiale discorrono in presenza del clero, hanno l’anatema facile,
mentre, ai tempi nostri, i teologi per così dire professionali, e si possono
fregiare del titolo solo coloro che hanno conseguito un dottorato, vale a dire
un grado accademico specialistico post laurea, sono in
genere molto più cauti e tolleranti.
Quando
costruiamo le nostre società di prossimità cerchiamo anzitutto di avere
presente il comandamento evangelico dell’agápe, che significa fare
società in modo amicale, misericordioso, benevolo, solidale, e, facendo tesoro
dell’esperienza ecclesiale di sempre, attestata finanche negli scritti nel
neotestamentari, cerchiamo di non impuntarci su questione di parole,
considerando la tentazione di escludere i dissenzienti come
quella di un peccato grave. Che nessuno di noi, che non ne abbiamo
ricevuto la specifica funzione, osi mai dire ad un’altra persona “Tu non sei
di Cristo!”.
Teniamo
a freno lingua e immaginazione, facciamo elenchi di cose da fare insieme e
dividiamoci i compiti da buoni amici, cercando di essere costanti nel
rispettare gli impegni presi.
3.17.
Il Sinodo in parrocchia.
Le nuove norme
canoniche sul Sinodo dei vescovi prevedono una fase di consultazione del
popolo. In passato attività del genere non hanno veramente coinvolto la gran
parte dei fedeli ma solo alcuni dirigenti di associazioni e movimenti, in
genere docili verso i vescovi, come piace loro.
Questa volta
il Papa vorrebbe qualcosa di più, vale a dire un processo sinodale
diffuso, del quale tuttavia non vi sono precedenti e dunque non si sa come
farlo.
Innanzi
tutto, al di fuori del Sinodo dei vescovi si può decidere qualcosa? Ancora non
si sa bene che cosa saranno chiamati a decidere i vescovi, che sul punto, al di
là di propositi piuttosto vaghi, non si sono sbilanciati. E se poi le proposte
non incontrassero il favore del Papa?! mi pare pensino i più: meglio aspettare
che ci dia l’imbeccata. I loro timori sono del tutto fondati. Per la struttura
autocratica della nostra Chiesa, contrariare il Papa regnante può costare molto
in termini di carriera.
In una
parrocchia, quelle considerazioni di potere non ci sono e, in genere, chi
voglia può avere un’idea chiara dei problemi. Il ruolo che vi hanno i laici è
umiliante. Occorre cambiare. Si può tentare di farlo sfruttando gli spazi di
autonomia che già ci sono, senza creare problemi geologici. Se ne può discutere
non solo nei consigli e nelle equipe, ma
in occasioni d’incontro strutturate come processo sinodale di base.
3.18.Le
origini storiche dell’umiliazione dei laici.
Trascrivo da
NEUNER Peter, Per
una teologica del popolo di Dio, 2015, pubblicato in traduzione
italiana da Queriniana, 2016:
°°°°°°
Nella bolla Clericos
laicos (1296) il papa [Bonifacio 8º] constatava perfino che “è antica
tradizione che i laici siano sommamente nemici dei chierici, e anche le
esperienze del tempo ne danno conferma”. Sebbene affermazioni di questo genere
siano state determinate da situazioni concrete di conflitto politico con il re
di Francia, con esse è stata fissata per iscritto, anche dal punto di vista
teorico, la contrapposizione tra clero e laici, rispettivamente la
subordinazione e la sovraordinazione nella chiesa di due classi in conflitto
l’una contro l’altra. E questa idea entrò nel diritto canonico. Graziano, il
“padre della giurisprudenza ecclesiale” del 12º secolo: “Ci sono due tipi di cristiani.
Il primo, in quanto incaricato del servizio divino e dedito alla contemplazione
e all’orazione è conveniente che stia lontano dalle cose temporali. Di esso
fanno parte i chierici e coloro che sono dedicati a Dio e cioè i religiosi.”
Questi “sono i re”. L’altro tipo di cristiani è costituito dai laici. A costoro
è permesso possedere beni temporali, ma solo per l’uso…A costoro è concesso di
sposarsi, coltivare la terra, giudicare tra uomo e uomo, pagare le decime, così
potranno salvarsi se però eviteranno il vizio e faranno il bene”.
In questo
modo fu tracciata e fissata una chiara linea di separazione nella chiesa. Da
una parte o in alto stanno coloro che hanno un un ufficio ecclesiastico, che
sono legittimamente ordinati e conducono una vita conforme alle regole di
perfezione cristiana. Questi sono i chierici; solo loro sono deputati al culto
divino. [Accanto o sotto sta la gran massa dei laici che a tutto questo non è
chiamata e che per questo conduce una vita nello stato di “imperfezione”. Le
due parti non formavano una comunità, ma erano rispettivamente sovra- e
sub-ordinate l’una all’altra.
L’immagine
della chiesa è chiara: i cristiani veri e propri sono i chierici. L’ordine dei
laici va inteso in definitiva come una concessione alla debolezza umana. […] Il
chierico è il cristiano perfetto, il laico è cristiano solamente nella misura
in cui la sua vita si accorda con quella di un chierico. Ciò che lo distingue
dal chierico è anche ciò che limita e oscura la sua esistenza cristiana.
Terminato il periodo dei martiri delle origini cristiane, quasi tutti i santi,
che sono diventati esempio di fede, appartengono all’ordine dei chierici: sono
fondatori di ordini religiosi, monaci e monache,vescovi o papi. Il laico,
sebbene non in via di principio, di fatto non sembra avere nessun accesso alla
santità fini a quando rimane in “stato di imperfezione” e non abbandona il
mondo.
°°°°°°
Quell’ordine di
idee descritto da Neuner è cambiato a seguito del Concilio Vaticano 2º, anche
se nella pratica i cambiamenti non sono stati del tutto conseguenti. Sotto il
regno del papa Giovanni Paolo 2º è quello dei suoi successori cominciarono ad
essere proclamati molti beati e santi che furono laici e proprio a
motivo della loro vita da laici. Caratteristica comune a tutti era però la
sottomissione all’autoritá ecclesiastica, nonostante tutto, anche nonostante la
sua discutibile virtù. E nella vita ecclesiale i laici, e soprattutto le laiche,
in genere vengono tenuti in una condizione di umiliante soggezione, come se
fossero ancora appendici non necessarie dell’apparato istituzionale costituito
da chierici e religiosi. Non vengono veramente coinvolti nei processi
decisionali, anche quelli nelle realtà di prossimità, vengono trattati con
esasperante sufficienza, non ci si cura della loro formazione di secondo
livello salvo che per i rudimenti in preparazione del matrimonio.
3.19.
Insufficienza della spiritualità miracolistica.
“Anche oggi, il mondo ha bisogno di vedere nei discepoli del
Signore dei profeti, cioè delle persone coraggiose e perseveranti nel
rispondere alla vocazione cristiana. Persone che seguono la ‘spinta’
dello Spirito Santo, che le manda ad annunciare speranza e salvezza ai poveri e
agli esclusi; persone che seguono la logica della fede e non del miracolismo;
persone dedicate al servizio di tutti, senza privilegi ed esclusioni. In poche
parole: persone che si aprono ad accogliere in sé stesse la volontà del Padre e
si impegnano a testimoniarla fedelmente agli altri”.
[papa Francesco,
discorso ai fedeli dopo l’Angelus, il 3-2-19]
Il miracolismo è
la spiritualità basata su pretesi fatti prodigiosi. Essa non è adeguata per la
formazione dei laici che devono partecipare alla vita sociale per cercarvi di
affermarvi i principi evangelici. Eppure è largamente utilizzata per
affascinare la gente meno acculturata alla fede o, comunque, come scorciatoia
formativa. In questo senso è ancora uno strumento del potere clericale.
Quest’ultimo, nella propria sacralizzazione, si ammanta di simboli che
rimandano a fatti prodigiosi ostacolandone una revisione critica.
Una
formazione fondata sulla fiducia nei prodigi, centrata su luoghi e persone
miracolanti, è povera, insufficiente, anche se produce belle e immaginifiche
narrazioni. Le nostre società non cambieranno se ci limiteremo a pregare e ad
attendere un miracolo. I poteri sociali, compresi quelli ecclesiastici, non
potranno che degenerare se non troveranno sufficiente capacità di critica
sociale intorno a loro. E l’obbedienza non è più una virtù, ma la più
subdola delle tentazioni, come insegnava Lorenzo Milani, grande anima.
Si
magnificano presunti prodigi e si è talvolta incapaci di riconoscerne uno vero,
frutto del lavoro determinante svolto da cristiani in collaborazione con altri
movimenti di virtuosi, vale a dire gli oltre settant’anni di pace europea, un
evento senza precedenti nella storia umana. È stata anche opera nostra e,
religiosamente, confidiamo che vi abbia posto mano anche il Cielo. La nostra
gerarchia appare in genere, ma vi sono eccezioni virtuose, incapace di
ammetterlo e, al più, si affida a un vago populismo che si è rivelato
storicamente incapace di produrre null’altro che precarie agitazioni, o
addirittura si concede a tentazioni francamente reazionarie.
La
costruzione sociale è arte che si impara e, in quanto produce pace, è via di santità
per quelli che la percorrono, scegliendo di rimanere nel mondo per
agirvi come fermento, non di fuggirlo cercando di creare oasi di pretesa
santificazione.
Purtroppo la
formazione di secondo livello dei laici, quella che si fa alle soglie della vita
adulta e quella permanente che dovrebbe continuare sempre, è sotto questi
aspetti gravemente insufficiente, e in genere la si riempie di una stucchevole
spiritualità miracolistica la quale, oltre ad essere inutile per un laico,
disgusta, del tutto a ragione, i più.
3.20.
Tempi nuovi, tradizioni e Tradizione.
Tempi nuovi iniziarono
subito dopo la morte del Maestro, ma durarono solo fino al terzo giorno. Dopo
la sua Resurrezione ne iniziarono altri ancora, dei quali si narra negli
scritti biblici neotestamentari, durante i quali egli fu di nuovo tra i suoi e
in mezzo alla gente per un po’ di tempo, per poi allontanarsene nuovamente in
modo prodigioso, promettendo di ritornare nella gloria, dando così inizio ad
altri tempi nuovi ancora. Da quel momento cominciò la riflessione
sociale per interpretarli. Innanzi tutto: quando sarebbe tornato e che fare
fino ad allora? Le attese di un ritorno veloce andarono deluse nei decenni
successivi. Si cominciò a pensare di non avere idea precisa di quando sarebbe
accaduto. Così le comunità delle origini si organizzarono, ciascuna secondo la
propria cultura, per durare, in una condizione di vasto pluralismo che non c’è
più e che durò circa un secolo, nel corso del quale morirono tutti i testimoni
diretti degli eventi evangelici, dei quali circolavano varie tradizioni. Da
queste ultime, procedendo la strutturazione sociale e istituzionale delle
nostre prime comunità, che presto manifestarono il costume di volersi tenere in
contatto, in particolare per ragionare di questioni di fede e di vita sociale
nella fede, scaturì quella che i teologi cattolici chiamano Tradizione e che
ritengono normativa per essere riconosciuti socialmente come cristiani. Essa
viene pensata come un deposito culturale da trasmettere di
generazione in generazione e i cattolici ritengono che risalga agli apostoli, i
discepoli che ricevettero direttamente dal Maestro l’incarico di trasmettere il
suo insegnamento in tutto il mondo, attraverso una serie di incarichi
successivi tra i loro successori. Di questo si può leggere nella Costituzione
sulla Divina Rivelazione La Parola di Dio – Dei Verbum, deliberata
nel corso del Concilio Vaticano 2º (1962-1965). In altre Chiese
cristiane ci sono diverse concezioni sulla natura e rilevanza della Tradizione.
Leggiamo in
quel documento del Concilio:
Gli
apostoli e i loro successori, missionari del Vangelo
7. Dio,
con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di
tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni.
Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la Rivelazione
di Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l'Evangelo, prima promesso per mezzo
dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro
predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola
morale, comunicando così ad essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito,
tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le
istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo
vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai
suggerimenti dello spirito Santo, quanto da quegli apostoli e da uomini a loro
cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il
messaggio della salvezza.
Gli apostoli poi,
affinché l'Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa,
lasciarono come loro successori i vescovi, ad essi « affidando il loro proprio
posto di maestri ». Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell'uno e
dell'altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa
pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a
vederlo faccia a faccia, com'egli è (cfr. 1 Gv 3,2).
La
sacra tradizione
8. Pertanto
la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati,
doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei
tempi. Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto,
ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a
voce che per iscritto (cfr. 2 Ts 2,15), e di combattere per
quella fede che era stata ad essi trasmessa una volta per sempre. Ciò che fu
trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla
condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così la Chiesa
nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a
tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede.
Questa Tradizione di
origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito
Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole
trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano
in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data
da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione
di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma
sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla
pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di
Dio.
Le asserzioni dei santi
Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze
sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega. È
questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri
e nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente
operanti le stesse sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato
non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo,
per mezzo del quale la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo
di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa
risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16).
Ciò sintetizzato,
servendoci di un documento dell’ultimo Concilio, per quanto riguarda
gli aspetti del problema trattati nella teologia cattolica, bisogna osservare
che, nel corso della storia delle Chiese cristiane, e specificamente della
nostra, la quale cominciò a manifestare le caratteristiche che specificamente
la distinguono dalle attuali altre tra l’Undicesimo e il Quattordicesimo
secolo, si manifestarono altre tradizioni culturali in materia di fede che non
vengono comprese in ciò che si ritiene costituisca la Tradizione, benché su
questo punto si sia molto discusso e ancora si discuta. Poiché la storia
delle nostre Chiese non ha avuto connotati particolarmente diversi da quelli
delle altre società e quindi non è stata particolarmente virtuosa, valutata
secondo i criteri evangelici, e, ad esempio, ha compreso il coinvolgimento in
una serie lunghissima di sanguinosi conflitti, discriminazioni razziali e di
altro genere, abusi di potere di ogni tipo, anche quelle altre tradizioni non
sono state da meno.
In genere
chi è riuscito a comandare in religione, non di rado valendosi del potere
politico che di fatto o di diritto era riuscito a conquistare, ha cercato
storicamente di inglobare le tradizioni, in particolare quella
specifica che legittimava quel suo potere, nella Tradizione, in modo da
sacralizzare il proprio potere. Ad esempio, fino al Concilio Vaticano 2º si
riteneva ancora tra i cattolici che nella Tradizione fosse compresa la
sottomissione della donna all’uomo, e ciò, va rilevato, contro i costumi dei
cristiani in quel primo secolo in cui si confrontarono e formalizzarono in
testi scritti le varie tradizioni evangeliche.
Nel lavoro
di purificazione della memoria al quale ci guidò san Karol
Wojtyla da Papa è compreso anche quello di distinzione tra le tradizioni
storiche e la Tradizione, che consideriamo come il tesoro prezioso da
consegnare intatto alle generazioni successive. Nonostante spesso lo si dubiti,
non è un lavoro solo per teologi, perché tutti noi, nell’interazione sociale
partecipiamo incessantemente alla creazione e trasmissione di
tradizioni e quindi di esso siamo anche responsabili personalmente. Ma ad esso
si dovrebbe anche essere formati, gli autodidatti non hanno dimostrato di farlo
granché bene, ma questa formazione è oggi in prevalenza riservata a clero e
religiosi. Così sembra che tra loro e noi laici si parlino lingue
diverse e spesso i laici manifestano una condizione di umiliante ignoranza, che
è reale, certo, ma dipende fondamentalmente da un inadempimento di chi ha
avuto la missione apostolica di rimediarvi.
3.21.Le
relazioni creano il senso della vita.
Quando iniziai il
catechismo dell’infanzia, che ebbi proprio nella nostra
parrocchia, cominciarono con lo spiegarmi chi era
Dio. Forse avrebbero fatto forse meglio a spiegarmi prima chi ero io. Capii
confusamente di essere qualcuno nella massa degli uomini, nella
specie dei bambini e che, come tale, avevo degli obblighi
assai vasti di obbedienza nei confronti dei miei genitori, innanzi tutto, e poi
di coloro che ne facevano le veci, nonne, preti, maestri e poi l’Akela dei
lupetti. In cima a tutti c’era questo Dio, che fondava il potere di tutti gli
altri sotto e che poteva mandarti all’inferno, per sempre, per la minima disobbedienza.
Per molti la religione rimane essenzialmente questo, anche quando la riscoprono
in altre stagioni della vita o, addirittura, solo da anziani. La
rivoluzione nella catechesi che si cercò di progettare negli anni ’70 cercò di
presentare un diverso modo di vivere la fede, ma nella pratica non ci si riuscì
mai, perché senza la sacralizzazione del potere di cui dicevo sembrava che
tutto svanisse.
Noi capiamo chi
siamo mediante le relazioni sociali a cui partecipiamo nelle varie età
della vita, nella quale troviamo un limite oggettivo come quello che ci si
prospetta verso la fine. Se ne prese coscienza anche in religione negli anni
’60 e ’70 e si cercò quindi di organizzare la catechesi rinnovata in comunità
educanti, le quali, però, finirono per manifestare un certo dispotismo, quando
non realmente partecipate. Non basta, infatti, all’animo umano proporre di
continuare a fare come tutti gli altri, e meno che mai secondo i
costumi della famiglia di origine. Queste comunità ovile o comunità
serra, la cui caratteristica era la separazione dal resto della
società per preservare nuclei di resistenti, creavano
relazioni troppo povere, in particolare per i giovani, che per fisiologia sono
spinti a rendersi autonomi. Inoltre finiscono per selezionare elementi docili,
l’urtante termine che purtroppo ricorre nel Magistero quando si rivolge ai
laici, mentre gli altri prendono altre strade. La crisi dei modelli ecclesiali
correnti è prima di tutto crisi di relazioni sociali, alla quale si cerca di
porre inutilmente rimedio con la spiritualità miracolistica e
l’agitazione liturgica, la prima fortemente caratterizzante la seconda.
Nell’attuale prassi liturgica il popolo, composto in massima parte
da persone laiche, è ridotto al ruolo di mera comparsa adorante e
non ha vera voce.
Formare alla
fede, come in ogni altro tipo di formazione vera, significa costruire società,
quindi relazioni tra persone. Anche quella con Dio, come viene inteso tra i
cristiani, va costruita, per questo non è mai la stessa in tutte le persone e
anche nell’evolvere dei tempi.
Da
bambino, per come mi presentavano la religione, pensai che avrei finito per
annoiarmene: man mano che crescevo mi resi conto che le persone, nella loro
vita, non hanno mai veramente il tempo di annoiarsi perché essa è breve, troppo
breve, e le stagioni della vita si succedono tumultuosamente, cambiando il
mondo che percepiamo intorno perché cambiano le nostre relazioni con esso. Chi
vuole fermare il proprio tempo, ad esempio sforzandosi di credere come quand’era
bambino, rimane deluso, perché non funziona per quanto ci si sforzi, attivando
l’immaginazione.
Piuttosto la
religione, se non tiene conto che le persone cambiano, diventa rapidamente
inutile e, proprio perché il tempo della loro vita è poco, le persone tendono a
non sprecarlo per ciò che si rivela inutile.
La
religione, come ancora oggi è presentata, diventa rapidamente inutile. Pochi
tra i laici hanno il privilegio di approfondirla in modo da rendersi conto
perché, invece, essa è stata amata da grandi anime del passato, e lo è anche
oggi, e tra esse persone molto sapienti.
Il
miglioramento della formazione religiosa delle persone laiche, da non intendere
strettamente come catechesi ma come costruzione sociale, è pregiudiziale
all’esito del processo sinodale diffuso che si sta progettando nella Chiesa
italiana dal prossimo ottobre, perché non si risolva nella solita, noiosa,
insensata, pantomima paraliturgica, nella quale il ruolo delle persone laiche è
più che altro quello di recitare ciò che leggono sul foglietto con
la loro parte.
3.22.Nella
storia molte risposte.
[Da FILORAMO Giovanni, Storia
della Chiesa – 1. L’età antica, EDB, 2019]
(pag.100-101) Il
sorgere, nel corso del 2º secolo, di un’apologetica cristiana come difesa
puramente razionale, senza ricorrere ad argomenti scritturistici e dunque alla
rivelazione, delle proprie dottrine e pratiche, costituisce un momento
essenziale nel formarsi della “grande Chiesa” che, in questo modo, dimostra di
sapersi confrontare su un piano di parità con la cultura ellenistico-romana.
Questo confronto non va inteso a senso unico. Le posizioni degli apologeti del
2º secolo, a questo proposito, variano tra una più concordistica, tesa a
dimostrare l’importanza e la convergenza tra il meglio della ricerca razionale
e il contenuto della dogmatica cristiana,e un’altra, più conflittuale, tesa di
contro a sottolineare l’irriducibilità delle verità di fede e quelle
raggiungibili dalla ragione.
[…] Questo contrasto è
già presente in Paolo […] ritorna negli apologeti nelle sue diverse risposte di
Giustino e Taziano […] il primo, con la sua teoria del lògos
spermatikòs [le idee sul rettò comportamento e il divino già presenti
trama le genti prima della rivelazione cristiana], getta le basi di una
teologia naturale che, tra alti e bassi, arriva al Concilio Vaticano 2º.
[…]
(pag.99) Il tratto
distintivo della più antica apologetica cristiana, intesa come presentazione,
su di un piano di plausibilità razionale, dei contenuti della fede non soltanto
come mezzo di difesa del cristianesimo, ma nel contempo, ai fini di propaganda
e diffusione, consiste nello sforzo di accreditare il cristianesimo presso la
classe politica e intellettuale pagana come il solo interlocutore valido sul
piano della politica religiosa; e questo, sia nei confronti delle forme
tradizionali di religiosità, sia nel confronto del proliferare dei nuovi culti.
La cooperazione tra cristiani e sistemi di potere del mondo corrisponde alla
volontà di Dio come mezzo per facilitare la salvezza degli uomini.
[…]
(pag.105) Nel corso del
3º secolo, nonostante la violenta persecuzione di cui fu vittima a metà secolo
prima sotto Decio poi sotto Valeriano, la Chiesa conobbe un processo di
ampliamento e consolidamento […] quel che pare più probabile è che all’inizio del
4º secolo, al momento dello scoppio della “grande persecuzione” dioclezianea,
essi [i cristiani] costituissero quasi il 10% della popolazione dell’impero,
stimata intorno ai 70 milioni: una minoranza, ma significativa. Un caso a parte
è rappresentato da Roma, per la sua posizione eccezionale in quanto capitale
dell’impero: a metà del 3º secolo i cristiani potevano essere circa 40.000, tra
il 5 e il 10% della popolazione, stimata a circa 7000.000. Ciò potrebbe
spiegare il detto attribuito da Cipriano a Decio: “preferirei sentire che un
imperatore romano è insorto contro di me piuttosto che vi sia un altro vescovo
a Roma”. (Lettere 59,9).
*******************
Nella
formazione religiosa della gran parte delle persone, la storia non è presente e
questo la rende povera. Inoltre va sprecato, dal punto di vista religioso, il
prezioso patrimonio culturale che si acquisisce durante le scuole secondarie,
che, invece, dovrebbe essere costantemente rinfrescato e arricchito nel corso
della formazione religiosa. Quest’ultima, invece, per i più si indirizza presto
verso una spiritualità di tipo miracolistico che riduce alla umiliante
condizione di mero gregge nelle mani di un clero che, privo di
un sufficiente apporto dei laici, appare incerto, insicuro, ondivago tra
conservazione e atteggiamenti reazionari, incapace di confrontarsi
con la società intorno.
Senza la
capacità di mediazione culturale sviluppatasi nelle società dei cristiani tra
il 2º e il 3º secolo le chiese cristiane sarebbero state rapidamente
riassorbite dalla società intorno, come accadde ad altri culti coevi. La
mediazione per il potere politico influì poi potentemente, dal 4º secolo, sulle
definizioni teologiche fondamentali, in particolare sulla cristologia e sul
concetto di Regno, in un contesto culturale in cui gli imperatori
cristianizzati iniziarono a rivendicare il ruolo di vescovi
supremi e di vicari di Cristo.
3.23.Difficile
Sinodo.
Il Sinodo della Chiesa
cattolica tedesca, il cui inizio ha preceduto quello della nostra, spaventa taluni.
Su teme che, volendo veramente coinvolgere tutti i fedeli, e
non solo ritualmente, difficilmente si riuscirà a eludere i problemi, in
particolare quello della umiliante condizione dei laici, e tra essi quella
delle donne, e la crisi del sacerdozio ministeriale come stato di vita separato
e privilegiato. Quindi penso che ci potrebbe essere la tentazione di sceglierà
la via di ritualizzare e in tal modo di circoscrivere il contributo effettivo
dei laici a quella parte di loro che ancora non si scandalizza di essere tenuto
nella posizione di gregge.
La
situazione alla quale non si riesce a porre rimedio ha origini storiche e si è
particolarmente inasprita dal 16º secolo, nella fase applicativa del Concilio
di Trento (1545-1563). La maggior parte dei fedeli non ne ha nessuna
consapevolezza, ma i preti sì, ne vengono informati nel corso del loro lungo
iter formativo. Se ne tratta, ad esempio, in NEUNER Peter,Per una teologia
del popolo di Dio, pubblicato nel 2015 in Germania e in traduzione
italiana da Queriniana l’anno successivo. Ne cito di seguito alcuni brani.
(pag. 64-65) La
distinzione tra clero e laici caratterizzò l’ecclesiologia medievale che
consisteva fondamentalmente in una dottrina della gerarchia e dei suoi poteri.
Le immagini dell’unico popolo di Dio e dell’unico corpo di Cristo furono
modificate in modo tale da non esprimere più l’unitá della chiesa, ma una
separazione interna. […] La chiesa diventata una città con due
popoli, l’uno raccolto dietro il papa, formato da vescovi,dai sacerdoti e dai
monaci, l’altro raccolto dietro l’imperatore, formato dai principi, dai
cavalieri, dai contadini, da uomini e donne.
[…] Clero e
laici stavano gli uni di fronte agli altri in un atteggiamento di fondamentale
ostilità, come chi domina e chi è dominato.
[…] Di fatto, i
laici ora erano privati di tutto ciò che era significativo per la loro loro
vita ecclesiale. Ora tutto questo apparteneva al clero.
[72-74] Nei
decreti dogmatici del concilio [di Trento] il sacerdote è
presentato come l’uomo dei sacramenti, caratterizzato dal potere di consacrare
i doni eucaristici e di perdonare i peccati, vale a dire dai poteri che il
laico non ha. […] I sacerdoti furono, per così dire, rapiti in
cielo. Ne troviamo un esempio nel Catechismus romanus, un documento
ufficiale che doveva rielaborare le decisioni del concilio di Trento per i
parroci e le comunitá, nel quale si dice che “nessuna missione sulla terra è
più sublime di quella dei sacerdoti e giustamente i preti sono chiamati non
solo angeli, ma addirittura dèi, portando in sé stessi l’efficacia e la maestà
della divinitá”.
[…]
Nell’epoca
che segue il concilio di Trento la Chiesa viene vista innanzitutto e prima di
tutto come una grandezza suddivisa in classi, come una società di
diseguali. […] L’impostazione era chiara: da una parte c’era
la. Chiesa docente, dall’altra la Chiesa discente e obbediente. I fedeli sono
le pecore delle quali si prendono cura i pastori. La loro funzione
nell’annuncio è limitata a “testimoniare ciò che è stato loro insegnato dai
pastori”.
[…] Questa
concezione della chiesa trovò la sua codificazione anche nel diritto
canonico.Questo era quai esclusivamente un diritto riguardante il
clero. I laici comparivano quasi esclusivamente come oggetti di
diritto, non come soggetti di diritti. […] [Nel sistema del codice di
diritto canonico del 1917] i laici sono coloro dei quali ci si deve
prendere cura e sui quali, per questo motivo [il clero] può
esercitare le proprie potestà. E anche laddove ai laici viene aperta la
possibilità di esercitare una parte attiva, come ad esempio nell’Azione
Cattolica, nelle associazioni e confraternite, il diritto canonico deve fare in
modo che tutte queste attività possano essere compiute attentamente
soltanto sotto la guida e le direttive del clero. I laici, in
definitiva, avevano soltanto il diritto di farsi accudire
spiritualmente dal clero e di adempiere alcune e ben circoscritte
funzioni seguendo le indicazioni della gerarchia ecclesiastica. E quando un
sacerdote veniva privato dei diritti speciali che gli spettavano nella
chiesa, questo atto veniva detto laicizzazione, riduzione
allo stato laicale.
Le
deliberazioni del Concilio Vaticano 2º (1962-1965), che ebbe come centro di
riflessione la Chiesa come popolo di Dio e di conseguenza la condizione del
laicato, iniziarono a scostarsi da quegli sviluppi ideologici prodottisi
essenzialmente nel Secondo Millennio della storia della cristianità, ma in modo
incompleto, mantenendone fondamentalmente la concezione della struttura
gerarchica. Inoltre, nella lunga egemonia di san Karol Wojtyla e e di Joseph
Ratzinger ai vertici ecclesiali, caratterizzata da un marcato inasprimento
disciplinare verso clero e religiosi, gli unici strati della popolazione
cristiana rimasti quasi completamente nel dominio della gerarchia ecclesiale,
si cercò di imporne una interpretazione fortemente restrittiva, nel corso di
quello che con il senno del poi appare un lungo inverno ecclesiale
caratterizzato dalla profonda diffidenza in particolare verso i movimenti
laicali dell’Europa occidentale.
Da ciò,
sostanzialmente, la profonda crisi della partecipazione ecclesiale nella Chiesa
cattolica italiana, dalla parte dei laici, ma anche di clero e religiosi, salvo
frange reazionarie piuttosto bellicose e rumorose, ma pur sempre frange.
3.24.
Le basi dogmatiche della riforma sui laici già esistono.
Peter Neuner, in Per
una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016, osserva (pag.72-83)
che l’inesorabile nuova dogmatica affermatasi nel Concilio di Trento
(1545-1563), a seguito della quale la Chiesa venne vista innanzi tutto e prima
di tutto come una grandezza suddivisa in classi, come una società di diseguali,
con il clero che accentrava nella pratica la definizione dei principi,
lasciando ai laici il solo compito di testimoniare ciò che era
stato loro insegnato dai pastori, venne mitigata nei decreti di riforma del
medesimo Concilio, che ponevano al centro dei compiti di vescovi e
sacerdoti la predicazione e la pastorale. Quest’ultima parte della riforma
attuata con quel Concilio è sostanzialmente sopravvissuta nelle
concezioni alla base delle deliberazioni del Concilio Vaticano 2º, svoltosi
circa quattro secoli dopo, mentre la dogmatica ecclesiale del Concilio di
Trento appare radicalmente mutata, in particolare con la Costituzione dogmatica
sulla Chiesa Luce per genti – Lumen gentium. Semplicemente,
non se ne sono tratte ancora tutte le conseguenze con riferimento in
particolare alle posizioni e alle funzioni ecclesiali dei laici. È un lavoro
che deve coinvolgerci tutti, non
essere confinato nella gerarchia, nella quale in anni passati, come dimostrato
dall’esperienza storica della fase attuativa del Concilio Vaticano 2º, finora
fallita, si sono manifestate tendenze per proporre una lettura restrittiva
della nuova dogmal’attuarla. La legge generale di ogni potere politico, e
quello della nostra gerarchia ecclesiale ha anche questa natura, ed è questo
suo aspetto ad umiliare i laici, è quella di resistere ad ogni riforma che ne
comporti limiti, prospettando la dissoluzione del corpo politico di
riferimento. La fase attuativa del Concilio Vaticano 2º abortirà se, per la
parte che riguarda il laicato, non sarà largamente partecipata dal laicato,
mediante processi propriamente democratici e non solo sinodali.
Poiché
i profili dogmatici sono già stati faticosamente definiti e tenuto conto che la
teologia cattolica in Italia, prevalentemente organizzata in università
controllate dalla gerarchia mediante una asfissiante pressione disciplinare,
tende a sopravvivere adattandosi agli orientamenti della gerarchia che
attualmente spingono verso interpretazioni restrittive della dogmatica
dell’ultimo concilio, è consigliabile muoversi nell’ottica della dogmatica
conciliare, cercando di trarne tutte le possibili conseguenze in tema di
laicato, invece che ulteriormente pasticciare confusamente in teologia, finendo
stritolati da quella di corte fondamentalmente reazionaria ma capace di un
pensiero raffinato.
Il punto di
forza del laicato è questo: l’attuale sua umiliante condizione ecclesiale
deriva da una disumanizzazione delle persone di fede non appartenenti al clero,
ridotte ideologicamente alla condizione di gregge alla
completa mercé di gerarchi ecclesiali, che in realtà si sono riconosciuti
bisognosi del consiglio dei laici anche nei compiti loro propri della
predicazione e della cosiddetta pastorale. Questo è dimostrato dalla
riconosciuta ampia partecipazione di esperti laici alla redazione delle
encicliche pontificie almeno dalla Delle novità – Rerum novarum del
1891. La direzione politica dell’organizzazione ecclesiale è
arbitrariamente ancora riservata alla sola gerarchia del clero, anche negli
aspetti che non toccano la predicazione e la pastorale, come quelli, ad
esempio, dell’amministrazione e utilizzazione dei beni ecclesiastici, tipico il
caso della Cittá del Vaticano ma la stessa situazione si ripresenta in un
ambiente sociale di base come la parrocchia, e quelli delle relazioni politiche
con i poteri civili, nelle quali ancora, ed arbitrariamente dal punto di vista
della dogmatica, quando si parla della Chiesa si intende
ancora solo la gerarchia ecclesiastica.
Dati i
deliberati dogmatici del Concilio Vaticano 2º in materia di Chiesa è possibile
uscire tranquillamente dalla politica ecclesiastica di impero religioso che ci
ha connotati (solo) dal Secondo Millennio e costruire, a partire dalla pratica,
quindi iniziando a farne tirocinio, forme più partecipate e meno
umilianti per i laici di essere e fare Chiesa.
E non si deve temere per il fatto che una cosa del genere non ci sia stata mai
nel passato, ed è vero, perché, sotto questo specifico profilo, non
abbiamo più esempi virtuosi ancora validi per il nostro oggi, ma una storia
tremenda, veramente orrenda nella sua estrema, estesissima ed efferata
violenza, dalla quale occorre distanziarci in quel lavoro di purificazione
della memoria al quale iniziò a guidarci, nell’ultima fase del suo
regno di Papa, san Karol Wojtyla e che ora sembra caduto un po’ in
desuetudine. Questa storia sconvolgente non risale però alle origini e,
in particolare, al nostro Maestro, mite e umile di cuore, ma a
teologie politiche di molto successive, le ultime manifestazioni eclatanti
delle quali si ebbero durante il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano 1º
(1869-1870), travolto traumaticamente dagli eventi bellici italiani che
portarono alla soppressione dello Stato Pontificio nel Centro Italia. Il
Concilio Vaticano 2º inaugurò una nuova era.
3.25.
La creazione del laico come costruzione sociale.
Il teologo tedesco Peter
Neuner in Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016,
ha sintetizzato molto efficacemente come la figura del laico e l’umiliante
emarginazione dei laici nella Chiesa cattolica sia stata il frutto di
costruzione sociale che si è sviluppata nell’arco di circa un millennio e che
si è completata con le deliberazioni del Concilio di Trento, nel Cinquecento.
Nelle prime comunità cristiane delle origini non esistevano preti sacerdoti né
vescovi e tantomeno vescovi monarchi autocratici. Esse ci appaiono
travagliante, all’interno e tra loro, da aspre polemiche e duri conflittu e
questo è l’elemento che possiamo considerare realmente persistente nelle varie
forme di cristianità che storicamente si sono manifestate, almeno fino agli
anni Cinquanta del secolo scorso, epoca dalla quale, proprio con il contributo
determinante di persone laiche, si è cominciato a vivere la fede diversamente e
la pace sociale non è stata più intesa come un’utopia realizzabile
solo alla fine dei tempi ma come un concreto obiettivo
politico-religioso.
Ancora oggi
la cosiddetta gerarchia considera l’Illuminismo un nemico
pericoloso e a ragione: con l’Illuminismo, infatti, dal Settecento, cominciò ad
essere messa in questione la condizione sacralizzata del clero come parte migliore della
Chiesa, destinata a dominare gli altri fedeli, ridotti alla
condizione laicale.
Scrive Neuner
(pag.75):
Nonostante
tutte le motivazioni teoretiche portate a sostegno della subordinazione dei
laici al clero, questo stato di dipendenza si potè conservare soltanto fino a
quando la formazione, almeno in ambito filosofico e teologico, fu riservata al
clero. Non a caso il termine “laico” ha conservato sempre anche il significato
di non-specialista.Questo presupposto cominciò a venir meno con llluminismo che
rese accessibile la formazione a gruppi più ampi di persone. In ambito
cattolico ciò avvenne con un certo ritardo perché l’Illuminismo, in molti suoi
rappresentanti, specialmente in ambito francese, aveva assunto un profilo
ostile alla chiesa e perché la Chiesa ufficiale aveva reagito mettendosi sulla
difensive o sulle barricate nei confronti di tutti gli sviluppi moderni.
Il Syllabus di Pio IX, del 1864, con il suo rifiuto di tutte
le correnti e idee moderne e con la condanna dei tentativi di riconciliare la
chiesa con il progresso, rappresentò il culmine e la sintesi di questa ghettizzazione
della chiesa.
Con
l’estraniazione della chiesa da ampi settori del mondo e della cultura moderna,
i laici furono quasi costretti ad esserne i rappresentanti nel mondo con il
quale la gerarchia non voleva più avere alcun contatto.
Naturalmente
la gerarchia contrastò duramente queste pretese di partecipazione dei laici (ma
anche del basso clero, che in questo campo ne segui la stessa sorte) e, per
rendere un’idea del clima dell’epoca, Neuner cita queste righe inviate da un
prelato all’arcivescovo di Westminster, criticando le idee esposte da John
Henry Newman nel saggi del 1859 Sulla consultazione dei fedeli in
materia di dottrina: “Se non sarà loro posto un freno, i laici inglesi
diventeranno i capi della Chiesa d’Inghilterra prendendo il posto della Santa
Sede e dell’episcopato. È del tutto esatto che Newman a Roma sia stato sempre
sospetto…Qual è il campo dei laici? Andare a caccia, sparare, conversare.
Queste sono le cose che capiscono; ma di immischiarsi nelle questioni della
Chiesa, loro non ne hanno nessun diritto […] Il dottor
Newman è l’uomo più pericoloso d’Inghilterra”.
Una
volta, negli anni ’70, mi fu raccontata una freddura che all’epoca circolava
nei seminari, sulle posizioni dei laici nella chiesa, che
sarebbero state: in piedi, in ginocchio, seduti e con
le mani al portafoglio.
La
viva diffidenza di clero e religiosi verso i laici è ancora chiaramente
percepibile, ad esempio, quando, ad ogni richiesta di maggiore coinvolgimento
nelle attività ecclesiali, si risponde loro che la Chiesa non è una
democrazia. Sarebbe bene, per il bene della Chiesa, che i laici non
accettassero più passivamente uscite del genere, replicando con
forza che purtroppo la Chiesa, come struttura di governo collettivo,
quindi nella sua dimensione politica, non è ancora una democrazia e quindi vi
si discrimina ingiustificatamente la maggior parte del suo popolo.
3.26.E’
necessaria la riforma della struttura politica ecclesiale.
Ogni struttura politica
ha avuto origine storica ed è tale, vale a dire politica, perché serve per
il governo della società di riferimento. Serve nel senso
che ne è strumento. I cristiani hanno tuttavia un’idea più
virtuosa di quel servire, nel senso che il governo della
società è messo nelle mani di taluni non nel loro proprio interesse, ma in
quello dell’intera società, per cui essi lo devono esercitare come
colui che serve, e questo è un principio evangelico. Quindi la politica serve per
il governo della società, ma, poiché chi la esercita lo deve fare come colui
che serve, allora il governo della società deve servire alla
società, vale a dire essere finalizzato al suo bene, cioè bene comune, che, in
un’ottica cristiana, deve essere concepito secondo criteri evangelici, quindi
nello spirito dell’agápe. Secondo quest’ultima, ciascuno è ammesso
benevolmente alla condivisione della tavola comune nella sua piena dignità di
persona umana. Una struttura politica che, pur finalizzata al suo bene, lo
umili e lo riduca, disumanizzandolo, ad animale, del quale pure ci si debba prendere
cura, non risponde a quel criterio di agàpe. Essa va
quindi riformata, in base a quelle semplici considerazioni, che non implicano
alcuna sofisticata teologia. Non facendolo, quella struttura politica non
serve più, in entrambi i sensi in cui il servire può
essere inteso, e diventa oppressiva e fonte di sofferenze ingiuste, oltre che
disfunzionale. Questo problema si è riproposto ciclicamente moltissime volte
nella travagliata storia politica delle nostre Chiese, che, di solito, ci
appare virtuosa nelle biografie personali, ma raramente nel suo aspetto
istituzionale, nel quale soni prevalsi decisamente aspri conflitti per
questioni di politica nell’interesse proprio di ceti di volta in volta
emergenti.
“Dio ha
creato la gerarchia e così ha provveduto piú che a sufficienza ai bisogni della
Chiesa fino alla fine del mondo”: così il teologo cattolico Johann Adam
Mohler (1796-1838) [v. biografia in Enciclopedia Treccani in
line] sintetizzò ironicamente “la concezione diffusa nel suo tempo,
secondo la quale Cristo era venuto sulla terra per istituire
con Pietro il primo papà e con gli apostoli i vescovi, e che poi se
ne era potuto andare, lasciando la chiesa all’autorità della gerarchia e del
diritto” [da P. Neuner, Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana
2016]. Mohler considerava la condizione dei laici cattolici al suo tempo come
un’odiosa umiliazione del popolo di Dio provocata da quel concetto gerarchico
di chiesa e si proponeva di dare un nuovo suono alla parola “laico”. La
situazione dei laici cattolici di oggi mi appare di poco mutata.
3.27.Non
perdersi d’animo.
Di
solito si sorvola sulla storia delle nostre Chiese perché si teme di spaventare
i semplici. Se ne dà quindi una versione agiografica, vale a
dire tesa a porne in risalto i soli elementi virtuosi, che certamente non
mancano.
Tuttavia, in
questo modo non se ne fa una memoria realistica e se questo può essere in
qualche modo accettato quando ci si rivolge ai bambini, non è così nella
formazione dei ragazzi e degli adulti, vale a dire delle persone nelle età in
cui ci si deve confrontare con il male che c’è nella natura e con il male
etico, sia individuale che sociale. Ognuno può facilmente constatare che queste
specie di male sono presenti dovunque in noi e intorno
a noi. La nostra Chiesa come struttura sociale, e quindi politica, ne
sarebbe stata e ne sarebbe ancora esente?
Ma come può
essere se già negli scritti neotestamentari, quelli particolarmente importanti
perché ci parlano della vita e degli insegnamenti del Maestro e delle prime
esperienze comunitarie dei cristiani, sono chiaramente presenti?
Aggiungo
che, se di solito ora cerchiamo di individuare in ogni problema del passato una
parte della società che sbaglia o consapevolmente
sceglie una via cattiva, e che così facendo ne è responsabile, e
ci sforziamo di non comprendervi mai chi nella nostra Chiesa esercitava il
potere supremo, in realtà, sforzandoci di fare memoria veritiera del passato,
ci accorgiamo che questo non ci è sempre possibile, e allora proponiamo
comunque tesi giustificazioniste, osservando che chi comandò azioni discutibili
in definitiva non può essere considerato soggettivamente colpevole, perché
giudicava secondo la cultura del suo tempo e, anche se aveva ricevuto la
Rivelazione, la interpretò secondo quella cultura, così come quella Rivelazione
descriveva con le parole delle lingue da lui conosciute. A questo modo di
pensare si può obiettare che la memoria realistica del passato serve a non
ricadere nel male etico che vi è insito, non a condannare chi lo visse e
impersonò, perché, dopo la morte di una persona, quel giudizio compete a Dio e
a Dio solo. È addirittura un dogma della Chiesa cattolica, deliberato nel corso
del Concilio di Trento (1545-1563), che nessuno, se non Dio, possa dichiarare
che una persona morta è sicuramente dannata. Insomma, un po’
semplicisticamente, mi sembra che si debba concludere che si possano proclamare
beati o santi, ma non dannati. Questo per quanto riguarda le biografie
individuali. Ma certamente non solo possiamo, ma anzi dobbiamo, riconoscere il
male sociale, ma anche individuale, del passato per non ripeterlo.
Questo
appunto il lavoro di purificazione della memoria al quale ci
guidò san Karol Wojtyla nei tre anni di preparazione che precedettero il Grande
Giubileo dell’Anno 2000.
Egli fu anche
molto criticato per questo, appunto obiettandogli che il popolo cristiano
avrebbe potuto esserne disorientato, ma nondimeno egli lo prosegui, celebrando
in quella che chiamò la Giornata del Perdono, una liturgia in cui, il 12 marzo
2000, in San Pietro, come capo della Chiesa cattolica e a nome di tutti gli
altri fedeli, chiese perdono a Dio del male etico di cui i cristiani si erano
resi responsabili nei secoli passati. Oggi l’elencazione delle colpe da lui confessate
in quell’occasione ci appare incompleta, perché non comprendeva esplicitamente
quelle riconducibili all’esercizio del potere degli stessi Papi del passato.
Essi, in particolare, storicamente si resero responsabili di scelte politiche
che oggi ci appaiono addirittura malvagie, ad esempio quelle che discriminarono
gli ebrei loro contemporanei nella vita civile. In quel campo noi non
accettiamo più nemmeno l’insegnamento di alcuni dei più importanti Padri della
Chiesa, che furono feroci contro l’ebraismo. E che dire delle stragiste guerre
per reprimere albigesi e valdesi per
questioni teologiche e di assetto ecclesiastico, che oggi condurrebbero i
responsabili davanti alla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra?
Nonostante
quella tremenda storia e nonostante le indubitabili responsabilità anche di
coloro che all’epoca si presentarono come Vicari di
Cristo, non bisogna però perdersi d’animo, perché la nostra Chiesa ci
ha sicuramente recato anche gli insegnamenti del Maestro, e questa era la sua
missione. C’è riuscita nonostante che le sue strutture politiche fossero state
modellate dalla sua storia e dalle culture che, nei vari tempi, erano risultate
dominanti, e come tali avessero provocato tanta sofferenza.
Così, la
gran parte delle accuse alla nostra Chiesa che le giungono da parte dei suoi
nemici sono senz’altro vere, ma nondimeno noi non dobbiamo
abbatterla come loro pretenderebbero, ma riformarla, per
dimostrare di aver imparato la dura lezione che viene dalla sua
terribile storia, per la quale del resto ogni cristiano, ed anche gli stessi
Papi, confessa, all’inizio della liturgia della messa, di aver molto
peccato.
Senza
la nostra Chiesa, infatti, ci sarebbe stato impossibile diventare
realmente cristiani e su questo, che io sappia, tutte le nostre Chiese
contemporanee sono d’accordo.
In religione
in genere si pensa a ciò che è santo come di qualcosa legato
al divino e, in questo senso perfetto. La nostra esperienza
pratica ci dimostra che però nessuno e nulla di
cui abbiamo fatto esperienza può essere considerato
totalmente perfetto in quel senso, tranne il Maestro e,
per i cattolici e altre Chiese cristiane, sua Madre. Dunque, la santità non è
di questo mondo? E come la mettiamo con le diverse persone e istituzioni che,
nelle Chiese cristiane, vengono considerare sante, ad esempio,
per i cattolici, la stessa nostra Chiesa? Per avere delucidazioni in merito
dovete fare riferimento ai pastori e ai dottori, i
quali sono una componente essenziale nelle Chiese cristiane, al di là delle
varie configurazioni organizzative che si è dato ai loro ministeri. Io non sono
né l’uno né l’altro.
Il problema
si pose fin dall’antichità, in particolare da quando la Chiesa cominciò a
manifestarsi come un’organizzazione istituzionale ben definita che tendeva
all’unità intorno a un centro di potere. Una via pratica e semplice,
quindi empirica perché basata sull’esperienza concreta, che
può essere seguita è di considerare la santità come un modo di indicare la
perfezione in quello che è realmente secondo il volere divino,
per cui, siccome noi riconosciamo di essere sempre per via verso quella meta,
possiamo non scandalizzarci delle imperfezioni che ci affliggono, come persone
e nelle società che costruiamo, comprese la stessa storica organizzazione
ecclesiale, imparando però a riconoscere anche il bene dove si manifesta e
anche ad accettarne l’origine soprannaturale.
Naturalmente
questo non risolve i complessi problemi su quei temi travagliano il pensiero
teologico, ma che consente a noi che non sappiamo di teologia di continuare a
rispettare le nostre Chiese anche quando ci proponiamo di riformarle.
Non è in
fondo con quest’atteggiamento che affrontiamo di solito ogni
problema di riforma sociale, in particolare in ambienti democratici, nei quali
quel lavoro non è ostacolato dalla sacralizzazione dei poteri
sociali, operazione tesa a sottrarli alla critica sociale?
Le nostre
Chiese, nelle loro attuali configurazioni, non sono scese dal Cielo bell’e
fatte, ma sono il frutto di faticose e travagliate costruzioni sociali e,
qualunque cosa pensiamo in merito, continueranno senz’altro ad esserlo: questo
non esclude che noi riconosciamo loro la santità, nel senso sopra precisato, in
quanto volute dal Cielo per il nostro bene e in ciò che in
loro è ed è fatto in modo conforme al vangelo.
E, appunto,
penso quindi che si debba rendere grazie al Cielo se le nostre Chiese ai tempi
nostri sono tanto diverse da quello che storicamente furono in passato nel male
che manifestarono e che oggi siamo liberi (finalmente) di ammettere, seguendo,
in particolare, la via aperta ai cattolici da san Wojtyla, il Papa della mia
gioventù, che a noi giovani di allora piacque tanto perché ci esortava a non
avere paura di vivere da cristiani.
3.28.Catecumenato,
catechesi e formazione permanente.
Uno degli sviluppi più
infelici della fase attuativa dei principi deliberati durante il Concilio
Vaticano 2º è stato quello che ha riguardato la formazione
permanente alla fede della gente, in particolare dei laici, in genere
confusa, per quanto riguarda questi ultimi, con catecumenato e catechesi e
vista come troppo legata a una pressione psicologica comunitaria e
molto meno alla decisione in coscienza e al dialogo sociale. Questo è
sostanzialmente dipeso dalla storica e persistente diffidenza di clero e
religiosi verso la libertà delle scelte personali, per lo più
declinata come libero arbitrio, con una connotazione negativa.
Il catecumenato, antica
istituzione che l’ultimo concilio ha inteso riprendere e ravvivare,
è l’attività di iniziazione alla fede delle persone che chiedono il battesimo e
quindi è arbitrario (e umiliante per chi ne è oggetto) intendere come tale la
catechesi e la formazione permanente di chi ha già ricevuto il sacramento.
La catechesi è l’istruzione religiosa su principi, liturgia,
etica personale e comunitaria: serve a rendere capaci di partecipare
consapevolmente alle liturgie e alla vita comunitaria tra i cristiani.
Catecumenato e catechesi sono affidati a persone incaricate dal
vescovo o dai sui collaboratori, dopo una specifica formazione (che non sempre,
però, si ha tempo e modo di fare, con la conseguenza di insegnamenti a volte
discutibili, se non francamente bizzarri). La formazione permanente è
quella che si consegue interagendo da cristiani nelle società in cui si è
immersi, non solo nella Chiesa, e significa esserne parti attive; essa
comprende l’apostolato e, in particolare, l’apostolato dei laici, ma
soprattutto quell’azione che consiste nell’ordinarle secondo Dio, secondo
l’espressione usata nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce
per le genti – Lumen gentium, del Concilio Vaficano 2º. La formazione
permanente compete ad ogni cristiano, senza necessità di un mandato
gerarchico: essa è prima di tutto autoformazione, personale e
comunitaria, che si attua nelle relazioni sociali, poi anche acquisizione
culturale, perché altrimenti è povera, ma soprattutto tirocinio, personale e
comunitario, perché si impara ciò che si osa sperimentare e si impara anche da
quelli che, con il senno del poi, vengono riconosciuti come errori o,
addirittura, colpe. La formazione permanente non deve ridursi ad una
acculturazione teologica, perché la teologia, qualsiasi teologia,
non è sufficiente per quello che necessita per raggiungere i suoi scopi, quindi
occorre acculturarsi anche ad altre competenze, deve essere capace e innanzi
tutto disposta a imparare dalle competenze altrui, e non deve risolversi
nel ripetere lezioncine catechetiche, o addirittura proporsi
di inscenare un qualche passato storico o di cristallizzare la
situazione in cui si vive. Il passato, anche quello piuttosto mitizzato delle
origini, è pieno di incubi da non risvegliare. È chiaro che si è molto al di là
della semplice istruzione. Nel campo della formazione permanente,
che anche costruisce, modella, forma, le società di
riferimento, i laici possono anche validamente sostenere le attività che
vengono ritenute proprie della gerarchia, comunque si voglia
intendere questa espressione, obiettivo che si consegue anche contenendone le
pretese autocratiche ed autoreferenziali e facendone risaltare invece le
connotazioni ministeriali, quindi di servizio e funzionali.
3.29.
Lavoro nella base.
L’ultima volta che, a
Bologna, incontrai don Lorenzo Bedeschi, amico di famiglia e storico del
cristianesimo, mi congedò intimandomi con l’indice alzato “Mario, combatti
il clericalismo!”. Mia zia Francesca colse quell’attimo e ci fece una
fotografia che ho incorniciato e appeso in casa. Si era nel 2002 e ancora non
avevo molto approfondito il tema, ma dall’enfasi con cui ne aveva
trattato don Bedeschi avevo capito che era molto importante. In effetti gran
parte dei problemi degli italiani con la nostra fede sta appunto nel loro
inveterato clericalismo, del resto indotto consapevolmente nella scarsa
formazione religiosa che in genere si dá loro. Così la principale virtù sembra
essere quella di obbedire alla cosiddetta gerarchia e
la principale colpa, imperdonabile, quella di mostrarsene in un certo grado
autonomi: questo appunto è clericalismo.
In Italia
anche una parte delle persone che si definiscono non credenti, in
prevalenza uomini, mostrano un certo clericalismo. E subito
iniziano a pontificare, aggiungendosi alla sterminata schiera di padri che
pretendono di insegnarci la vita cristiana. Sono anche piuttosto pretenziosi:
fanno le mostre di aver per capito tutto. Del resto gli psicologi cognitivi ci
avvertono: per come funziona la mente umana, meno si sa è più si è convinti di
sapere. Ecco che quindi che, ad esempio, ci spiegano con sufficienza che
il cristianesimo non è opera di Gesù di Nazaret ma di Paolo di
Tarso, e, dal punto di vista storico, nessuna delle due affermazioni è
attendibile. In particolare, perché, benché gli scritti attribuiti a Paolo di
Tarso circolassero prima dei Vangeli canonici, il paolinismo ci
mise del tempo per affermarsi, e, quando avvenne, Paolo, era già morto. I
cristianesimi furono storicamente manifestazioni pluralistiche di
stuoli di cristiani, non di questo o quello scrittore, capo carismatico, o
vescovo o anche papa. Vivendo da cristiana, ogni persona, anche
oggi, vi contribuisce. Ma questo sfugge ai clericali, credenti e
non. In definitiva, anche per quelli che vengono definiti sarcasticamente atei
devoti, la Chiesa si riduce sostanzialmente a clero e religiosi, ma loro ci
si mettono in mezzo come delle specie di vescovi, o addirittura papi, di
complemento, aggravando il problema.
Nell’opera Le
cinque piaghe della Santa Chiesa, del 1848, don Antonio
Rosmini, beato dal 2007, quel libro essendo messo nell’Indice dei libri
proibiti (ai fedeli) nel 1849, ed essendo il suo pensiero condannato
nel 1888 dal cosiddetto Sant’Uffizio e riabilitato dal papa
Giovanni 23º e dai suoi successori, stigmatizzò come piaga la divisione
del popolo dal clero
[Testo integrale su
wikisource:
In
realtà, più che di divisione, si è trattato di annullamento del
popolo, che, si osservò ai tempi del Concilio Vaticano 2º, veniva considerato
come un qualcosa di appiccicato dall’esterno al clero,
considerato, esso solo, la Chiesa. Elemento in
tanto tollerato, in quanto sottomesso al
clero. Anche l’istituzione dell’Azione Cattolica italiana, avvenuta
nel 1906, sulla base dell’enciclica Il fermo proposito del
papa Pio 10º dell’anno precedente, rispondeva a quel criterio. Ancora nel 1951,
il Papa Pio 12º, parlando al Primo Congresso Mondiale sull’apostolato dei laici
disse che l’Azione Cattolica “è uno strumento nelle mani della gerarchia,
deve essere il prolungamento del suo braccio, è, per questo fatto, sottomessa
per natura alla direzione del superiore ecclesiastico”. Chiarì il suo
pensiero dichiarando:
“La gerarchia,
istituita divinamente, possiede in se stessa ed espressamente, anche senza la
cooperazione dei laici, la missione e la potestà, di cui essa potrebbe fare uso
efficacemente nell’apostolato che le appartiene, mentre i laici da se stessi,
vale a dire indipendentemente dalla gerarchia, e formalmente non posseggono la
potestà di esercitare un apostolato legittimo ed efficace.” Osserva
Peter Neuner, in Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana
2016, pag.92: “In questa concezione il laico non ha
un’esistenza autonoma e definita nella chiesa. Il laico si può
comprendere solo a partire dalla gerarchia e deve essere definito in
riferimento ad essa: egli è semplicemente il non-chierico”.
Ora, i
deliberati del Concilio Vaticano 2º hanno mutato profondamente i presupposti
dogmatici di quel modo di pensare, che tuttavia di fatto si è perpetuato nella
prassi, essenzialmente per gravi carenze formative dei laici, intese sia come
insufficienze di istruzione, sia come impedimenti a costruzioni sociali
conformi alle nuove concezioni. La situazione si è aggravata per le
interpretazioni riduttive degli aggiornamenti deliberati
nell’ultimo concilio che sono venuti dalla gerarchia.
Come ho
scritto in precedenza, non credo che la situazione cambierà per interventi
dall’alto, dalla gerarchia, che appare tuttora restia a
condividere realmente le decisioni sui principi che riguardano l’azione sociale
e politica, quelli che riguardano l’ordinare la società, che
dovrebbe essere il campo privilegiarono dei laici, né tanto meno a fare spazio
ai laici nella gestione delle strutture ecclesiastiche, manifestando di essere
disposta al più a servirsene come consulenti, ma solo se si
dimostrano docili.
D’altra
parte, qualcosa bisogna pur tentare di fare, perché, o scrive lo
storico Riccardi nel suo ultimo interessante libro, la Chiesa brucia, nel
senso che si sta annientando per consunzione, un po’ come è accaduto alla
cattedrale di Notre-Dame in Parigi nel 2019. La strada è più aperta in
periferia, alla base, lontano dai centri del potere ecclesiastico, lì dove non
si è intralciati dagli affanni dell’amministrazione di un imponente patrimonio
immobiliare e finanziario e dalle ambizioni della carriera ecclesiastica, lì
dove, benché sostanzialmente caduti in desuetudine nel lungo inverno
ecclesiale vissuto in Italia, sono formalmente aperti spazi di partecipazione
popolare, e, in particolare nelle parrocchie. Lì e anche privilegiato d’impegno
della nostra Azione Cattolica che è agevolata dall’aver conquistato una
struttura realmente democratica, senza essere afflitta dall’emergere di
oppressive strutture para-clericali che si nota in
alcuni movimenti laicali piuttosto bellicose e rumorosi (in
ciò attualizzando poco virtuose tradizioni ecclesiali che
risalgono addirittura alle origini).
3.30.
Al lavoro!
A metà ottobre 2021, il nostro gruppo
parrocchiale di AC riprenderà le attività e speriamo di poterlo fare in
parrocchia. Comunque attiveremo anche il collegamento in videoconferenza Meet,
per consentire una più ampia partecipazione. Le prove di questo modo di
riunirci, in presenza e da remoto, che abbiamo fatto nell’ultima riunione prima
della sospensione estiva è andata bene.
Nello stesso
mese di ottobre in cui inizieremo a incontrarci di nuovo inizierà il Sinodo
della Chiesa cattolica italiana. Ad agosto ho cercato di sviluppare alcune
riflessioni sul metodo sinodale nella concreta vita
ecclesiale, sulla base di letture che andavo facendo.
Credo che,
come gruppo di Azione Cattolica, dovremmo sentirci impegnati a suscitare in
parrocchia un movimento per coinvolgere quante più persone possibile in
questo processo sinodale. Lo si vorrebbe appunto, tale,
un processo, non solo una sessione di incontri tra gerarchi
ecclesiali e loro invitati o consiglieri.
Perché si
approdi a qualcosa, occorrerà agire con spirito pratico, cercando di fare poco
ricorso all’ecclesialese. Benché si dica che la sinodalità è in qualche
modo collegata anche al soprannaturale, e in particolare possa essere come un
riflesso della vita divina trinitaria, si tratta comunque di costruire un modo
di vivere insieme, una società, che si differenzia abbastanza da ciò che c’è
ora, in cui, in particolare, i laici sono umiliati in una posizione piuttosto
passiva, che talvolta può essere espressione anche di una certa loro pigrizia e
di un qualche ritegno a impegnarsi in modo più serio.
Non possiamo
pensare di poter riuscire a calare il Cielo in una società umana concreta e le
relazioni reali tra le persone, non quelle meramente immaginate, non possono
corrispondere a quelle tra le Persone della Trinità, e non sarà mai possibile,
qui sulla Terra, ottenere un obiettivo simile.
Alla base
dell’intesa dal quale può originare un effettivo processo sinodale sta la
capacità di dialogo e, ancor prima, la decisione di provare a
stare insieme. Di solito si evidenzia la radice semantica della parola sinodo nell’andare
insieme, ma storicamente la si è intesa anche, nella vita delle Chiese
antiche, prima di tutto come uno stare insieme. Si decide di
stare insieme prima ancora di aver verificato se
realmente ce ne sono le condizioni. Questo chiarisce le relazioni tra sinodalità e democraticità,
che conservatori e reazionari propongono come alternative: in realtà non lo
sono. Prima viene al sinodalità, come decisione di
stare insieme, e poi la democraticità come modo
di stare insieme rispettandosi e anche di decidere
insieme sviluppando argomentazioni ragionevoli. Una sinodalità non
democratica è certamente possibile e si ha quando si decide di
sottostare volontariamente ad una oligarchia autocratica, ma
essa è umiliante per chi sta sotto e silenzia la propria voce. Nella storia
delle nostre Chiese, fino ad epoche recenti, la sinodalità era espressione di
compromessi precari, basati sulle relazioni di forza del momento, e ha prevalso
la pura e semplice autocrazia, lo spirito gerarchico, che è stato
piuttosto sacralizzato con argomenti che non cessano di essere discussi. La
cosiddetta Gerarchia è sopravvissuta alle riforme deliberate
durante il Concilio Vaticano 2°. Non si tratta di un principio, ma di persone,
Papa, vescovi, preti, che pretendono di sovrastare il resto del popolo
come autocrazia sacrale. La sinodalità è
spesso presentata, ma anche vissuta, come un correttivo a questa forma di
esercizio del potere che, in particolare nell’Europa di oggi, è ritenuta in
genere obsoleta e particolarmente umiliante per le persone laiche, in
particolare dove si pretenda di vincolarvi le decisioni in materia di
organizzazione sociale e di politica, il cui significato religioso venne
riconosciuto espressamente a partire dagli scorsi anni ’30 e che, secondo i
deliberati del Concilio Vaticano 2°, dovrebbero essere il campo proprio
dell’azione laicale.
Da dove
iniziare, però?
Direi
dal creare un’organizzazione parrocchiale espressamente dedicata a un processo
sinodale, con l’obiettivo di coinvolgere gradualmente almeno le circa mille
persone che, stando alle statistiche correnti sulla pratica religiosa
in Italia, ancora vanno regolarmente in Chiesa, per arrivare
finalmente alla celebrazione di un’Assemblea parrocchiale e alla
elezione di membri del Consiglio pastorale parrocchiale che
affianchino quelli che vi fanno parte di diritto e quelli nominati dal parroco.
Costruire questa organizzazione può farsi rientrare nella competenza
dell’attuale Consiglio pastorale parrocchiale, e così è stato appunto fatto
nelle parrocchie che negli anni scorsi hanno celebrato sinodi
parrocchiali.
Del
Consiglio pastorale parrocchiale si sa poco. Non viene data alcuna informazione
sulle sue attività e decisioni. Non mi pare che ne siano stati indicati
pubblicamente i componenti. Le sue competenze sono state in qualche modo
sovrastate dalla nuova equipe pastorale, struttura richiesta dalla
Diocesi ma discutibile in quanto porti alla lenta obsolescenza del Consiglio
pastorale parrocchiale, unica vera incipiente forma di timida democraticità
prevista per la parrocchia.
Nella
stagione sinodale è bene che il nostro gruppo sappia rivolgersi anche al di
fuori della cerchia dei propri iscritti. Chi volesse essere informato tramite
mailing list sulle prossime attività e ricevere via email la nostra Lettera
ai soci e i link per la partecipazione in videoconferenza alle
nostre riunioni, può chiederlo mandando una email a mario.ardigo@acsanclemente.net
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4.Sinodo totale
Una Chiesa
sinodale è quella partecipata da tutti. Si basa sul
riconoscimento della pari dignità dei suoi membri. Non si tratta solo di una
Chiesa nella quale i capi del suo clero cercano di esaminare le questioni e di
decidere insieme. La sua sinodalità diffusa, totale, comporta
l’accettazione del suo pluralismo, vale a dire dell’esistenza di diversi modi
di vivere da cristiani. Questo non è scontato, tenendo conto della nostra
storia.
Che compito può svolgere su questo tema la nostra Azione
Cattolica?
L’Azione
Cattolica fu fondata nel 1906 al tempo di quella che Fulvio De Giorgi, nel suo
libro Quale Sinodo per la Chiesa italiana. Dieci proposte, Morcelliana
2021, chiama Chiesa totalitaria. Si era in tempi bui,
quelli della durissima persecuzione contro il cosiddetto modernismo e
della contrapposizione frontale con il liberalismo democratico e il socialismo.
L’Azione Cattolica fu concepita per influire in società, nell’economia e in
politica come corpo unitario e totalizzante, con le sue varie articolazioni
professionali e per età e sesso, i suoi rami, in particolare per
sostenere le rivendicazioni politiche del Papato, che in Italia aveva in corso
una forte polemica con il nuovo Regno unitario, detta Questione
romana, perché originata nel 1870 dalla soppressione violenta,
per conquista militare, dello Stato Pontificio con capitale Roma. L’Azione
Cattolica era, ed è ancora, una istituzione della Chiesa, la principale
istituzione della Chiesa per la partecipazione delle persone laiche
all’apostolato e, anzi, da esse stesse animata. Infatti ha natura associativa. Rimanevano
per le persone laiche varie altre organizzazioni di spiritualità e
devozione, Terz’ordini e Confraternite ma
con obiettivi limitati, centrati sul perfezionamento interiore, su atti
devozionali e sulla carità.
La caratteristica
principale dell’Azione Cattolica dalla fondazione alla riforma attuata negli
anni ’60, durante la presidenza di Vittorio Bachelet, fu di essere il braccio
della gerarchia. Essa non aveva una propria connotazione di spiritualità,
né un orientamento politico definito autonomamente. Si dedicava alla formazione
delle masse per l’azione sociale, nel senso indicato dalla
gerarchia. La sua fondazione origina dalla reazione del Papato contro i moti
democratici che si erano manifestati nella precedente organizzazione di massa
dei cattolici italiani, l’Opera dei Congressi, a cavallo tra
Ottocento e Novecento. Durante il fascismo italiano l’Azione Cattolica
nazionale in gran parte si fascistizzò, nonostante gli iniziali screzi poco
dopo la conclusione dei Patti Lateranensi, nel 1929, con i quali
la Questione Romana venne chiusa. Del resto, nel 1931,
con l’enciclica Il Quarantennale [dalla prima
enciclica sociale, la Le Novità – Rerum Novarum] - Quadragesimo
anno, il papa Pio 11° le aveva ordinato di collaborare alle riforme
corporative del fascismo mussoliniano. L’azione sociale e politica era una
forma di carità, disse quel Papa parlando agli
universitari della FUCI – Federazione universitaria cattolica italiana, uno dei
rami intellettuali dell’Azione Cattolica. Tuttavia,
sempre negli anni ’30, per impulso della Segreteria di Stato Vaticana, l’Azione
Cattolica formò alla democrazia un ceto di laureati, un altro suo ramo
intellettuale, i Laureati Cattolici (che ora è
un’organizzazione autonoma, il MEIC – Movimento ecclesiale di impegno
culturale), al quale poi, regnante il papa Pio 12°, fu ordinato di
progettare una nuova democrazia post-fascista, cosa che fu fatta.
Il Concilio
Vaticano 2° (1962-1965) deliberò una importante riforma dogmatica riguardante
il ruolo delle persone laiche. Esse non vennero più considerate legittimate
all’apostolato per delega dalla
gerarchia, ma in virtù della loro personale e diretta relazione con Cristo.
Questo comportò la riforma dell’Azione Cattolica, espressa nel suo nuovo
statuto del 1969. Il rapporto con la gerarchia venne definito di diretta
collaborazione
L'Azione
Cattolica Italiana è una Associazione di laici che si
impegnano liberamente, in forma comunitaria ed organica ed in diretta
collaborazione con la Gerarchia, per la realizzazione del fine
generale apostolico della Chiesa.
Il legame con la
gerarchia rimase forte e caratterizzante, ma basato sui presupposti deliberati
dall’ultimo Concilio.
Dagli anni
’70, sui medesimi presupposti dogmatici, sorsero altre organizzazioni
partecipative, composte da laici, clero e religiosi, che
ebbero poi il riconoscimento dell’ecclesialità, nessuna però con quel
particolare legame con la gerarchia che aveva l’Azione Cattolica,
organizzazione specificamente laicale. Alcune delle nuove aggregazioni si
posero esplicitamente in polemica con i principi conciliari in materia di ruolo
e azione della Chiesa nel mondo e di ruolo delle persone laiche e
divennero protagoniste dei moti reazionari contro l’attuazione della riforma
deliberata dal Concilio Vaticano 2°, cercando anche di influire sulla gerarchia
e sull’elezione del Papa formando un proprio clero e anche un proprio
episcopato. Esse attaccarono duramente l’Azione Cattolica, in particolare dagli
anni ’80, durante il regno del papa Giovanni Paolo 2°. Contemporaneamente,
quello che De Giorgi ha definito un lungo inverno calò sulla
Chiesa italiana bloccandone l’effervescenza sociale che si era manifestata nel
decennio precedente. Questo clima si manifestò progressivamente ma con sempre
maggiore evidenza anche nella nostra parrocchia, per la quale dal 1983 iniziò
una nuova stagione, con molti cambiamenti. Come testimoniato dai ricordi
raccolti da Bruno Bonomo nel libro Il quartiere delle Valli – Costruire
Roma nel secondo dopoguerra, Franco Angeli, 2007, negli anni ’80
l’Azione Cattolica parrocchiale aveva ancora numerosi aderenti, in particolare
molti giovani. Questo è anche il mio ricordo personale. Tuttavia non la si
ritenne più un percorso formativo valido, in particolare per i ragazzi, e così
fu interrotta la sua continuità generazionale. Progressivamente la si mantenne
sostanzialmente come esperienza in via di esaurimento, mentre ai
giovani vennero proposte altre vie. Per il suo particolare legame
con la gerarchia, l’Azione Cattolica non può sopravvivere in sede locale se non
collaborando con il clero. Questo nuovo orientamento creò anche dei problemi
evidenti con la gente del quartiere, sui quali ho scritto molto negli anni
passati e potete quindi capire di che si è trattato cliccando sui
relativi post. Dall’autunno del 2015 si è tentato di porvi
rimedio, con visibili risultati. In particolare si è cercato di ripristinare un
certo pluralismo formativo. L’Azione Cattolica parrocchiale è
comunque sopravvissuta e il titolo di questo blog “AC
VIVE A ROMA VALLI” ne è una orgogliosa rivendicazione. Ma si trova
ancora in una condizione per così dire embrionale. E’,
tuttavia, un seme piantato nel quartiere, un piccolo seme, ma si sa la
considerazione per i piccoli semi che troviamo nei
Vangeli.
Dagli anni
’60 il principale scopo dell’Azione Cattolica è l’attuazione delle riforme
deliberate nel Concilio Vaticano 2°, che riguardano la Chiesa e l’intera
società. L’orientamento principale è dato dalle Costituzioni Luce per
le genti – Lumen Gentium e La gioia e la
speranza – Gaudium et spes e dal Decreto sull’apostolato dei
laici L’apostolato – Apostolicam actuositatem del Concilio
Vaticano 2°. L’attuazione della sinodalità
totale ne è espressione. Da qui il grandissimo impegno che in
Azione Cattolica, anche in parrocchia, vogliamo spendervi.
Il
principale problema della nostra parrocchia, sulla via della sinodalità, è di
essere divenuta progressivamente una sorta di condominio di
vari gruppi, con prevalenza di uno di essi, derivata dal vecchio corso. Si è in
parrocchia partecipando a quei gruppi. Al di fuori dei gruppi non ci si conosce
e si diffida. Nel percorso sinodale l’Azione Cattolica parrocchiale però non ha
una propria individualità da preservare. Essa è semplicemente Chiesa.
Così accetta pienamente il pluralismo sociale ed ecclesiale, che è uno delle
più importanti acquisizioni conciliari, e non si presenta come esclusiva,
per cui, ad esempio, facendone parte non si possa partecipare ad altre
esperienze o aggregazioni. Entrando in Azione Cattolica non si è
obbligati a rinunciare a nulla di come si è cristiani, non si è obbligati a
perdere nulla, ad amputarsi nulla, come se al di fuori dell’Azione Cattolica ci
fosse qualcosa di scandaloso, o imperfetto, da cui emendarsi aderendo. Si
è accettati e apprezzati come i cristiani che si è. Non si è costretti ad
alcuna particolare iniziazione né ad alcuna particolare progressione per
livelli di perfezione. L’adesione e la partecipazione sono libere. Per
questo ci si avvale del metodo democratico. L’esperienza in Azione Cattolica è
infatti definita come popolare e democratica. Così,
partecipando al processo sinodale in una realtà di base come la parrocchia,
l’Azione Cattolica si fa evangelicamente lievito, e non è più
distinguibile come tale.
Bisogna infatti
aver chiaro questo: non vi è vero processo sinodale dove si rimane confinati
nel proprio gruppo di prevalente riferimento e alla sua disciplina, se non si
partecipa liberamente.
Se si
accetta pienamente il pluralismo ecclesiale, bisogna accettare come
gli altri vivono da cristiani e anche che vi siano coloro
che contrastano i moti di riforma del Concilio. Dobbiamo imparare la dura
lezione della storia dei cristiani, che è stata caratterizzata nella sua gran
parte e fino ad epoca molto recente da violenza, intolleranza, discriminazione,
totalitarismo, oppressione delle coscienze. Però non sono accettabili
prevaricazioni. Se le organizzazioni che finora hanno dominato in parrocchia, e
certamente l’Azione Cattolica parrocchiale non è fra queste, non accettano di
far partecipare i propri aderenti al processo sinodale in condizione di libertà
di coscienza, non vi sarà reale processo sinodale.
Poiché però
il Papa e i vescovi hanno convocato la Chiesa di Dio
in Sinodo, come si legge nel sito del Sinodo 2021-2023, l’Azione
Cattolica deve premere, e anche lottare dove occorra, perché Sinodo sia,
e quindi, in particolare, perché sia creata anche nella nostra realtà di base,
la parrocchia, una organizzazione che consenta realmente quella
Chiesa sinodale, partecipata liberamente, che si vuole indurre.
Dobbiamo insistere perché ogni aggregazione lasci liberi i
propri aderenti di parteciparvi, senza condizionamenti.
In passato
troppe decisioni importanti sono state prese senza la minima consultazione con
i fedeli, umiliandoli in una condizione dolorosa, come se non fossero degni del
loro nome di cristiani, come se la loro vita da cristiani non contasse nulla
senza sottoporsi alle forche caudine di un qualche vaglio speciale di
spiritualità.
Processo sinodale non
può significare lasciare tutto come prima e continuare a
vivere sostanzialmente come separati in casa.
In un certo
senso, la sinodalità che si vuole realizzare significa
anche ricostruire una Chiesa locale, fatta di
gente che si conosce e si stima, laddove essa era diventata più che
altro una chiesa intesa come spazio dove la gente è
stipata, divisa per appartenenze settoriali, secondo una turnazione
condominiale, oggi noi, domani voi.
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5. Le dieci domande che ci vengono rivolte dai
vescovi nel Cammino sinodale
della Chiesa universale
Nel Documento
preparatorio per il Sinodo generale, che è stato diffuso lo scorso
settembre, veniamo invitati a confrontarci sinodalmente su alcuni temi,
introdotti da alcuni interrogativi. Quello fondamentale è così formulato:
Una
Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina insieme”: come questo
“camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa particolare? Quali
passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel nostro “camminare
insieme”?
Siamo invitati a:
a) chiederci
quali esperienze della nostra Chiesa particolare l’interrogativo fondamentale
richiama alla vostra mente;
b) rileggere
più in profondità queste esperienze: quali gioie hanno provocato? Quali
difficoltà e ostacoli hanno incontrato? Quali ferite hanno fatto emergere?
Quali intuizioni hanno suscitato?
c) cogliere
i frutti da condividere: dove in queste esperienze risuona la voce dello
Spirito? Che cosa ci sta chiedendo? Quali sono i punti da confermare, le
prospettive di cambiamento, i passi da compiere? Dove registriamo un consenso?
Quali cammini si aprono per la nostra Chiesa particolare?
Da qui poi
discendono alcuni dieci nuclei tematici, introdotti da delle domande.
Non dovremmo rispondere con ciò che ciascuno pensa in merito, ma discuterne
per produrre una riflessione collettiva
e condivisa, quindi sinodale. In parrocchia lo si dovrebbe
fare anzitutto nel Consiglio pastorale parrocchiale, che però ha una
rappresentatività limitata. Oltre ai preti, ci sono infatti solo i capi o i
presidenti (a seconda del carattere autoritario o democratico della loro
organizzazione) dei gruppi laicali che abitano la parrocchia, che comprendono
solo una piccola parte delle circa 15.000 persone del quartiere che alla
parrocchia fanno riferimento per la loro vita religiosa, ma anche una porzione
minoritaria dei circa 1.000 praticanti. Quindi occorrerebbe incontrarci nel
quadro di una nuova organizzazione sinodale
che idealmente comprenda tutti, anche se ci si dovrebbe dividere in varie sezioni,
anzitutto per età, ma anche per condizione e interessi di vita, perché ci sia
un vero dialogo, possibile solo in gruppi limitati. Ci dovrebbe però essere una
certa circolarità tra queste sezioni in modo da non rimanere confinati
in esse e occasioni di incontri con molta più gente, delegati di base e altri
interessati. In caso contrario non si avrebbe un vero processo sinodale ma lo sbrigare un adempimento meramente
burocratico, come in genere si è fatto in passato.
Il nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica,
con la sua organizzazione democratica che consente a ciascuna persona di
esprimersi liberamente, con l’impegno anche ad ascoltare le altre persone e a
raggiungere una sintesi condivisa, è un ambiente ideale per svolgere quel
lavoro.
Per dare qualche idea, ho provato ad articolare
qualche riflessione su quei nuclei tematici di cui dicevo e ve le propongo di seguito. Non
ho sviluppato il discorso sui rapporti con altre religioni, perché non ne ho
esperienza diretta, e sul celebrare perché mi sento impreparato in
merito.
5.1 Compagni di viaggio
Nella
Chiesa e nella società siamo sulla stessa strada fianco a fianco. Nella vostra
Chiesa locale, chi sono coloro che “camminano insieme”? Quando diciamo “la
nostra Chiesa”, chi ne fa parte? Chi ci chiede di camminare insieme? Quali sono
i compagni di viaggio, anche al di fuori del perimetro ecclesiale? Quali
persone o gruppi sono lasciati ai margini, espressamente o di fatto?
Siamo
convocati in Sinodo. Siamo stati invitati a interrogarci su chi siano i
nostri compagni di viaggio come cristiani. Bisogna discuterne.
Questo discuterne è l’embrione di una Chiesa sinodale, che oggi non
c’è.
Gli
esseri umani si radunano per mangiare, gioire, progettare e costruire. Un
Sinodo è progetto e costruzione. Non ci si va come semplici spettatori o
comparse, altrimenti non si partecipa, si assiste.
Quando ci
chiediamo chi sono i nostri compagni di viaggio non vogliamo
limitarci a fotografare l’esistente ma immaginare un futuro in cui sia
importante averne.
Non si va in
chiesa come quando si entra in una stazione e, benché si possa
essere in molti vicini, si è sempre ciascuno per sé, in un’organizzazione che
somministra servizi. Perché?
Sono tanto
importanti le altre persone per il nostro essere cristiani? In fondo non si va
in chiesa per stare bene, ad esempio in pace con se stessi,
o per essere consolati per come va il mondo, per cui, ottenuto un
certo effetto psicologico di benessere, si possa essere soddisfatti?
Se potessimo
confrontarci, in una sede di discussione che ora non c’è, scopriremmo che in
merito abbiamo molte idee diverse. Questo dipende dal fatto che ciascuno è
confinato nella sua vita, ad esempio nella sua età, e il tempo trascorre
rapidamente di età in età, o nella sua condizione sociale, per cui si è
diventati qualcuno tra gli altri. Realmente ognuno
è cristiano a modo suo, nonostante che faccia riferimento a una cultura
comune. Eppure è proprio dell’essere umano stabilire relazioni con le altre
persone e questo fondamentalmente perché per sopravvivere non bastiamo a noi
stessi, specialmente poi in società molto complesse come quelle in cui viviamo.
E questo a cominciare dall’orientarsi: di solito guardiamo come fanno
gli altri per decidere. Anche il vangelo non l’abbiamo inventato da noi stessi,
ci è venuto da fuori.
Guardando
come viviamo oggi nella nostra parrocchia, mi pare che, in realtà, ogni persona
se ne stia sulle sue. Gli ambienti sociali sono molto limitati e quando ci
incontriamo non sappiamo bene che dire e che fare. Spesso del vangelo sappiamo
quello che ci hanno raccontato da piccoli e facciamo fatica ad intendere quello
che i preti dicono a messa. Del resto non vi sono veri momenti formativi per
approfondire sistematicamente. Per molte persone essere cristiani significa
principalmente pregare recitando formule tradizionali e ascoltare la
Messa. Per tanti è fare riferimento alla fede dell’infanzia. La vita che si fa
fuori della chiesa, come spazio liturgico, appare scollegata con quella che si
fa in chiesa, più dura, con principi diversi. E la maggior parte della gente
del quartiere appartiene a questa vita diversa. Ma anche tra di noi ci
sopportiamo a mala pena. Rimaniamo in genere con le poche decine di persone con
le quali ci siamo affiatati. Condividiamo i preti, che sono, in questo, il vero
elemento di unità della parrocchia. E, naturalmente, condividiamo degli spazi
in chiesa, intesa come edificio e arredi liturgici.
La teologia
scrive che si potrebbe essere qualcosa di più insieme, e anzi si dovrebbe. Ma
noi di queste cose non parliamo insieme. E, innanzi tutto, non parliamo mai
insieme, al più ascoltiamo. Ora che vorrebbero ascoltare noi, siamo
sorpresi. Lo vogliono veramente? Davvero contiamo qualcosa oltre ad
essere comparse sulle scene liturgiche? Ma non ci vengono le parole. Scopriamo
che per parlare non basta cercare in noi, ma dovremmo
cercare tra noi. Costruire una cultura dello stare
insieme, cominciare ad agire sinodalmente anche prima di aver
capito bene di che si tratta.
La proposta
pratica: impegniamoci una volta alla settimana a dialogare insieme, imparando
anche qualcosa e innanzi tutto a stare insieme. Il
Consiglio pastorale parrocchiale organizzi sistematicamente queste
occasioni di incontro.
5.2 Ascoltare
L’ascolto
è il primo passo, ma richiede di avere mente e cuore aperti, senza pregiudizi.
Verso chi la nostra Chiesa particolare è “in debito di ascolto”? Come vengono
ascoltati i Laici, in particolare giovani e donne? Come integriamo il
contributo di Consacrate e Consacrati? Che spazio ha la voce delle minoranze,
degli scartati e degli esclusi? Riusciamo a identificare pregiudizi e
stereotipi che ostacolano il nostro ascolto? Come ascoltiamo il contesto
sociale e culturale in cui viviamo?
Noi persone
laiche non siamo mai ascoltate. Quello che diciamo non conta nulla. Noi non
contiamo nulla. Dovunque ci è sbarrata la strada. Questa è la mia esperienza. Ci
siamo abituati. Lasciamo fare. Tutto sommato è anche più comodo. Fin da piccoli
siamo abituati così. Da grandi siamo trattati come se fossimo sempre piccoli.
Sono i
nostri vescovi che ci chiedono se veniamo ascoltati. Non lo sanno che nessuno
ci ascolta? O immaginano di vivere in un mondo diverso, immaginano di
ascoltarci?
Noi persone
laiche siamo scartate ed escluse, vittime di
pregiudizi e stereotipi, di un immaginifica tradizione teologica che vieta di
ascoltarci e ci riduce a semplice gregge.
Le Consacrate forse
stanno ancora peggio. I Consacrati no, se sono preti, perché allora sono
inquadrati in quelli che comandano per diritto divino, quelli che quindi hanno
anche il diritto di essere ascoltati da noi.
Questa è la
realtà.
La Chiesa
sta forse finendo? E’ possibile. Sopravviverà dove saprà cambiare. Le
istituzioni che abbiamo ricevuto dalla tradizione mi paiono invece condannate.
Non mi sembrano sono riformabili. A quasi sessant’anni dalla conclusione del
Concilio Vaticano 2°, che pose le base del cambiamento, si è sempre quasi agli
inizi. E in passato ci sono stati passi indietro.
La scelta di
indurre un processo sinodale, non solo di celebrare un
Sinodo di vescovi, è stata lungimirante. E’ stata preceduta da sperimentazioni,
scrivono gli esperti: il Sinodo dell’Amazzonia, quello sulla famiglia, quello
sui giovani. E’ il metodo giusto di procedere, per sperimentazioni.
Questa volta
non si tratta di fiancheggiare il Sinodo dei vescovi,
che si terrà nel 2023, ma di essere noi Sinodo, a partire da una
realtà di prossimità come la nostra parrocchia.
Si è
aperto uno spazio per noi, ma certamente non siamo stati preparati a questo.
Ogni strada ci era sbarrata. E ancora fatichiamo a farci largo nella teologia
di corte che ha cercato di dare una giustificazione razionale alla nostra
umiliazione.
Per quella
via si è perso molto del vangelo. Molte persone vi hanno perso dimestichezza,
da troppo tempo si sono allontanate. Questa è una grave situazione di
deprivazione. L’istituzione che ha resistito alla riforma ne è stata
l’artefice, non lo spirito dei tempi. Ora non sappiamo nemmeno più da dove
cominciare. Non osiamo nemmeno prendere l’iniziativa di occasioni di incontro
in parrocchia per discutere delle domande che i nostri vescovi ci fanno. Chi
risponderà? Chi ha risposto le altre volte? Quanti di voi hanno potuto parlare?
Ma, come è stato giustamente osservato, non basta aprire la bocca e tirar fuori
le cose che una persona ha in testa. Bisogna rispondere come comunità, quindi
dopo averne parlato. Non è qualcosa come un sondaggio. Sono domande che
vogliono suscitare una discussione. Discutere richiede di avvicinarsi e di
conoscersi. Di dare ordine al dibattito. Quel fare ordine per poter discutere sarebbe
già l’embrione del nuovo.
E’ bene
chiarirlo. Qui non c’è una maggioranza che esclude una
minoranza, ma una minoranza che silenzia una maggioranza.
Finora la gerarchia, che sostanzialmente come un tempo pensa di poter fare
Chiesa anche senza di noi, come si riteneva prima del Concilio
Vaticano 2°, non ha voluto veramente
ascoltarci, forse perché quello che veniva fuori da noi non la soddisfaceva.
Noi possiamo parlare solo leggendo la nostra parte sul foglietto preparato
da altri. Quando ci consultano, non sono obbligati a farlo, e possono fare
sempre come pare loro, anche contro il nostro parere. Quanti siamo, di persone
di fede a Roma? Centinaia di migliaia certamente, ma non contiamo quanto le
poche decine di persone che compongono la gerarchia locale. E non solo sulle
sofisticate questioni di teologia, ma su ogni altra cosa, anche, ad esempio,
sugli arredi delle chiese parrocchiali.
Criticano
chi apprezza certe aperture recenti dicendo che fa sociologia e
che vuole ridurci come un parlamento. Ma la sociologia,
a differenza della teologia, cerca di conoscere veramente le
società che studia e organizzarsi in parlamento non è un ridursi,
ma un elevarsi, in dignità, in libertà. Nel parlamento si ha voce.
Nella nostra Chiesa non viene mai il tempo, per noi persone laiche, di parlare
con franchezza. Se lo si fa, poi si viene emarginati. Non c’è più la violenza
brutale di un tempo, ma ce n’è una più subdola, che si ammanta di mitezza.
Non è così?
Non è più così?
Vorrei
veramente che non fosse più così. Allora il nostro Consiglio pastorale
parrocchiale potrebbe deliberare un programma per crescere nel
processo sinodale, per poterci incontrare sistematicamente, per potere imparare che
cosa è sinodalità. La sinodalità non è innata, appunto si impara. A
volte si tira fuori il sensus fidei di noi, Popolo di Dio, e
questo significa che noi avremmo una specie di intuito che ci porta verso
la verità. Io certamente non me lo sento dentro, e voi?
Storicamente ciò che si è voluto affermare come verità è costato molta
violenza, non c’è quasi mai stato quella specie di spontaneo convergere di
cui parla la teologia. E meno male che non sono un teologo, perché allora avrei
un bel problema a far quadrare i conti. Convergere pacificamente richiede
fatica e pazienza e il risultato non è mai assicurato, ma già
discutere in pace è, in fondo, un grosso risultato.
5.3 Prendere
la parola
Tutti
sono invitati a parlare con coraggio e parresia, cioè integrando libertà,
verità e carità. Come promuoviamo all’interno della comunità e dei suoi
organismi uno stile comunicativo libero e autentico, senza doppiezze e
opportunismi? E nei confronti della società di cui facciamo parte? Quando e
come riusciamo a dire quello che ci sta a cuore? Come funziona il rapporto con
il sistema dei media (non solo quelli cattolici)? Chi parla a nome della
comunità cristiana e come viene scelto?
Noi persone laiche
non abbiamo né diritto né libertà di parola nella nostra Chiesa e
questo è tutto sul punto. Questa nostra condizione è ben conosciuta dai vescovi
perché è opera loro, della gerarchia. Questa è la
verità su di noi.
Nella
società civile, in Italia, è molto diverso. Viviamo in una Repubblica
democratica e vi partecipiamo in vari modi e in varia misura, ma vi partecipiamo.
La Costituzione ci dà diritto di parola, all’art.21. Il sistema
dei media è libero e pluralistico e ce ne serviamo per
capire che accade e che fare, confrontando le varie voci che ne
emergono.
Ci si è serviti della teologia, il linguaggio
tipico del clero, per umiliarci e silenziarci. Questa è una tradizione antica,
dalla quale non ci si riesce a distanziarsi. Essa è stata
storicamente causa di tante sofferenze e violenze.
La
teologia riguardante la comunione e il Corpo di
Cristo è stata paradossalmente usata per toglierci ogni libertà, dove invece voleva
evocare un’unione benevola. Infatti si contrappongono comunione e concilio,
oggi diremo sinodalità. Ci si vuole imporre l’uniformità
dietro la gerarchia, come se fossimo un corpo solo, ma questo modo
di considerare la società è disumano. La stessa gerarchia, vista da vicino, si
mostra di fatto pluralistica, ma si ritiene sconveniente fare emergere questa
realtà, per cui si pratica la doppiezza e l’opportunismo, come gli stessi
nostri gerarchi lamentano.
Noi, in
genere, non siamo pratici di teologia, anche se sempre più laici, e molte
donne, decidono di studiarla. Ci si lamenta che non esista un percorso
formativo a loro dedicato, ma poi si fa poco per rimediarvi.
I nostri vescovi sembrano
attribuire valore quasi solo alla loro teologia e la presidiano con istituzioni
disciplinari, proprio perché è strumento di potere. Noi persone laiche
raramente riusciamo a parlare in modo accettabile di teologia e, anche quando
ci riusciamo, siamo accettati solo se ci facciamo ripetitori di quella
normativa. Con il Catechismo della Chiesa cattolica essa
ingabbia addirittura gli stessi teologi qualificati. Ma la teologia disegna in
genere un mondo immaginifico molto lontano dalla realtà come noi la viviamo e
in quel suo essere così ci è inutile. Mediante la teologia ci viene tolta la parola e si pretende di
ingabbiare la Chiesa negli schemi che vedono sempre prevalere la gerarchia, che
finora è apparsa incapace di vera autoriforma. Il diritto canonico è una tipica
espressione di questo modo di fare: è un diritto in cui ogni diritto cede al
cospetto dell’autocrate. Per nostra buona sorte noi persone laiche ne siamo
stati in gran parte affrancati ed esso è rimasto ad opprimere solo preti e
religiosi.
Quando noi persone
laiche riusciamo ad esprimere quello che abbiamo nel cuore, in genere veniamo
condannate come indisciplinate e presuntuose, se non addirittura cattive e
perfino criminali. Così ci capita spesso di essere diffamati dal
clero. In genere siamo poco apprezzati. Diffidano di noi. Si è insofferenti
delle nostre richieste di compartecipazione alle decisioni, fosse anche solo
per decidere di dove piazzare in chiesa la statua di un santo. Questa costante
umiliazione che viviamo genera disaffezione.
Usando la
teologia, i nostri vescovi riescono a dire cose tremende, dure, dolorose per
noi, come se fosse loro dovere dirle.
Così noi persone
laiche, in genere, rinunciamo a prendere la parola, salvo che si sia tra amici,
ad esempio in una associazione o movimento di quelli che non mimano
l’autocrazia clericale e, addirittura, spesso ne superano i tristi costumi.
D’altra parte la vita di chiesa ci serve, la messa ci serve, i sacramenti ci
servono, perché, fatta la tara di tutta questa presuntuosa autocrazia, la fede
religiosa è vitale. E, allora, perché guastarsi con il clero di prossimità,
esso stesso del resto vessato dall’alto? Quanto ai capi più in alto, chi li
vede mai? Passano ogni tanto a dirci le solite cose e allora facciamo loro
festa senza tanto pensarci su, non stiamo a guastarla dicendo loro di noi, di
come dolorosamente viviamo il rapporto con loro. Loro parlano anche a nostro
nome, ma certo non sempre secondo quello che noi sentiamo veramente.
Così, in genere, parlano per loro e per una Chiesa che non c’è. Sono gli unici
a poterlo fare, così vuole il diritto da loro creato. Intorno al loro potere si
sono costruiti una fortezza teologica e pensano, a volte
sinceramente penso, che quello sia l’unico modo per far sopravvivere la Chiesa
nel mondo di oggi. La realtà li smentisce. “La Chiesa brucia”, è il
titolo dell’ultimo libro di Andrea Riccardi, ed è così. Però si potrebbe anche
descrivere la sua situazione dicendo che si sta spegnendo. Anche
le donne, così duramente umiliate eppure così fedeli, hanno iniziato ad
allontanarsi: lo dicono i sondaggi statistici più recenti. Erano le ultime
irriducibili praticanti.
L’idea di
promuovere una stile comunicativo libero e autentico è
buona, se la gerarchia sarà disposta ad ascoltare, dopo aver aperto, fin dalle
comunità di prossimità come le parrocchie, degli spazi in cui si possa realmente parlare
e dialogare con le altre persone. Di solito ci chiude la bocca con la questione
della verità, della quale secondo le regole da essa sancite, è
arbitra assoluta. Si illude che la sua teologia possieda la verità.
Non sono un teologo e quindi non posso interloquire su questo. Constato che non
di rado le idee che la gerarchia ha sulle società del nostro tempo e su come
dovrebbero essere governate sono irrealistiche, fantasiose, e quindi
irrealizzabili, e se anche si riuscisse a conformarvi la realtà per noi sarebbe
un incubo. Quindi è una fortuna per noi che siano irrealizzabili. Il principale
problema nella verità della gerarchia è che
secondo essa non c’è spazio per alcuna vera libertà, dunque neanche
per quella di prendere la parola. Questo naturalmente conduce i nostri vescovi
ad adottare disinvoltamente, talvolta, prese di posizione
oltraggiose verso la democrazia, i suoi principi, i suoi metodi, del
resto secondo una tradizione che risale agli albori dei
movimenti democratici europei dell'era moderna.
5.4 Corresponsabili
nella missione
La
sinodalità è a servizio della missione della Chiesa, a cui tutti i suoi membri
sono chiamati a partecipare. Poiché siamo tutti discepoli missionari, in che
modo ogni Battezzato è convocato per essere protagonista della missione? Come
la comunità sostiene i propri membri impegnati in un servizio nella società
(impegno sociale e politico, nella ricerca scientifica e nell’insegnamento,
nella promozione della giustizia sociale, nella tutela dei diritti umani e
nella cura della Casa comune, ecc.)? Come li aiuta a vivere questi impegni in
una logica di missione? Come avviene il discernimento sulle scelte relative
alla missione e chi vi partecipa? Come sono state integrate e adattate le
diverse tradizioni in materia di stile sinodale che costituiscono il patrimonio
di molte Chiese, in particolare quelle orientali, in vista di una efficace
testimonianza cristiana? Come funziona la collaborazione nei territori dove
sono presenti Chiese sui iuris diverse?
Di solito,
quando alle persone laiche si parla di missione esse pensano
ai religiosi missionari mandati in terre lontane a parlare di
religione e a insegnarla alle persone che vi si interessano. Se però intendiamo
la missione anche come azione sociale, quindi
come un attivarsi per produrre modifiche sociali, allora è chiaro che questo
riguarda anche chi non si muove da dove vive di solito, e anche le persone
laiche. L’Azione Cattolica è stata costituita proprio per fare
quello. E la domanda che, a quel proposito, ci viene posta dai
nostri vescovi, nel processo sinodale che sta per iniziare, si muove
in quel quadro di idee:
«Come
la comunità sostiene i propri membri impegnati in un servizio nella società
(impegno sociale e politico, nella ricerca scientifica e nell’insegnamento,
nella promozione della giustizia sociale, nella tutela dei diritti umani e
nella cura della Casa comune, ecc.)?»
L’elenco
degli impegni sociali che leggiamo lì va considerato
esemplificativo. Lascia fuori i due principali campi di attività sociale delle
persone laiche: il lavoro e la famiglia, in
particolare nell’occuparsi della prole e degli anziani. Essi, che in quel passo
del Documento preparatorio rientrano nell'
"ecc.", spesso esauriscono quasi del tutto il tempo di una
persona. Il fatto che i vescovi non li abbiano menzionati espressamente è
indicativo del fatto che li ritengono in fondo semplice routine,
alla quale si debba affiancare altro.
Inoltre,
parlare di servizio nella società, riflette un po’ la mentalità del
clero e dei religiosi, i quali appunto, una volta assestati nel loro stato di
vita, si mettono alla ricerca di un servizio da svolgere. Le
persone laiche si trovano invece coinvolti nelle loro principali occupazioni,
appunto lavoro e famiglia, senza tanto
doverci pensare sopra: il primo è una necessità di sussistenza, la seconda di
natura e spesso la famiglia incide sul lavoro, su quale fare, sul
tempo che si pensa di dedicargli e anche sulle proprie ambizioni. E,
tuttavia, la persona laica che si presenta al suo prete di prossimità o, qualche
volta nella vita, addirittura al suo vescovo, si sente un po’ sempre in difetto
perché capisce che, per quegli altri, ciò che fa è semplice routine e
si aspettano sempre dell’altro in più.
Ecco che, allora,
si pensa che quelli che dell’altro riescono a fare, ad esempio
perché non sfiniti dal lavoro e dalla famiglia, i politici per
dirne una, debbano essere sostenuti dalla comunità. E la
comunità, chi la sostiene?
Il clero
adotta una mentalità clericale senza neanche rendersene
conto, senza voler far del male od offendere. Certo, una persona che scelga il
celibato o il nubilato, e quindi si cavi fuori dagli impegni di
famiglia, e tutto sommato un certo reddito ce l’ha di routine, per
così dire, senza dover fare un lavoro che sfinisce, allora, ecco, ha il
problema di fare anche dell’altro. E così, in genere, non si
riesce a mettere nei panni di una persona laica, che si trova in una situazione
molto diversa. Del resto è stato formato a pensare così.
Dagli anni
’30, per la gerarchia l’attività che una persona svolge in società è
considerata rientrare nel campo religioso: è una forma di carità,
si dice. L’affermazione risale ad un discorso che il papa Pio 11° tenne agli
studenti universitari della FUCI poco dopo il Concordato Lateranense e l’esortazione
al laicato italiano a collaborare alla riforma corporativa del fascismo
mussoliniano. L’affermazione della provvidenzialità del
capo del fascismo, ripetuta all’epoca anche da diversi vescovi,
raccontano gli storici, fu comunque un incidente storico dal quale il Papato si
emendò dopo qualche anno. In mezzo però ci fu la persecuzione degli
ebrei italiani e una feroce guerra coloniale nel Corno d’Africa, anche con
sterminio di monaci copti. Da allora, l’idea che l’impegno sociale avesse una
valenza religiosa fu mantenuta e, anzi, estesa.
Secondo i
principi del Concilio Vaticano 2° la Chiesa dovrebbe essere anche il luogo in
cui si ragiona su quegli impegni sociali che i fedeli svolgono, lavoro e
famiglia compresi. Di solito lo si fa, a fini di discernimento, in
associazioni e movimenti, ma non in strutture, come dire, generaliste,
ad esempio in parrocchia. Le Settimane sociali, la 49° inizierà a
breve a Taranto, servono proprio a questo. Stesso discorso per i Convegni
ecclesiali nazionali e i Congressi
eucaristici. Sono tutte occasioni, nazionali, ben lontane
dalle nostre realtà di prossimità, in cui ci si confronta sull’impegno sociale
ispirato dalla fede. Esse hanno in comune l’essere egemonizzate dalla
gerarchia, che ne predetermina il risultato. Dà un tema e indica come deve
andare a finire, con il cosiddetto Instrumentum Laboris (=documento
di base per la riflessione) o con un Documento preparatorio, e poi
invita a sua discrezione relatori, convegnisti o congressisti, e approva la
deliberazione finale. Il problema principale è che l’iniziativa non viene
veramente da chi si impegna in società, che, con quel metodo, viene più che
altro consultato. Così a volte si partecipa, più spesso si
assiste, ma mai si partecipa da protagonisti.
L’impegno
sociale è legato all’evangelizzazione: questo significa il riconoscergli
valore anche religioso. Per questo ciò che si fa in società assume anche il
connotato di una missione. Di ciò si acquisì più chiara
consapevolezza negli anni ’70 e il primo Convegno ecclesiale nazionale,
che si svolse a Roma nel 1976, ebbe il titolo Evangelizzazione e
promozione umana. Nell’ultimo, svoltosi a Firenze nel 2015, dal
titolo In Gesù Cristo il nuovo umanesimo, nella gerarchia si
manifestò l’idea di promuovere la sinodalità, perché per il
solo clero un nuovo umanesimo è un obiettivo un po’
troppo grosso. Siccome c’è bisogno di più forze, è rispuntata appunto la
sinodalità diffusa, non solo degli autocrati, che
significa coinvolgere anche le persone laiche. Negli anni precedenti però si
era puntato, lo ricordano gli storici della Chiesa, sull’evangelizzazione,
mettendo un po’ in second’ordine la promozione umana, vale a dire
noi persone laiche. Si trattò di una evangelizzazione in cui si faceva conto,
come agenti sociali, essenzialmente su preti e religiosi e sul cosiddetto para-clero,
le persone laiche che si facevano ausiliari nelle attività del clero. Si diceva
che la Chiesa evangelizza, non costruisce
società (come invece dovrebbe farsi per il nuovo umanesimo),
Così non occorreva granché la sinodalità totale, che ora si
vorrebbe invece indurre tra noi tutti. Questo poi ci portò alla problematica
situazione attuale, sulla quale si è scritto molto e bene e sulla quale non sto
quindi a ritornare, se non per dire che non è una bella situazione.
Dimenticando la sinodalità è poi crollata anche la pratica,
perché nell’Europa di oggi si è insofferenti del ruolo di semplice gregge nelle
mani altrui.
Una volta
che si sia accettata l’idea che lavoro e famiglia sono
impegno sociale e rientrano nella missione, sia come evangelizzazione che
come promozione umana, sarebbe opportuno che nelle parrocchie, le
realtà di prossimità che ancora legano più o meno tutti i fedeli, al di là
di cammini e spiritualità particolari,
si istituissero delle strutture sociali (nuove perché nulla del genere c’è) per
dar modo alle persone laiche di incontrarsi, dialogare e discernere su
quel loro attivismo in società. Ma non per sentirsi impartire un qualche catechismo:
invece proprio per ragionare sulla loro vita, sul suo significato religioso e
sulle sue prospettive, in un’ottica di fede, certo. In quei campi la formazione
è prima di tutto autoformazione, perché l’esperienza conta molto e,
ad esempio, preti e religiosi in genere non ce l’hanno. Questa è, dunque, la
proposta che faccio al nostro Consiglio pastorale parrocchiale, in
un’ottica di sinodalità totale: infatti, organizzare cose simili
rientra proprio nella cosiddetta pastorale. Questo
consentirebbe effettivamente, secondo l’auspicio dei vescovi, di sostenere
i fedeli impegnati al servizio della società e aiutarli
a vivere quegli impegni in una logica di missione. Quei fedeli siamo tutti noi!
Noi che siamo Chiesa emarginata, dimenticata, sottovalutata, spesso
disprezzata.
5.5 Dialogare nella
Chiesa e nella società
Il
dialogo è un cammino di perseveranza, che comprende anche silenzi e sofferenze,
ma capace di raccogliere l’esperienza delle persone e dei popoli. Quali sono i
luoghi e le modalità di dialogo all’interno della nostra Chiesa particolare?
Come vengono affrontate le divergenze di visione, i conflitti, le difficoltà?
Come promuoviamo la collaborazione con le Diocesi vicine, con e tra le comunità
religiose presenti sul territorio, con e tra associazioni e movimenti laicali,
ecc.? Quali esperienze di dialogo e di impegno condiviso portiamo avanti con
credenti di altre religioni e con chi non crede? Come la Chiesa dialoga e
impara da altre istanze della società: il mondo della politica, dell’economia,
della cultura, la società civile, i poveri..
Nell’antica
filosofia greca il dialogo era uno dei metodi per conoscere il
mondo e la società. La parola italiana ci viene appunto dal greco antico e
significa proprio quello: il discorrere per capire,
capire mediante il discorso. Presuppone almeno due
interlocutori che si riconoscano a vicenda la dignità di partecipare a quel
discorrere. Dialogando ci si forma una convinzione e, per i maestri che
scelgono quella via, l’insegnare è vissuto un po’ come l’aiutare a partorire,
per cui dai maestri greci veniva detto maieutica, che
faceva riferimento all’arte ostetrica. Gli si contrappone il metodo di imporre le
idee facendo leva sull’autorità e quindi sulla diversa dignità di chi insegna e
di è costretto ad imparare in un certo modo, senza alternative e senza poter
discutere.
Nella nostra
Chiesa il dialogo si può praticare solo nelle associazioni di fedeli che lo
ammettono, la più grande delle quali è la nostra Azione Cattolica,
con i suoi trecentomila aderenti di ogni età. I movimenti fondamentalisti e
integralisti non lo tollerano. Al di fuori dell’associazionismo non c’è alcuno
spazio per il dialogo, perché, statutariamente per così dire, la verità è
nelle mani del Papa e dei vescovi e deve essere semplicemente accettata per
obbedienza. Questo è molto umiliante, ma la gerarchia ritiene che sia
necessario, altrimenti la Chiesa si sfascerebbe.
Verità, per
la gerarchia, è tutto quello che riguarda la religione,
diciamo il campo del sacro, ad esempio i dogmi e molto altro. Non vi rientrano
le convinzioni e conoscenze desacralizzate, secolari,
profane, vale a dire quelle che, a sua discrezione, la gerarchia
lascia alla società. La loro area è molto variata nei secoli. L’astronomia, ad
esempio, non vi rientra più. Inutilmente Galileo Galilei, scienziato vissuto
tra il Cinquecento e il Seicento, tentò di dialogarvi sopra. Su di lui prevalse
la teologia normativa del suo tempo, ma, alla lunga, essa poi dovette
ritirarsi. Ecco, quello fu anche un esempio delle sofferenze che
nella nostra Chiesa possono affliggere chi vorrebbe dialogare. Per la gerarchia
sarebbero addirittura virtuose, tanto che poi a volte proclama santi quelli che
ha perseguitato e silenziato. In realtà, con il senno del poi naturalmente,
sono solo sofferenze inflitte stupidamente, che hanno fatto molto danno alla
stessa Chiesa. Un altro che soffrì in quel modo fu Lorenzo Milani. Anche la
politica storicamente fu sacralizzata e quindi incarcerata nella verità canonica:
questo costò la scomunica al primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele 2°, e a
Camillo Benso Cavour, il presidente del consiglio dei ministri che fu tra i
principali artefici della nostra unità nazionale, per aver posto fine allo
Stato Pontificio, nel 1870. Dopo circa un secolo, però, il papa Paolo 6°
definì provvidenziale quell’evento. Anche a don Romolo
Murri, tra gli ideatori di una democrazia cristiana, la
politica costò la scomunica. Essa si abbatté su Roberto Ardigò, che
era stato prete e addirittura si pensava che avesse buoni numeri per diventare
vescovo di Mantova, uno dei nostri maggiori filosofi, per aver
sostenuto l’autonomia delle scienze, principio che fu accolto durante il
Concilio Vaticano 2°. Non visse nel secolo giusto.
Il modo in
cui la gerarchia ecclesiale intende ed esercita la propria autorità ci
impedisce il dialogo. Questo perché a nessuno è riconosciuta pari dignità
rispetto agli autocrati. Essi ritengono di dover regnare per
diritto divino e vi hanno costruito sopra una teologia giustificativa. Dicono
però che anche noi, persone laiche, siamo in qualche modo “re”, ma
in realtà, al loro cospetto, siamo definiti sempre sudditi e
si pretende da noi docilità. Quando oggi si parla
di sinodalità come via di riforma della Chiesa si
mette in questione anche questo modo di governare. Ma non illudiamoci: la
riforma potrà venire solo dal basso, per via sperimentale, piano piano, in un
tempo lungo, e ci vorrà pazienza e perseveranza, perché nessun
autocrate fa spazio ad altri nel suo potere se non vi è costretto dalle
circostanze, ad esempio se intorno a lui la società è tanto cambiata
che le consuetudini del passato appaiono obsolete anche a lui. Però un certo
modo di regnare comincia a sembrare tale anche agli stessi gerarchi. Ci saranno
quindi ancora molte sofferenze per impossibilità di dialogo nella nostra
Chiesa. Nella biografia di una grande anima della nostra Chiesa come Giuseppe
Toniolo, che tanto fece per il nostro associazionismo, è narrato il suo vivo
dolore per le incomprensioni con il Papa del suo tempo: impariamo da lui la
perseveranza nel cercare il dialogo, non cedendo alla tentazione di rompere. La
Chiesa, se paragoniamo la nostra a quella del suo tempo è molto
cambiata. Certo non basta una vita sola per vedere la fine del processo.
Il
principale problema che abbiamo in materia di dialogo è che nella nostra Chiesa
si rifiutano i principi democratici, perché, si pensa, il potere in
materia di fede può essere solo autocratico e sacralizzato. Questo
ostacola anche i rapporti tra le varie componenti del laicato, così
come tra parrocchie e Diocesi. Non vi può essere vero dialogo nel popolo senza
democrazia. All’interno dell’autocrazia il dialogo in quel senso, ma con molti
limiti, è ammesso solo quando ci si riunisce tra vescovi. Il vescovo, invece,
nella sua Diocesi, nonostante i temperamenti introdotti dopo il Concilio Vaticano
2 verso i suoi sudditi tra clero, religiosi e persone laiche è
un monarca assoluto, l’unico legislatore, secondo l’espressione del codice
di diritto canonico, mentre egli stesso
è suddito di chi è sopra di lui e difficilmente può resistergli. Negli anni ’60
una grande anima come il cardinal Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, fu
vittima di questa condizione e fu spinto alle dimissioni per aver criticato,
nell’anno in cui fu celebrata per la prima volta la Giornata mondiale
della pace (!) i bombardamenti a tappeto statunitensi in Vietnam.
Sopra di lui c’era un’altra grande anima, Giovanni Battista Montini, Paolo 6°,
il Papa che l’anno precedente aveva istituito quella Giornata mondiale
della pace con un magistero ispirato: in quell’occasione egli fu, come
si dice, vittima delle circostanze ed evidentemente non vide altra soluzione
che chiedere la testa del suo confratello nell’episcopato.
Per
quell’impossibilità di un vero dialogo, mi pare che ora ogni parrocchia viva
come in un mondo a sé, anche se i rispettivi preti a volte si sentono, si
incontrano, se non altro nelle occasioni create in Diocesi. Le persone laiche
invece ci vivono come confinate e, per un’esperienza religiosa un
po’ più in grande, devono aderire ad un’associazione e movimento nazionali.
Questo poi le disamora alla vita parrocchiale. Per quelli che scelgono quella
via, la vita di fede è essenzialmente fuori della parrocchia, dove si va solo
per sentir messa o portare i bambini e ragazzi al
catechismo, fin quando non li si può più tenere e allora non si
vedono più. Col tempo, questo modo di fare ha finito per rendere alcune
parrocchie solo come strutture di supporto alle associazioni e movimenti che la
abitano, e questo è stato molto sensibile nella nostra parrocchia in anni
passati. Vi è cominciata ad affluire gente da fuori, non interessata alla
parrocchia, ma ad un movimento che l’abitava. Ciò ha finito per rendere un po’
estranea la parrocchia al quartiere. Così poi non ci portavano più bambini e
ragazzi per la formazione di base. Ad un certo punto, veramente molto
tardivamente, la Diocesi ha rilevato il problema e ha tentato di porvi rimedio,
mandando preti in supporto. Ma non è bastato, nonostante il valore di quel
clero, che si è fatto rapidamente apprezzare e a cui vogliamo bene. La Chiesa
non è fatta solo di preti. Rimane il fatto che, al di fuori di associazioni e
movimenti, non ci sono occasioni di dialogo per le persone laiche e
quindi la situazione non può essere veramente corretta. E non ci sono perché,
almeno finora, si pensava che non servissero veramente, e che, a parte
preghiere e sacramenti, e un po’ di attività caritativa, le persone laiche non
avessero veri motivi, dopo l’infanzia e la prima giovinezza, per frequentare la
parrocchia. Non certo per dialogare. Questo si riflette
sui metodi e contenuti della formazione per le persone laiche che appare
gravemente insufficiente. Il lavoro che esse devono fare in società non è
quello dei monaci, appunto perché prevalentemente orientato all’azione
sociale, e invece spesso si cerca di insegnar loro una spiritualità
monacale.
Nella
società civile le persone laiche vivono un’esperienza completamente diversa, in
cui hanno diritto di parola, partecipano, influiscono collettivamente in varie
maniere e misure, e comunque in qualche modo contano. Vi si pratica
la democrazia, anche se essa è sempre insidiata dalla prevaricazione violenta.
L’Azione Cattolica è stata storicamente una delle principali scuole di
democrazia per gli italiani: questo è stato in massima parte frutto del
pensiero e dell’azione delle persone laiche che l’hanno animata. Si sono
dimostrate capaci di non essere solo esecutrici ma di poter
ragionare anche sui principi e di poterli anche insegnare (anche ai gerarchi).
In questo vi è stato un vero e proprio magistero laicale. In questo l’Azione
Cattolica si è emancipata da esse solo un braccio della
gerarchia, secondo i suoi statuti delle origini, nel 1906. La nostra
Repubblica deve molto all’impegno dei cattolici e questo sin dalla sua
fondazione. Un’azione che è stata molto importante anche nella costruzione
dell’unità europea, in tutte le sue fasi, ma, in particolare, nell’allargamento
all’Europa orientale, che si presentava molto problematico. Tutto questo è poco
considerato dalla gerarchia, che ancora, quando parla di radici
cristiane dell’Europa, si riferisce prevalentemente ai tempi tremendi (per
la violenza per motivi religiosi che espressero e quindi per la sconfessione
pratica del vangelo) a cui risalgono le grandi cattedrali europee, che ora sono
più che altro piene di turisti, si stanno trasformando in musei, e gli stessi
gerarchi se ne lamentano. Un’Europa che ha consentito oltre settant’anni di
pace non è molto apprezzata dai nostri vescovi, ne diffidano per quella
democrazia che contiene e che ne è stata il motore, fattore di concordia tra i
popoli, democrazia che, per il ruolo centrale che nella sua costruzione hanno
svolto i cristiani, è stata declinata anche secondo i principi
cristiani, per cui è diventata tanto diversa da altre bellicose
democrazie, come quella statunitense. La democrazia è vista con sospetto per la
libertà che esprime: si pensa che su quella via poi la gente vorrebbe mettere
in questioni i dogmi sui quali storicamente la gerarchia ha costruito la sua
efferata cosiddetta ortodossia, o si darebbe a chissà
quali altre fantasie. Non si vorrà mettere ai voti la Trinità? Non
si rende conto, la gerarchia, di quanto la sua teologia normativa sia diventata
estranea alla maggior parte dei fedeli, per cui non sarebbe certamente quello
il problema principale. I più, al di là della formula dell’antico Credo che
si recita a messa, nemmeno sanno di che si tratta e che cosa comporta.
Interesserebbe tanto poco e a tanti pochi che non arriverebbe nemmeno a
discutersene. Ma, ad esempio, introducendo principi democratici in una
parrocchia, si potrebbe discutere di come usare locali e arredi, di come
organizzare un appropriato progetto formativo per le persone laiche, di come
programmare assemblee per orientarsi dialogando, di quanto debito
fare e per che cosa. Dico discutere non solo nel senso
di consultare una limitata accolita di nominati, ma di
farne partecipi tutti, mediante strumenti di pubblicità validi, di poterne
discutere in assemblee, di avere un vero peso nelle decisioni mediante
eletti dal basso, come già prevede del resto la normativa canonica. Questo
è il metodo che pratichiamo nella società civile e chi ci viene vietato quando
entriamo in Chiesa, veramente un altro mondo in
questo.
Dialogo
con altre religioni e con chi non crede: a che punto
siamo?, ci chiedono i nostri vescovi. Alle Valli non
constato contatti tra fedeli di diverse religioni e tra noi c’è anche poca
consapevolezza di che cosa esse siano, insieme a molti pregiudizi che ci
derivano dal passato. Con chi non crede siamo in contatto
tutti giorni, nella vita in società, e certamente una qualche
influenza abbiamo, se non altro per far conoscere attraverso noi la dimensione
religiosa, ma questo, che è propriamente apostolato, non ci viene
riconosciuto: alcuni ci vorrebbero brutalmente piazzisti del
vangelo e, poiché non lo siamo, questo è un altro elemento di insoddisfazione
verso di noi. Nei rapporti con chi non vive la fede occorre una certa
delicatezza e la capacità di mediare nel suo mondo ciò che intendiamo
comunicargli: questo richiede di conoscerlo bene. Non
basta strillargli addosso le parole della fede. Farlo è
controproducente.
Organizzare
occasioni di dialogo in parrocchia: questa la proposta pratica che rivolgo
al Consiglio pastorale parrocchiale per partecipare anche noi
al processo sinodale che tra qualche giorno inizierà.
A proposito:
la sinodalità, prima di essere teoria, è pratica e
richiede di farne tirocinio provando a dialogare riconoscendosi pari dignità:
ciò che è risultato tanto difficile nelle nostra parrocchia, e anche
tra persone che sono sicuramente buone, ma che, essendo state formate alla
religione in un certo clima, quando si incontrano al di fuori dei loro soliti
raggruppamenti, diffidano le una delle altre e pensano che, dialogando,
debbano rinunciare a qualcosa di importante del loro
modo di vivere la fede, di doversi amputare qualcosa, qualche
parte di sé. Ma non è questo il risultato della sinodalità. E’ una
paura che deriva da un certo integralismo che ci è entrato
dentro e che non solo non è essenziale in religione, ma è anche dannoso. Ci
divide, ci confina. Dobbiamo invece cercare di aprirci alle altre persone per
indurle a fare altrettanto. In fondo condividiamo molti grandi principi
ed è su questo, su quello che ci unisce, che bisogna fondare il
tirocinio di sinodalità.
5.6 Autorità e partecipazione
Una
Chiesa sinodale è una Chiesa partecipativa e corresponsabile. Come si
identificano gli obiettivi da perseguire, la strada per raggiungerli e i passi
da compiere? Come viene esercitata l’autorità all’interno della nostra Chiesa
particolare? Quali sono le pratiche di lavoro in équipe e di corresponsabilità?
Come si promuovono i ministeri laicali e l’assunzione di responsabilità da
parte dei Fedeli? Come funzionano gli organismi di sinodalità a livello della
Chiesa particolare? Sono una esperienza feconda?
Questa domanda,
su autorità e partecipazione, che troviamo tra quelle elencate
nel Documento preparatorio per il prossimo
Sinodo, riguarda l’aspetto centrale di quest’ultimo, perché si
tratta di un sinodo sulla sinodalità, quindi un sinodo che riflette
su se stesso.
Si apre con
un enunciato sulla Chiesa e la sinodalità: una Chiesa sinodale è una
Chiesa partecipativa e corresponsabile.
La
prima definizione, veramente epocale, è quella di Chiesa
sinodale. In passato solo il Sinodo dei vescovi venne ritenuto capace
di sinodalità, quindi di una vera collegialità sul
da farsi.
Nonostante
quello che si è scritto negli ultimi anni in proposito, da quando la sinodalità
ecclesiale è stato oggetto di interesse da parte della
gerarchia, una Chiesa veramente sinodale in tutte le sue componenti
(sinodalità totale) non c’è mai stata. C’è stata, invece, talvolta,
appunto in occasione dei sinodi dei vescovi, una sinodalità
dell’episcopato, vale a dire tra autocrati, i gerarchi (sono essi stessi a
definirsi tali). Nella misura in cui essi si riconobbero pari dignità e
rinunciarono a conflitti distruttivi, quindi decisero di prendere una decisione
di comune accordo, ecco, allora essi furono sinodali. La sinodalità,
dunque, cominciò a manifestarsi da quando, tra la fine del Primo secolo e
l’inizio del Secondo, emerse l’autocrazia religiosa, con
l’episcopato monarchico. Le assemblee che c’erano prima erano altra cosa, ed
anche, ad esempio, il concilio di Gerusalemme, che si data all’anno
49 della nostra era. Il racconto che ne troviamo negli Atti degli apostoli
rende molto chiaro che non si trattò di qualcosa come i sinodi e
i concili del secolo successivo e che, in particolare,
l’autorità che in esso si manifestò era intesa in modo molto
diverso da come lo fu qualche decennio dopo. E questo anche se si tende a
ricoprire di significati che ebbero in epoca più tarda certe esperienze di
autorità religiosa delle origini, perché tra noi essere in linea con le
tradizioni più antiche rafforza l’autorevolezza delle decisioni. E’ per questa
via che certe tradizioni diventano poi la
Tradizione, perché si immagina che ciò che si è deciso di essere in un
certo tempo risalga a tempi antichi, molto vicini a quelli della vita da uomo
tra noi del Maestro, e che sia rimasto inalterato per lunghissimo tempo,
godendo di un vasto consenso. Del resto l’esperienza di
una Tradizione è molto comune nelle culture umane e, ad
esempio, molti dei principali istituti giuridici dell’Europa di oggi originano
a tantissimo tempo fa, all’evo antico. La nostra teologia sulla Chiesa ha
tuttavia una particolarità, quella di essere in gran parte di molto successiva
alle origini e di essere stata, addirittura nei suoi fondamenti, profondamente
inculturata dalle culture politiche che ad un certo punto l’adottarono come
base ideologica. Della storicità delle nostre Chiese, in quel
senso, non si è in genere consapevoli tra i fedeli, perché da un lato non la si
insegna e dall’altro si tenta in vario modo di negarla, anche contro
l’evidenza, perché si ritiene che il sacro sia eterno in
quanto di origine soprannaturale, mentre solo il secolo, cioè
le società di cui siamo artefici, sia soggetto a mutamenti. Tuttavia, già
durante gli studi scolastici della scuola secondaria di secondo grado essa
emerge con chiarezza.
Merita di
leggere quel brano degli Atti degli apostoli al quale mi sono
riferito, che vi propongo nella versione TILC – Traduzione interconfessionale
in lingua corrente. Si tratta del passo degli Atti degli apostoli, capitolo 15,
versetti da 1 a 32 [At 15, 1-32].
In quel tempo, alcuni
cristiani della Giudea vennero nella città di Antiòchia, e si misero a
diffondere tra gli altri fratelli questo insegnamento: «Voi non potete essere
salvati se non vi fate circoncidere come ordina la legge di
Mosè». Paolo e Bàrnaba non erano d’accordo, e ci fu una violenta
discussione tra loro. Allora si decise che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri
andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dai responsabili di quella
comunità per presentare tale questione.
La comunità
di Antiòchia diede a Paolo e a Bàrnaba tutto il necessario per questo viaggio.
Essi attraversarono le regioni della Fenicia e della Samaria, raccontando
che anche i pagani avevano accolto il Signore. Questa notizia procurava una
grande gioia a tutti i cristiani. Giunti a Gerusalemme, furono ricevuti
dalla comunità, dagli apostoli e dai responsabili di quella chiesa. Ad essi
riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo di loro.
Però, alcuni
che erano del gruppo dei farisei, ed erano diventati cristiani, si
alzarono per dire: «È necessario circoncidere anche i credenti non ebrei e
ordinar loro di osservare la legge di Mosè».
Allora, gli
apostoli e i responsabili della comunità di Gerusalemme si riunirono per
esaminare questo problema. Dopo una lunga discussione si alzò Pietro e
disse: «Fratelli, come voi ben sapete, è da tanto tempo che Dio mi ha scelto
tra di voi e mi ha affidato il compito di annunziare anche ai pagani il messaggio
del *Vangelo, perché essi credano. Ebbene, Dio che conosce il cuore
degli uomini ha mostrato di accoglierli volentieri: infatti ha dato anche a
loro lo Spirito Santo, proprio come a noi. Egli non ha fatto alcuna
differenza fra noi e loro: essi hanno creduto e perciò Dio li ha liberati dai
loro peccati. Dunque, perché provocate Dio cercando di imporre ai credenti
un peso che, né i nostri padri né noi, siamo stati capaci di
sopportare? In realtà, sappiamo che noi siamo salvati per mezzo della
grazia del Signore Gesù, esattamente come loro».
Tutta
l’assemblea rimase in silenzio. Poi ascoltarono Paolo e Bàrnaba che
raccontavano i miracoli e i prodigi che Dio aveva fatto per mezzo loro tra i
pagani.
Quando essi
ebbero finito di parlare, Giacomo disse: «Fratelli, ascoltatemi! Simone ci
ha raccontato come fin da principio Dio si è preso cura dei pagani, per
accogliere anche loro nel suo popolo. Questo concorda in pieno con le
parole dei *profeti. Sta scritto infatti nella Bibbia:
Dopo questi avvenimenti
io ritornerò;
ricostruirò la casa di
Davide che era caduta.
Riparerò le sue rovine e
la rialzerò.
Allora gli altri uomini
cercheranno il Signore,
anche tutti i pagani che
ho chiamati a essere miei.
Così dice il Signore.
Egli fa queste cose,
perché le vuole da sempre.
Per questo io
penso che non si devono creare difficoltà per quei pagani che si convertono a
Dio. A loro si deve soltanto chiedere di non mangiare la carne di animali
che sono stati sacrificati agli idoli. Devono anche astenersi dai disordini
sessuali. Infine non dovranno mangiare il sangue e la carne di animali morti
per soffocamento. Queste norme, date da Mosè, fin dai tempi antichi
sono conosciute in ogni città. Infatti dappertutto ci sono uomini che,
ogni sabato, nelle sinagoghe leggono e predicano la legge di Mosè».
Allora
gli apostoli e i responsabili della Chiesa di Gerusalemme, insieme a tutta
l’assemblea, decisero di scegliere alcuni tra di loro e di
mandarli ad Antiòchia, insieme con Paolo e Bàrnaba. Furono scelti due:
Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, che erano tra i primi di quella
comunità. Ad essi fu consegnata questa lettera:
«Gli apostoli e i
responsabili della comunità di Gerusalemme salutano i fratelli cristiani di
origine non ebraica che vivono ad Antiòchia, in Siria e in
Cilicia. Abbiamo saputo che alcuni della nostra comunità sono venuti fra
voi per turbarvi e creare confusione. Non siamo stati noi a dare loro questo
incarico. Perciò, abbiamo deciso, tutti d’accordo, di scegliere alcuni
uomini e di mandarli da voi. Essi accompagnano i nostri carissimi Bàrnaba e
Paolo, i quali hanno rischiato la vita per il nostro Signore Gesù Cristo. Noi
quindi vi mandiamo Giuda e Sila: essi vi riferiranno a voce le stesse cose che
noi vi scriviamo. Abbiamo infatti deciso, lo Spirito Santo e
noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose che sono
necessarie: non mangiate la carne di animali che sono stati sacrificati
agli idoli; non mangiate sangue o carne di animali morti per soffocamento.
Infine astenetevi dai disordini sessuali; tenetevi lontani da tutte queste cose
e sarete sulla buona strada. Saluti!».
Gli
incaricati partirono e giunsero ad Antiòchia. Qui riunirono la comunità e
consegnarono la lettera. Quando l’ebbero letta, tutti furono pieni di
gioia, per l’incoraggiamento che avevano ricevuto. Anche Giuda e Sila
erano profeti: perciò parlarono a lungo ai fratelli nella fede, per incoraggiarli
e per sostenerli.
Vi invito a
ragionarci sopra. Vi informo che, secondo gli esegeti:
- non si
deve pensare che gli apostoli di cui si parla nel brano
fossero i Dodici; di essi era sicuramente presente solo Pietro;
- il Giacomo di
cui si parla non era uno dei due apostoli dei Dodici che avevano quel nome, ma
la persona detta Giacomo fratello del Signore, parente di Gesù di
Nazaret e personaggio eminente nella comunità dei suoi seguaci a Gerusalemme,
uno dei suoi responsabili.
La decisione che
fu presa in quella sede, se anche i credenti provenienti dalle nazioni,
vale a dire non dal giudaismo, dovessero seguire le prescrizioni rituali
giudaiche, fu adottata dagli apostoli, dai responsabili della Chiesa di
Gerusalemme, e da tutta l’assemblea, che quindi era
composta anche da altre persone. Paolo e Barnaba era stati mandati a
quell’assemblea per dirimere quella delicata questione che stava dividendo la
comunità di Antiochia, città della Siria dove, secondo Paolo, i
seguaci di Gesù iniziarono a dirsi e ad essere definiti come cristiani. Paolo,
l’apostolo, si mosse su mandato di quella comunità,
nella quale la sua visione non era riuscita a imporsi. Vedete bene che risalta
come si praticò un metodo di decisione molto diverso da quello dalla Chiesa in
cui oggi viviamo e su una questione prettamente teologica, anche se all’epoca
una teologia come disciplina di studio sistematico propria di un ceto di dotti
ancora non c’era. Non c’erano neanche i vescovi come noi li intendiamo, vale a
dire come capi monarchici e assoluti di una diocesi nominati dal Papa.
Di solito,
quando si pensa a una riforma della Chiesa, si cercano agganci nelle origini e
quindi, da quando ci si è interrogati sulla sinodalità si è
cominciato quasi sempre da quel brano degli Atti degli apostoli. Il problema è
che, da quando si organizzò un clero, il potere ecclesiale passò
progressivamente nelle sue mani e, in particolare, in quelle dei vescovi
propriamente detti, i quali, ricordano gli storici, venivano nominati con molte
diverse procedure, non da un papa, le quali comunque
comprendevano un riconoscimento degli altri vescovi e questo, insegnano gli
storici della Chiesa, fu senz’altro caratteristico nelle nostre Chiese, fin da
quando l’episcopato vi si affermò, quindi molto presto. Quando poi
la nostra religione divenne un affare di stato, dall’inizio del Quarto secolo,
tutto prese una diversa piega perché entrò di mezzo la politica civile, non
solo ecclesiale, e allora nell’organizzazione del potere ecclesiale influirono
moltissimo gli imperatori romani del Primo Millennio,
che risiedettero però a Costantinopoli - Bisanzio, da Costantino 1°
in poi [274-338] e le delibere di sinodi e concili divennero leggi per lo
stato. La grandiosa riforma dello stato operata da Costantino 1° si accompagnò
ad un‘altrettanto epocale riforma delle Chiese cristiane che
piuttosto rapidamente divennero “la” Chiesa. All’epoca della
Riforma protestante, dal Cinquecento, i mali della Chiesa vennero individuati
proprio in quel processo di statalizzazione e accentramento e
si pensò che la via giusta fosse quella di tornare a ciò che c’era prima. La
Riforma fu pensata da professori di teologia prima di essere vissuta dal popolo
e questo creò vari problemi, diciamo così. Essa sicuramente puntò a dare di
nuovo voce al popolo, ma tornare a ciò che c’era prima non fu
veramente possibile e questa è una lezione importante che ci impartisce la
storia. Non è mai possibile rivivere la storia del passato, meno
che mai una che è così lontana da noi come quella delle origini dei cristianesimi.
Se vogliamo riorganizzare una società non dobbiamo cercare nel passato ma
capire e valutare come siamo diventati, e oggi siamo molto,
veramente molto, diversi da come furono i primi seguaci del Nazareno e anche
dalle prima comunità che si organizzarono propriamente come Chiese. I costumi
di queste ultime non erano poi sempre particolarmente virtuosi: in
particolare erano travagliate da continui ed aspri conflitti. Espressero poi un
violento antigiudaismo dal quale oggi non possiamo prendere sicuramente esempio
e che si spiega storicamente con il fatto che i cristianesimi si formarono per
separazione dall’antico giudaismo e non ne volevano essere riassorbiti. Si
spiega ma non può essere certo preso a modello di vita cristiana
oggi. Vi fu anche l’esigenza di creare una nuova giustificazione mitologica del
nuovo modo di vivere la fede che non lo costringesse in un’etnia e in una certa
terra. Proprio la narrazione del concilio di Gerusalemme rende
chiaro di che si trattò. Da essa le nostre prime comunità di fede appaiono come
attraversate da polemiche e divisioni e il metodo assembleare una
via per fare pace, più che per imporre rigidamente una
certa dottrina. Si capì, allora, alla metà del Primo secolo, che con la gente
che non proveniva dal giudaismo bisognava adattare riti e prescrizioni di
purità, esercitare dunque quella che oggi diremmo una mediazione
culturale.
Una polemica
in merito si è riaccesa nello scorso settembre per una catechesi del
Papa nella quale egli, insegnando sulla base di un brano della Lettera
ai Galati con un occhio alle nostre attuali divisioni, in
sostanza definiva inutili le antiche prescrizioni
rituali giudaiche, che l’ebraismo nostro contemporaneo ancora osserva
come legge di santità, ma ciò non per criticare gli ebrei di oggi e
anche il giudaismo del Primo secolo, quanto per rimproverare coloro che, nelle
nostre comunità, sono troppo legati a un certo formalismo religioso e
vorrebbero che nulla cambiasse e per questo disapprovano il
magistero dell’attuale Papa. Il problema è, naturalmente, che il Papa è il
Papa, un monarca assoluto in religione e nel suo micro-stato romano, e che ciò
che dice in religione è legge e, in certi momenti, addirittura legge che non
può essere messa in discussione, almeno fino a che un altro suo pari
grado infallibile la modifichi, questo perché religiosamente
si confida ardentemente che abbia colto nel segno (talvolta anche contro
l’evidenza). Ecco dunque che l’assolutismo religioso ci ha creato un problema,
e questo pur se il Papa, dicendo quello che ha detto, voleva parlare solo
da pastore e rivolgersi a noi, suo gregge, non
rinfocolare da autocrate quell’antica diatriba. Egli con il suo magistero, il
suo governo e anche in altro modo nei fatti ha dimostrato di voler essere amico
degli ebrei del suo tempo. Dalla fine degli scorsi anni ’30 i cattolici si sono
messi per quella via e il Concilio Vaticano 2° ha deliberato importanti
principi in merito. Oggi non ci riteniamo più legati all’aspro e violento
antigiudaismo dei Padri della Chiesa, lo abbiamo ripudiato dopo averlo
praticato per secoli e, in quello, non ci sentiamo più loro figli. Esso
storicamente è stato una delle radici culturali della Shoà. Fu
soprattutto merito di noi persone laiche se esso, ad un certo punto, fu sentito
come obsoleto, dannoso e quindi ripudiato, anche dalla nostra gerarchia, che
tuttavia faticò abbastanza ad emanciparsene. Ecco un effetto positivo di un
modo nei fatti partecipativo di manifestare la fede.
« Come
viene esercitata l’autorità all’interno della nostra Chiesa particolare? Quali
sono le pratiche di lavoro in équipe e di corresponsabilità? Come si promuovono
i ministeri laicali e l’assunzione di responsabilità da parte dei
Fedeli?». E’ semplice rispondere. Tutto il potere è del clero che lo
esercita in modo autocratico e non solo nelle questioni di fede, ma, ad
esempio, nella decisione di dove collocare la statua di un santo in una chiesa
parrocchiale. Nel clero ci sono gerarchi che accentrano molto e altri che si
avvalgono maggiormente della collaborazione di altri ministri ordinati. Quanto
alle persone laiche, esse non contano nulla, non hanno l’ultima parola su
nulla, né individualmente né collegialmente, cento o un milione sono
lo stesso di fronte ad un solo gerarca, sono al più ausiliarie che
rimangono tali a discrezione del clero.
Posso dire che
sicuramente, vista dalla nostra parrocchia, la nostra Chiesa non è abbastanza
partecipativa né sufficientemente partecipata, ma
più che altro solo frequentata. La relazione principale è col prete
di riferimento, quello da cui ci si va di solito a confessare, se si è
mantenuta questa pia abitudine, o quello al quale fa capo il servizio in cui si
è ausiliari. Del Consiglio pastorale parrocchiale so
che c’è e che talora, in passato, parteciparvi, per il rappresentante
dell’Azione Cattolica parrocchiale è stata un’esperienza forte, ma
non in senso proprio positivo. Alle sue attività e decisioni non viene data
pubblicità, per cui i fedeli non sanno che fa e che decide. Non sapendone
praticamente nulla, al di fuori della ristretta cerchia di chi vi partecipa, si può pensare anche che non sia al suo
massimo, o peggio. Secondo le direttive del Cardinal vicario gli è stata
affiancata una equipe pastorale, sempre con funzioni consultive, e,
anche qui, delle sue attività non si sa nulla, al di fuori del suo ambito, di
chi è stato chiamato a parteciparvi. Le norme vigenti prevedono una componente
elettiva del Consiglio pastorale parrocchiale, ma, a mia memoria, e
sono in parrocchia da molto (alla mostra fotografica che si sta organizzando
manderò una foto del primo parroco, don Vincenzo, con tutti i suoi chierichetti e
c’ero anch’io fra loro), l’assemblea parrocchiale non si è mai riunita per
eleggerli. Quindi, essendo frequentato più che altro dai rappresentanti dei
vari gruppi organizzati della parrocchia, oltre che dal clero e
dagli altri membri di diritto, il Consiglio pastorale
parrocchiale mi appare più che altro come una sorta di assemblea
condominiale, dove naturalmente si conta in base ai millesimi rappresentati.
Spero di sbagliarmi. In definitiva, in parrocchia certamente la Chiesa non
appare sinodale nel senso oggi inteso dai nostri vescovi.
Ora,
la sinodalità evoca tanti aspetti suscettibili di
cambiamento nella nostra Chiesa, ma, secondo l’esortazione del Papa, penso che
il metodo giusto sia cominciare ad affrontare quelli più vicino a noi, in
basso, nelle realtà di prossimità, di base, come le parrocchie.
A chi sta In alto spesso
sfugge l’importanza della base: in una costruzione fisica, per
legge di gravità, la stabilità di ciò che sta in alto dipende da quello che c’è
in basso. In basso ci siamo appunto noi, ad esempio noi nella nostra
parrocchia. Per tanti motivi sperimentare in basso è più semplice: si tratta di
provare a vivere la fede in maniera meno difficoltosa e dolorosa. Non dobbiamo
gestire stati, imperi immobiliari, banche ecc., né impegnarci nella
complicatissima e paradossale nostra dogmatica, insomma tutto ciò in cui un
alto gerarca religioso è incastrato, e più di tutti chi fa il Papa. Si vede
come va e si adattano le regole alle circostanze, imparando da ciò che funziona
bene. Non si tratta di riformulare dogmi o, comunque, pasticciare da dilettanti
con la nostra ingarbugliata e perigliosa teologia. Il Concilio Vaticano 2° ha
riformulato la dogmatica in modo da fare spazio a una Chiesa sinodale, vale a
dire partecipativa e realmente partecipata. Tanto
basta e avanza. Ma non ha dato le prescrizioni di dettaglio:
sarebbe stato del resto poco saggio, trattandosi di un’assemblea che riguardava
la Chiesa universale, con gerarchi venuti da tutto il mondo. Partecipare in
Cina, ad esempio, è diverso dal partecipare in Italia, pio e si
capisce perché. Non c’è una soluzione sinodale che possa andare bene dovunque e
in qualsiasi ambiente umano. Al dettaglio bisogna pensare in sede locale,
cercando di imparare dall’esperienza pratica, con una certa duttilità quindi,
senza irrigidirsi in schematismi.
Il primo
passo dovrebbe essere proprio quello di istituire sedi di partecipazione,
vale a dire assemblee nelle quali si possa realmente
partecipare, discorrendo. Ci si dovrà dividere in varie sezioni,
perché, noi 1.000 circa praticanti abituali non c’entriamo
tutti in nessun ambiente parrocchiale e, anche stringendoci e strizzandoci, in
un numero così vasto non riusciremmo realmente a partecipare, ma
solo ad ascoltare o recitare un copione,
come ci accade nei grandi eventi organizzati ciclicamente dalla gerarchia.
Sarebbe bene dividersi per età, condizione e prospettive di vita (una persona
ventenne non impegnata con la prole non vede le cose nella stessa maniera di un
quarantenne sposato e con figli piccoli), ma anche interessi partecipativi (i
cosiddetti carismi). Però poi dovrebbe essere previsto un certo
rimescolamento in modo da aver modi di frequentarsi e conoscersi anche oltre
quelle partizioni. Una cosa complicata senza un Comitato
direttivo, al modo di quelli che in varie diocesi, ad esempio in
quella di Milano alla quale sono rimasto molto legato dopo avervi soggiornato
per motivi sanitari, sono stati istituiti, con funzioni
esecutive, nei Consigli pastorali parrocchiali e
in quelli delle Comunità pastorali.
Il
secondo passo è quello di stabilire materie e campi in cui negli istituti di
partecipazione di base possano essere realmente prese decisioni, fosse
anche solo quella, come detto, di stabilire dove vadano poste le statue dei
santi in chiesa, qualcosa comunque in cui non si sia solo come consulenti. L’importante è
che in quei campi il clero, che finora accentra tutte le decisioni, non
possa prevalere. E questo anche solo prevedendo che, posti due
centri decisionali, ad esempio il Consiglio pastorale parrocchiale e
l’ufficio del parroco, nessuna decisione, in quegli ambiti partecipativi, possa
essere esecutiva se non nell’accordo dei due. In sostanza, in caso di
disaccordo, ad esempio se il parroco volesse eliminare una cinquantina di posti
in chiesa per farvi posto ad una qualche costosa grande istallazione e l’organo
partecipativo non approvasse questa decisione, o se analoga decisione fosse
presa dall’organo partecipativo e non approvata dal parroco, si finirebbe così
per prevedere un potere di veto della parte
dissenziente. Poi si vedrebbe come va. All’esito di un periodo di esperienza se
ne potrebbe poi discutere non solo nell’organo partecipativo costituito
dal Consiglio pastorale parrocchiale ma anzitutto nell’assemblea
parrocchiale, che, a questo punto, si dovrebbe riunire in varie
sessioni e sezioni, per dar modo a tutti i praticanti di
partecipare.
Se la
Chiesa, come ora sostengono i vescovi, deve essere partecipativa e corresponsabile,
e in questo senso sinodale, la partecipazione a quelle attività
dovrebbe essere presentata come obbligatoria e il non partecipare come cosa di
cui accusarsi in confessione: “Padre, sono stato poco sinodale nell’ultimo
mese”. Così il sacerdote potrebbe impartire per penitenza un periodo
di sinodalità accentuata, perché il penitente si emendi
di quella sua poca sinodalità, ad esempio, per i giovani, partecipando anche alle
assemblee dei pensionati e viceversa.
5. 7
Discernere e decidere
Che cosa si decide nella Chiesa? Ci sono
decisioni che riguardano l’amministrazione dei beni, comprese quelle sulla
destinazione delle risorse finanziarie, gli acquisti e le dismissioni; l’amministrazione
del personale; la programmazione delle attività di propaganda e formazione; la
programmazione delle liturgie; il coordinamento delle varie istituzioni che la
compongono; gli orientamenti strategici per l’azione in società; i rapporti
politici con altre istituzioni civili o religiose e, infine, l’individuazione
della teologia normativa, vale a dire delle concezioni fondamentali sul
soprannaturale e sulle sue relazioni con l’umanità in base alle quali
distinguere chi è dentro e chi è fuori una certa tradizione che si vuole
tramandare inalterata e che, in questo senso, è legge di ecclsialità. La
funzione essenziale dell’apostolo, per come emerge dai Vangeli, riguarda
formazione, liturgia e tradizione religiosa, vale a dire ciò che viene
definito pastorale.
Gesù
si avvicinò e disse: «A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Perciò
andate, fate che tutti diventino miei discepoli; battezzateli nel nome
del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; insegnate loro a
ubbidire a tutto ciò che io vi ho comandato. E sappiate che io sarò sempre con
voi, tutti i giorni, sino alla fine del mondo».
[testo TILC – Traduzione
interconfessionale in lingua corrente – dal Vangelo secondo Matteo, capitolo
28, versetti da 28 a 30 (Mt 28, 28-30)]
Questa la
sua missione.
La gerarchia ecclesiale
fu voluta tale, alle origini, essenzialmente per questioni di tradizione religiosa.
Infatti, al tempo in cui le idee cristiane cominciarono ad essere inculturate
dalla filosofia ellenistica, prese piede una significativa letteratura
religiosa che faceva capo a maestri indipendenti, secondo il modello
delle scuole filosofiche dell’antichità. Gli sviluppi si
manifestarono come assai divergenti, e a tratti bizzarri, in particolare sulla
missione e sul senso dell’esistenza stessa di Gesù, sulle prospettive del mondo
nell’attesa del suo ritorno e sul da farsi nel frattempo, sull’essenza del bene
e del male, sui rapporti con il giudaismo. La soluzione che sembrò funzionare
meglio fu quella organizzata attorno ad un episcopato monarchico. I sistemi
primitivi di potere sono spesso organizzati intorno al maschio dominante, ma
anche oggi, quando ci sentiamo a disagio per la complessità della società in
cui viviamo e che non riusciamo bene a capere, ci sorprendiamo a sognare
un leader, una guida, a cui fare riferimento e la
pensiamo al maschile. L’attuale ingenuo papismo massmediatico risponde in fondo
a questa esigenza. Questo sistema produsse una tradizione normativa
religiosa e quindi l’idea di eresia, come divergenza
da essa, per scelte indisciplinate che mettevano a rischio l’unità dei
credenti, rappresentata come un corpo. Il vescovo, allora, venne
visto come pastore e medico del corpo ecclesiale
e, in questo, qualcuno che faceva le veci di Gesù. Il pastore risana
la società, guarendola dalle eresie. Nel Primo Millennio
funzioni vicarie in questo senso, riferite a tutta la Chiesa,
furono svolte dall’imperatore romano, dal Secondo Millennio se le arrogò il
Papa di Roma in regime, per così dire, di monopolio.
L’esperienza
sinodale nacque per coordinare i vescovi, in particolare quelli che si
riconoscevano gli uni gli altri in comunione, vale a dire d’accordo
sulle questioni fondamentali riguardanti la fede. Una delle funzioni principali
dei vescovi delle origini fu proprio quella di attestare che un credente
era in comunione con loro, rilasciandogli un apposito
attestato, una lettera di comunione, quando doveva spostarsi in
un’altra diocesi. Quando erano in disaccordo o erano in disaccordo con qualche
autore religioso, i vescovi lanciavano invece anatemi. Il Concilio
Vaticano 2° (1962-1965) fu il primo, nella storia della Chiesa, a non averne
formulati.
Nel prosieguo,
con l’acquisizione di beni ecclesiatici e con l’organizzazione di una
burocrazia ecclesiastica che doveva essere amministrata, nell’ufficio del
vescovo furono integrate tutte le funzioni di cui si diceva all’inizio, in
particolare quando, dal Quarto secolo, la religione cristiana venne assunta
come ideologia dell’Impero romano, i vescovi iniziarono ad esercitare
funzioni pubbliche e le deliberazioni di sinodi e concili furono
considerate anche leggi dello stato. Per questo, tutti i concili ecumenici del
Primo millennio furono convocati e presieduti, direttamente o o da altri
personaggi ma sotto la loro autorità, dagli imperatori romani, che
però risiedevano a Bisanzio – Costantinopoli, in Tracia. Per questo essi furono
tenuti tutti nei pressi di quella capitale o nella città stessa: appunto,
Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia (in Asia minore).
Con l’istituzione
del Papato Imperiale, dal Secondo Millennio, a partire dalla
riforma organizzata dal papa Gregorio 7°, regnante al 1073 al 1085, la
gerarchia diretta dal Papato riuscì ad emanciparsi in buona misura dai poteri
civili e assunse la caratteristica di una istituzione politica al modo degli
stati suoi contemporanei, esprimendone tutte le relative funzioni e mantenendo
e intensificando quella di polizia religiosa, per tutelare la tradizione
normativa. Fino al Concilio Vaticano 2° 1962-1965) essa mantenne quella
configurazione, che, sebbene in parte modificata, è ancora piuttosto visibile e
ispira la normativ del diritto canonico, il diritto della Chiesa cattolica.
Durante il
Secondo Millennio, nella la Chiesa cattolica si produsse un
progressivo ma significativo processo di accentramento politico intorno al
Papato di Roma. Nei primi secoli del Millennio gli si contrappose un movimento
di conciliarismo, che voleva limitarne il potere a favore del
metodo sinodale, praticato nei sinodi e
nei concili dei vescovi. L’accentramento e la forte
sacralizzazione del potere del Papato si intensificarono in reazione ai
movimenti della Riforma protestante e a quelli democratici di impostazione
liberale, dal Settecento. Dalla metà Ottocento il Papato, in reazione a questi
ultimi movimenti, che avevano finito per spodestarlo dal suo regno laziale, si
organizzò per dirigere moti popolari, per esercitare una pressione politica in
Italia sulla nuova democrazia a sostegno delle sue rivendicazioni, in
particolare quando, agli inizi del Novecento fu introdotto il suffragio
universale maschile. Per reazione verso i totalitarismi fascisti
e comunisti, poi, il Papato diede un’organizzazione totalitaria al suo
movimento popolare italiano che aveva riorganizzato, nel 1906, nell’Azione
Cattolica, costruita come un vero e proprio partito/sindacato al suo diretto
servizio, ma anche come una potente agenzia formativa, che coinvolse in massa
anche le donne. Dagli anni Cinquanta, questo accentramento politico e religioso
cominciò ad essere messo in questione in teologia e la questione trovò spazio
nel Concilio Vaticano 2°.
Non si
trattò solo di recuperare l’antico conciliarismo. La teologia del laicato,
affermando che anche le persone laiche erano chiamate all’apostolato non per
delega della gerarchia ma in virtù della loro diretta relazione con Cristo,
aprì la strada all’idea che tutta la Chiesa dovesse
essere sinodale, non solo i vescovi per dirimere pacificamente le
controversie tra loro. E, tuttavia, nei documenti normativi deliberati da quel
Concilio, di sinodalità non si parla. Si parla invece di collegialità
dell’episcopato, sviluppata poi con l’istituzione del Sinodo dei vescovi,
nel 1965. Esso è stato profondamente riformato da papa Francesco nel
2018, con la Costituzione apostolica La comunione episcopale, una
legge religiosa. Una delle principali novità è l’organizzazione, nella fase
preparatoria del Sinodo, di una Consultazione del popolo di Dio,
che, per il Sinodo universale 2021-2023, inizierà il prossimo 9 ottobre, e il
17 ottobre nelle Diocesi. Purtroppo in parrocchia non ne ho sentito parlare.
In
definitiva la teoria e la pratica della sinodalità ecclesiale totale sono una
riforma di notevolissima portata, qualcosa che non si è mai vissuto.
L’inizio del
Sinodo universale, coinciderà anche con il processo del Sinodo della Chiesa
italiana, che si concluderà nel 2025, anno del Giubileo.
Il Sinodo ha come
oggetto la sinodalità, e nel Sinodo nazionale la esamineremo per
quanto più specificamente ci riguarda.
Sinodalità significa
decidere insieme, tra persone che si riconoscono pari dignità.
Ma, prima di questo, è puramente e semplicemente stare insieme
riconoscendosi pari dignità. E’ il Concilio Vaticano 2° che ha deliberato la
teologia dogmatica che l’ha riconosciuta anche alle persone laiche, che quindi
non possono più essere trattate come suddite. In questo il diritto
canonico vigente appare ancora osboleto, seppure revisionato nel 1983, anno
dell’entrata in vigore del nuovo codice di diritto canonico.
Le fasi della
decisione sono quella preparatoria, in cui si raccolgono elementi
di valutazione, e quella della deliberazione. Nel Sinodo dei vescovi
sono solo i vescovi a deliberare, a maggioranza, perché in quell’organismo ci
sono solo loro. Si possono servire di quanto raccolto nella fase preparatoria,
in particolare nella consultazione popolare, ma non sono obbligati
a farlo. Non vi sono attualmente organismi nei quali la sinodalità totale,
quindi anche partecipata dalla persone laiche, possa esercitarsi fino alla fase
di deliberazione di una decisione. Le leggi canoniche non la prevedono. Gli
attuali organismi partecipativi nei quali possono lavorare anche persone laiche
sono solo consultivi. E questo anche se nella burocrazia religiosa
a certi posti, anche con responsabilità dirigenziali, sono state assegnate
persone laiche. La differenza, rispetto al metodo sinodale, sta nella
designazione dall’alto e nell’essere gerarchicamente soggetti ad un’autorità
burocratica superiore. Tuttavia, in una fase di sperimentazione, organismi del
genere possono essere strutturati negli ambienti ecclesiali di base sfruttando
i limitatissimi spazi di autonomia degl organismi partecipativi già previsti,
ad esempio nei Consigli pastorali parrocchiali, come è stato fatto
in diverse parrocchie italiane per organizzare sinodi parrocchiali.
Il metodo
sinodale ha il vantaggio di responsabilizzare chi vi
partecipa. E’ ciò che nella domanda dei vescovi che ho sopra trascritto e che
si trova nel Documento preparatorio del Sinodo viene
definito, curiosamente), prendendolo dal gergo aziendalistico, accountabìlity [pronuncia əˌkoun(t)əˈbilədē], vale a dire
l’assunzione di responsabilità per una decisione, in particolare con
riferimento alla regolarità della sua esecuzione e al suo risultato. Di
solito le persone laiche non si sentono responsabili di nulla, perché non
contano nulla e non possono decidere nulla, quindi, semplicemente, quando si
stancano di questa loro umiliante condizione, si allontanano e amen. In un
processo sinodale, si è invece ammessi a partecipare ad una deliberazione nella
misura in cui si accetta di assumersene la responsabilità e quindi di non
mollare l’opera a metà.
La condizione
delle persone laiche è stata molto bene riassunta dal teologa Simona Segoloni
Ruta, in Chiesa e sinodalità: indagine sulla struttura ecclesiale a
partire dal Vaticano II. Fondamenti teologici [in Convivium
Assisiense, 14/2 (2012), p.66. Ho trovato il brano citato in Ugo
Sartorio, Sinodalità: verso un nuovo stile di Chiesa (saggi), Ancora
2021]
[…] una
struttura verticistica più facilmente educa alcuni a comandare e molti ad
obbedire, educa pochi ad avere responsabilità e molti a sentirsi marginalmente
coinvolti, ma educa tutti a ignorare ciò che l’altro cerca di dire: infatti chi
ha responsabilità di governo decide e si carica della responsabilità senza
dover dialogare con nessuno - anche se questo non significa che nella
prassi chi ha responsabilità di governo nella Chiesa non cerchi un
dialogo autentico, ma dal punto di vista della struttura potrebbe non farlo -,
mentre la stragrande maggioranza, che non ha responsabilità di governo, subisce
ogni decisione, sapendo che non gli compete nemmeno di farsi domande in merito
e così non esprime ciò che pensa ma nemmeno ascolta ciò che gli viene proposto,
anzi spesso pensa di non esserne il destinatario.
Questa è la
condizione della maggior parte delle persone laiche nella Chiesa, al di fuori
delle associazioni o movimenti ecclesiali organizzati democraticamente nei
quali quindi si può effettivamente partecipare in tutto il processo
decisionale, personalmente o mediante propri rappresentanti o delegati.
Forzare i
processi decisionali, per aprire spazi partecipativi, può essere spiacevole,
perché il clero resiste a questi tentativi. La situazione del clero di base è
particolarmente angosciante perché si trova costretto tra la pressione
partecipativa, da un lato, e l’abbandono di massa per disaffezione, dall’altro,
dei propri fedeli e le disposizioni dei propri superiori gerarchici. Esso non
può aprire spazi di partecipazione, perché non ne ha la facoltà
burocratica.
Il processo
sinodale che si sta per aprire potrebbe modificare la situazione, se non si
risolverà solo nel rispondere a una specie di sondaggio, ma, promuovendo
incontri e dibattiti, stimolerà la sperimentazione sinodale, dandone facoltà lì
dove può avvenire senza tanti problemi, ad esempio in una realtà di prossimità
come la parrocchia.
In questa fase
bisognerà convincersi che non è possibile cambiare di colpo un’organizzazione millenaria
che si è incancrenita nei costumi gerarchici e nell’amministrazione spicciola
di un ingente patrimonio e di un numeroso personale dipendente, oltre ad
essere intrappolata nella sua complicata e presuntuosa teologia normativa che
costruisce problemi insolubili per poi dichiararli tali, perché tutto rimanga
com’è.
Quindi, nel
definire l’area della sinodalità in un processo che coinvolga le realtà di
prossimità, in via di sperimentazione, sarebbe bene delimitarla, per ora, alle
decisioni che coinvolgono direttamente e da vicino la vita comunitaria di
riferimento, evitando accuratamente di toccare l’inferno della dogmatica e il
chiacchiericcio a vuoto che spesso è il prevalente oggetto dell’interesse dei
media in materia religiosa (ad esempio preti sposati, venalità e corruzione
delle curie, procreazione e affini, matrimoni ecc.). Quindi si dovrebbe
tener presente essenzialmente l’area della pastorale, che
ho sopra definito, e poi le questioni su locali e arredi parrocchiali, sulle
risorse economiche della parrocchia, sulla divisione dei compiti nei servizi
comuni. Se, ad esempio, si deve fare un calendario delle
attività, esso, in un’ottica di sinodalità, dovrebbe essere partecipato in
tutte le fasi della sua progettazione e deliberazione. E, naturalmente, si
dovrebbe comprendere nella sinodalità anche l’area della riflessione e
tirocinio relativi alla sinodalità pratica, di prossimità, quindi
il Consiglio pastorale parrocchiale, da integrare con una
componente elettiva e da disciplinare con un nuovo regolamento più aggiornato,
che inglobi anche l’organizzazione della sinodalità, e l’Assemblea
parrocchiale, da tenere sistematicamente in varie sessioni e sezioni, in
modo da dare a tutti la possibiltà di partecipare, organismi nei quali imparare
a pensare e praticare la sinodalità.
Non dobbiamo presumere di sapere sulla sinodalità ecclesiale tutto
ciò che significa, proprio mentre gli studiosi ancora si interrogano
sull’argomento. Sul tema, in realtà, siamo tutti neofiti.
5.8. Formarsi
alla sinodalità
Il Sinodo che sta
per iniziare è stato convocato per sviluppare una sinodalità ecclesiale
come modo ordinario di vivere la fede, per tutti, e, per come è stato
pensato e organizzato, ne è esso stesso una sperimentazione, così come avvenuto
nei Sinodi sui giovani (ottobre 2018) e per la regione Pan-amazzonica (ottobre
2019), vale a dire quelli successivi alla riforma della struttura e della
celebrazione del Sinodo dei vescovi attuata nel settembre
2018 con la Costituzione apostolica La comunione episcopale.
Questa
volta l’attività di consultazione dei fedeli sarà particolarmente estesa e, se
non si limiterà a ritualismi e formalismi liturgici, consentirà alla
Chiesa, questa volta tutta convocata in sinodo, una penetrante
esperienza di sinodalità, che potrebbe lasciare traccia duratura e
significativa, anche in una realtà di prossimità come la nostra parrocchia. Ad
essa, però, occorre formarsi, perché, come risulta chiaro leggendo il
documento della Comissione teologica internazionale La
sinodalità nella vita e missione della Chiesa, pubblicato nel marzo
2018, all’esito di tre anni di lavori,
non la
si è mai vissuta prima nella nostra Chiesa, a differenza di quanto
avvenuto in altre Chiese cristiane.
I teologi
cattolici che da qualche anno si stanno occupando del tema di solito cominciano
a precisare ciò che la sinodalità non è. Questo è il metodo da loro
seguito in genere anche quando affrontano il tema della libertà. E, in
particolare, ci tengono a distinguere sinodalità e democraticità dimostrando
incerta acculturazione a quest’ultima, per come oggi la si intende in Europa,
la nostra società di riferimento. In particolare, non tengono conto che non si
tratta solo di un metodo per prendere decisioni
collettive, ma che implica molti grandi valori e, innanzi tutto, quello della
dignità della persona umana. Ed è proprio da quest’ultimo che, sviluppando idee
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), si è cominciato a ragionare di sinodalità.
L’impulso è stato dato da papa Francesco. L’originalità della sua impostazione
è appunto quella di presentarla come condizione ordinaria della vita nella
Chiesa, non solo come qualcosa che si sviluppa occasionalmente tra vescovi,
quando si trovano per decidere insieme nell’istituzione collegiale detta appunto Sinodo
dei vescovi. La riforma di quest’ultima, da lui attuata nel 2018, ha
come cardini una certa partecipazione al magistero del
papa e una estesa consultazione del popolo di
Dio nella fase preparatoria. Ha così indicato la via per una più
generale riforma del modo di esercitare l’autorità ecclesiale.
Si è sinodali innanzi
tutto riunendosi, perché sinodalità significa operare
insieme.
A questo
punto di solito si parla di comunione. Bisogna sapere, però, che
nella storia dell’attuazione dei principi del Concilio Vaticano 2° si è messa
di mezzo la comunione per ostacolare vere esperienze sinodali.
In un
sistema in cui ad alcuni soli spetta di deliberare e a tutti gli altri solo di
obbedire, comunione significa mettersi insieme per decidere di obbedire con
tutto il cuore a ciò che è stato deliberato, silenziando ogni
obiezione. Si pensa anche che sia lo Spirito a condurre a qualcosa di simile.
Come è stato osservato, secondo quest’ordine di idee chi delibera non ascolta
veramente gli altri, ma anche chi obbedisce non ascolta, se non per sapere che
deve fare. La formazione all’obbedienza, così, è tendenzialmente incolta,
perché ai più sapere non serve. Basta essere in grado di capire gli ordini
ricevuti.
Un potente
apparato teologico è pronto per condurre su quella via. Una
volta che la si sia imboccata, nulla cambierà. Perché la situazione rimarrà
esattamente quella in cui ci troviamo e che, a detta dei più, non è una bella
situazione.
Se non si ha tutti
la possibilità di essere ascoltati e di influire in qualche modo sul risultato,
allora in questo non c’è pari dignità, nonostante tutte il chiacchiericcio
teologico che ci si fa sopra.
Ma allora tutto
finisce in un negoziato? Penso sia un po’ la situazione attuale dei
consessi degli autocrati, anche se ammantata di spiritualità e coperta da
quello che è stato definito un muro d’incenso. Ritengo sia per
questo, per nascondere un negoziato di cui ci si vergogna, che, in particolare,
i cardinali che partecipano al Conclave sono tenuti all’assoluto segreto su
quello che si è detto e fatto in quel consesso.
Certamente,
quando si dialoga per deliberare, un negoziato è inevitabile: non ci si illuda
di poter raggiungere l’unanimità con fascinazioni spirituali. Ma non è detto
che questi discorsi debbano essere condotti con spirito condominiale.
In particolare non è questo che accade nei parlamenti, o almeno non
dovrebbe accadere se sono veramente tali. Nella Chiesa come nello stato sono
coinvolti valori che sovrastano l’interesse spicciolo di ciascuno, in
particolare quello relativo alla fetta della torta sperata.
Si pensa
che, se tutti fossero ammessi a dire la propria, allora la verità, vale
a dire la tradizione teologica normativa, sarebbe in pericolo e che solo
l’autocrazia la preservi. L’esperienza storica non conforta in questa idea, che
è più che altro un pregiudizio. Perché non è assolutamente detto che, anche in
una Chiesa sinodale come nelle democrazie avanzate, i principi supremi possano
rimanere nelle mani di maggioranze estemporanee e che in merito non possa
essere esercitato un magistero autorevole per porle al riparo da questo. Quei
principi si sono storicamente dimostrati in pericolo quando sono finiti nel
potere di una sola persona o di ristrette oligarchie, cosa che le regole della
democrazia cercano accuratamente di evitare, e anche in un sistema sinodale
dovrebbe essere prevenuto. Un magistero simile a quello della nostra gerarchia
ecclesiale è poi esercitato, nelle democrazie civili, dalle Corti
Costituzionali, dagli altri magistrati e da diverse altre autorità
indipendenti. Questo appunto perché la democrazia è venuta a inglobare un
sempre più un esteso sistema valoriale che non è mai lasciato alla mercé delle
folle.
E poi
democrazia non è solo dire la propria, ma articolare argomentazione
ragionevoli.
Quando si
vuole continuare a tenere il popolo fuori delle decisioni ecclesiali è perché
lo si diffama ritenendolo incapace di questo. Era lo stesso pregiudizio
antidemocratico degli autocrati civili di un tempo e anche la ragione di una
certa diffidenza degli antichi filosofi greci, i primi maestri di teoria
politica, verso la democrazia come allora la si intendeva.
Una prima
tappa della formazione all’ecclesialità può essere pensata proprio come
tirocinio al discorso ragionevole in assemblee di prossimità. Ognuno si deve
spiegare, non fare l’invasato o fare violenza.
Bisogna dire
che sulle persone laiche in genere si riversano molti effetti speciali
religiosi, il prodigioso, il miracolante, lo stupefacente, e questo
purtroppo è stato storicamente un modo di tenerle a bada da parte della
gerarchia, aiutandosi con il sacro numinoso. Questo non ha aiutato nello
sviluppo della ragionevolezza. L’Azione Cattolica e altre istituzioni analoghe
hanno faticato molto per conquistare ai cattolici una credibilità in società.
Quindi poi,
con quelle premesse, quando si è provato a inscenare la sinodalità,
essa, come è stato osservato era spesso più affettiva che effettiva. E
dalla parte degli autocrati si è accettato, talvolta, il dialogo,
solo quando sembrava che non si potesse fare altro, non con convinzione.
In Europa le
persone laiche si sono abituate invece ad essere protagoniste in società e a
ragionare, prendendo in esame anche le questioni centrali, più importanti. Poi
entrano in chiesa e sono ridotte a nulla: tutto passa sulle loro teste, e non
parliamo dei dogmi, quindi della cosiddetta verità, ma di cose
minime, come la posizione delle statue dei santi in chiesa.
Leggo in Ugo
Sartorio, Sinodalità, Ancora 2021,
[…] I laici,
praticamente «l’immensa maggioranza del popolo di Dio»[citazione
dall’esortazione apostolica La gioia del vangelo, 102] come ci
ricorda papa Francesco, una maggioranza rimasta per secoli silenziosa e per
molti motivi inascoltata, non certo inoperosa. Se è vero che in gran parte la historia
laicorum [=la storia delle persone laiche] è in gran parte
una historia dolorum [=storia di dolori], per il fatto che il
loro sembra un protagonismo che sul piano della storia è di volta in volta
rimandato (è scoccata l’ora dei laici, si dice, ma poi non succede
molto), bisogna chiarire che la questione posta dalla sinodalità non riguarda
propriamente la presa di parola di categoria di categorie fino ad ora
trascurate, bensì, più in profondità, il fatto che a tutti è richiesto innanzi
tutto di ascoltare. La sinodalità, detta in questa prospettiva e in una sola
frase, non è tutti parlano, ma piuttosto tutti devono prima ascoltare.
Il
clero, e ancor più i vescovi che la maggior parte delle persone laiche
incontrano molto raramente e assai superficialmente, non ascolta se non i
propri superiori, quando proprio non può farne a meno. Nella nostra Chiesa mi
pare che nessuno ascolti nessuno, quando se lo può risparmiare.
Quindi un Sinodo
come quello che si sta per aprire, che prevede una fase di ampia consultazione
della gente di fede, può essere un bel progresso su un via diversa. Purché non
scada nel rito, nella pura liturgia, in cui al fedeli laici chiamati a parlare dal
palco viene messo in mano il classico foglietto ed essi devono
limitarsi a interpretare la loro parte, e così li si abbia per consultati.
L’esito
della fase del discernimento, vale a dire di preparazione
della decisione su un certo tema, non può solo essere quello di
decidere di fare come dice un autocrate, punto e basta. Non c’è nessuna dignità
in questo e nessuna sinodalità.
Ma, si dice,
non è che così si finirà per litigare? Può accadere. Accade anche
nei sindodi dei gerarchi, per quello che ne esce fuori. Alcuni furono piuttosto
accesi, si racconta. Ecco, però, la sinodalità significa rimanere
pervicacemente insieme nonostate le diversità di vedute e anche le liti,
perché il rimanere insieme è un valore più importante
dell’ottenere ragione a tutti i costi in una certa occasione. E’ opera dello
Spirito, c’entra il soprannaturale? Non sono un teologo e non mi azzardo per
quella via. L’esperienza del lavoro in assemblea insegna comunque che c’è più
soddisfazione a rimanere insieme e a riuscire a organizzare qualcosa insieme,
non ciascuno per sé, a costo di rinunciare a qualcosa dei propri progetti. E si
è anche molto più efficaci.
Alla
scoperta della sinodalità si procede per piccoli passi, per gradi, dalle
piccole cose, ad esempio affrontando le decisione ordinarie di una
parrocchia, rispettando la capacità di assimilazione di chi rimane
indietro.
Scrive ancora
Sartorio, nel tsto che ho citato:
Per quanto
riguarda il camminio verso una Chiesa sinodale, sono ancora numerosi gli
ostacoli da superare, e vengono soprattutto da una ripetizione irriflessa di
modelli clericali di un certo passato, sia da parte dei chierici
che, specularmente, dei laici. La piramide rovesciata, vale a dire una Chiesa
che è prima di tutto il popolo di Dio, ha bisogno di realizzazioni concrete,
come un modo nuovo di vivere i sinodi, da quello diocesano, ma anche di fare
pastorale e quindi di guidare le comunità parrocchiale e di vivere in esse
l’autentica fraternità cristiana.
Penso
che, nella fase sinodale, che si sta per aprire, il Consiglio pastorale
parrocchiale, che sarà chiamato a rispondere alla dieci
domande poste a base della consultazione popolare sinodale, potrebbe
utilimente aprire una fase di consultazione analoga tra i fedeli della
parrocchia, che potrebbe essere anche occasione formativa. Del nostro Consiglio
pastorale parrocchiale sappiamo poco, se non che c’è. Fu concepito
come organismo partecipativo, che andrebbe rivitalizzato in quel senso. Perdere
un’occasione come quella della fase sinodale che si sta aprendo sarebbe
veramente avvilente.
Certo, so
che non tutti in parrocchia condividono questa proposta di sinodalità che ci
viene ora dall’alto e, tutto sommato, alcuni preferirebbero continuare a fare
di testa propria, secondo come s’è sempre fatto, e magari pensano, così
facendo, di essere più spirituali. Lo Spirito va dove vuole, si dice, e, come
il vento non sai da dove viene né dove va, ma, essendo invisibile, intangibile,
non verificabile, appunto spirito, c’è chi lo tira da una parte e
chi dall’altra e, quindi, tutto il parlare di Spirito che fanno i
teologi non mi coinvolge molto; del resto non sono un teologo. Lo stesso
dicasi del sensus fidei [il senso per la fede giusta, la verità],
quella capacità di intuire la verità che il popolo
avrebbe, al di là di qualsiasi ragionamento di cui si sia capaci, e che io
certamente non sento in me e non vedo particolarmente evidente negli altri. Ma,
lo ripeto, non sono un teologo. I teologi, leggo, la vedono
diversamente. Penso però che poter vivere la fede in maniera meno
umiliante di ora sarebbe bello per noi persone laiche. Ma per riuscirci
bisognerebbe però andare oltre la propria interiorità e l’ambito delle consuete
frequentazioni, per fare Chiesa aprendosi, non solo da
semplici spettatori o, al più, di comparse, ciascuna con il proprio foglietto in
mano da leggere, ma cercando di sviluppare discorsi ragionevoli da porre alla
base del dialogo con le altre persone. Occorre certamente sapere un po
di più di ora. Facciamo un bel parlare di sinodalità, ma
se tra noi e i nostri preti rimangono dislivelli abissali di conoscenze, come
ora, tutto può riuscire vano. Ripongo molte speranze nei giovani, che sono tra
le generazioni di quell’età più acculturate di tutti i tempi, per il lungo
corso di studi che seguono. Possono essere importanti agenti di diffusione
della formazione.
6. Sinodalità ed
ecologia
La
sinodalità è pensata come un modo di vivere insieme la fede diverso da ora, sia
nell’esercizio dell’autorità, che si vorrebbe più partecipata sia
nell’assunzione di responsabilità, nella quale si vorrebbe coinvolgere le
persone laiche. Questo essenzialmente perché, dal punto di vista di chi comanda
ora, i sistemi democratici hanno affrancato la gente dal dominio della
gerarchia, per cui si conforma ai precetti da quest'ultima formulati nella
misura in cui li ritiene giusti e se non obbedisce non subisce conseguenze
gravi. E questa è già una forma di partecipazione alle decisioni comuni. Però
senza responsabilità: infatti la Chiesa, come società, sta progressivamente
svanendo senza che le persone laiche, la grande maggioranza della gente di
fede, se ne dia eccessiva pena. Ma messa così, sarebbe troppo poco per indurre
un cambiamento. Quindi questo discorso è stato collegato all’ecologia politica.
L’ecologia,
una scienza, studia i viventi nell’interazione con i loro ambienti. Cerca in
questo, come ogni scienza, di avere una visione realistica, affidabile. L’ecologia
politica è invece un’ideologia che si è sviluppata nella seconda metà del
Novecento e si base sul presupposto che nelle società umane si possa fare
qualcosa per costruire ambienti più favorevoli alla
vita, e in particolare a quella umana, e che ciò comporti anche di regolare le
attività umane che incidono sulla natura intorno a noi. Questa idea si basa sul
presupposto che gli esseri umani possano realmente incidere sull’ecologia
ambientale, non solo sulle loro società. Questa convinzione ha preso piede
soprattutto dopo che, con l’impiego dell’arma atomica, nel 1945, ci si è resi
conto che l’energia nucleare maneggiata dagli umani era effettivamente in grado
di distruggere e rendere inabitabili gli ecosistemi in cui le società umane
sono integrate. Successivamente, dagli anni ’60 del Novecento, si è acquisita
consapevolezza dell’importante incidenza delle attività industriali su quegli
ecosistemi.
In
religione si cerca di integrare questi pensieri sull’ecologia con la dottrina
formulata su base scritturistica. Si pensa, così, che la natura, quindi diremmo
oggi anche gli ecosistemi, sia stata voluta buona e che si sia corrotta per il
peccato dell’uomo. Questa visione, dal punto di vista ecologico-scientifico, è
irrealistica e quindi assai problematica nella costruzione sociale.
Fino ad epoca recente le società umane non sono state veramente in grado di
influire sulla natura; potevano guastare o migliorare solo le relazioni sociali
tra gli umani. Innanzi tutto fino alla metà del Novecento l’umanità era molto
meno numerosa di oggi e poi la potenza industriale, che fino ad oggi si è
basata sullo sfruttamento di risorse naturali non rinnovabili, era molto
minore.
L’idea di
una natura buona è tutta umana. L’equilibrio naturale
studiato dall’ecologia come scienza è fondato sulla violenza ed è precario: il
fatto che tutti mangino tutti, nelle catene alimentari, realizza un’economia di
risorse. Di questa realtà si prese coscienza nel corso dell’Ottocento ed essa
fu sconvolgente. Per altri versi ci fu chi pensò di accettarla come norma
sociale e i fascismi dello scorso secolo furono i movimenti politici che più
marcatamente inglobarono questa idea.
Cambiando
modi di organizzazione sociale per ridurre la pressione umana sui sistemi
ecologici, probabilmente potremo sostenere più a lungo un’umanità che
rapidamente si sta facendo più numerosa, anche se i tassi di crescita della
popolazione sembrano diminuire in certe parti del mondo. Altrimenti,
probabilmente, abitare il pianeta sarà progressivamente più penoso anche
perché, come in natura, si ricorrerà alla violenza per sopravvivere in ambienti
fattisi ostili. Cambiare modi di vivere è divenuto quindi una esigenza
ecologica, non più solo etica. Questa esigenza di cambiamento è posta in
relazione, ora, in religione, con quella che riguarda la Chiesa, e che è basata
essenzialmente su altri problemi. Ciò che le accomuna è però l’idea che si
debba fare qualcosa per rendere più accogliente l’ambiente in cui si vive,
perché ci dobbiamo vivere sempre più numerosi e questo comporta che non
possiamo farlo seguendo gli antichi costumi di prevaricazione e violenza,
sull’ambiente e sulle persone. Essi sono fondati sullo spreco, di
risorse, e anche di persone. Mettere ai margini una persona significa
sprecarla.
Su queste concezioni
c’è però ancora molto da riflettere per raccordare meglio ecologia politica e
sinodalità, come viene proposto.
7. Una stagione
importante
Se
nella vita ecclesiale il primato spetta all’evangelizzazione, non si potrà
essere in prima linea con questa prospettiva fino a quando i laici non saranno
nella Chiesa veri protagonisti ai quali è data la parola, è
riconosciuta competenza nelle cose mondane così come in quelle ecclesiali e
quindi soggettualità nella missione in prima persona e non per delega. Dobbiamo
ammettere che negli anni ’80 e ’90, per timore che non fosse rispettata
l’ortodossia, si sono perse delle buone occasioni di coinvolgimento e di
crescita della base laicale, per cui gli appelli che oggi si levano a favore di
una piena assunzione di responsabilità da parte dei laici nella Chiesa sono
spesso rivolti a gruppi di cristiani sempre più esigui e incanutiti. Gli operai
hanno abbandonato la Chiesa, si diceva negli anni ’60, poi però è stata la
volta dei giovani e da qualche tempo anche le donne sembrano segnare il passo,
per una crisi di dissonanza, per la fatica di sentirsi a casa in comunità
spesso clericocentriche e perciò asfittiche. Impossibile, in ogni caso,
immaginare una Chiesa sinodale senza quella trama di carismi laicali che rendono
viva la comunità cristiana e la mantengono in osmosi con il mondo.
[da Ugo Sartorio, Sinodalità, verso
un nuovo stile di Chiesa, Àncora 2021]
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Domani
inizierà una stagione importante della nostra vita nella Chiesa, nonostante un
certo latente autoritarismo clericale che tenterà, e probabilmente riuscirà, ad
egemonizzarla. La normativa ecclesiastica, mediante la quale a lungo si sono utilizzati teologia e diritto canonico
per respingere e tenere ai margini la gran parte della gente di fede, non
aiuterà. L’esame di quella obsoleta e irritante letteratura facilmente può far
perdere d’animo anche i più i volenterosi. Il rischio che tutto si risolva nell’inscenare
delle liturgie è molto alto. E, nondimeno, questa volta vale veramente la pena
di impegnarsi.
La
nostra gerarchia si illude di avere il monopolio delle definizioni della fede.
In Italia, dove purtroppo dall’Ottocento la teologia è insegnata praticamente
solo nelle università ecclesiastiche, la cultura del ramo coopera nel
confermarli in quella fantasiosa convinzione. Mettere esplicitamente in dubbio
l’effettività dell’autocrazia episcopale in quella materia può costare il
lavoro, con il conseguente sconvolgimento di vita, per un teologo
professionista. Ad esempio se si cerca di affrancarsi dalla consueta e incolta
diffamazione clericale della democrazia come nel mondo di oggi, nell’Occidente
avanzato, in Europa, la si concepisce e vive. In particolare, sostenere,
contrariamente all’evidenza, che la democrazia è espressione di individualismo è
una cosa sciocca, e anche inutile: ogni processo politico è sempre collettivo e
se, come quello democratico, mira ad includere il più possibile, non può mai
essere individualista, perché nasce proprio per far superare alla persona la prigione
del proprio io. L’immagine della democrazia che a volte mi pare circolare tra i
nostri vescovi e i loro teologi di riferimento è quella dell’assemblea
condominiale e ad essa assimilano i parlamenti, fondamento invece della dignità
democratica che ancora nella nostra Chiesa è di là da venire, nonostante tutto
il chiacchierare a vuoto di dignità del credente. Che
dignità c’è nel non contare nulla, nel sapere che sempre si
può fare a meno di noi? E che, anche ammessi talvolta in alcune delle sedi di
discussione a cui la gerarchia sulla carta si impegna a far riferimento,
bastano due righe di un vescovo o di un parroco loro per cacciarci fuori senza
tanti complimenti? La lettura di due documenti importanti, perché vorrebbero
insegnare ai vescovi a fare il loro mestiere, l’Istruzione sui sinodi
diocesani (1997) https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cbishops/documents/rc_con_cbishops_doc_20041118_diocesan-synods-1997_it.html (1997)
e il Direttorio sul ministero pastorale dei vescovi Successori degli
apostoli – Apostolorum successores https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cbishops/documents/rc_con_cbishops_doc_20040222_apostolorum-successores_it.html (2004),
congegnati durante quello che ormai tanti definiscono un lungo inverno
ecclesiale, è veramente demoralizzante sotto quel profilo.
La realtà è,
tuttavia, che da metà Ottocento la gerarchia, tutta, sta andando a
rimorchio di noi persone laiche, anche se in certi periodi tirarcela dietro è
stato particolarmente difficile. I nuovi principi che i saggi del Concilio
Vaticano 2° credettero di aver trovato nella loro teologia e nel deposito di
fede loro affidato, in primo luogo quello della dignità del
credente, glieli abbiamo insegnati noi persone laiche. Lo stesso dicasi, oggi,
dell’ecologia politica. In religione si è usata la teologia per ammantarli di
sacro in modo da renderli assimilabili a capi religiosi che solo la teologia
intendono e solo della teologia si fidano, perché storicamente l’hanno
sfruttata per legittimare la propria autocrazia, ma, come dicono espressamente
e giustamente i reazionari, la loro origine non è teologica.
Dobbiamo
intenderci: al centro del Sinodo sulla sinodalità, dietro e dentro
il quale si annida poco evidente (per ora) anche il Sinodo della Chiesa
italiana, cruciale anche per la Chiesa universale perché dentro la
Chiesa italiana c’è il Papa quale vescovo di Roma, non ci sono tanto questioni
di potere con la gerarchia, ma il rapporto con il mondo di oggi, le vie di
evangelizzazione e, quindi, c’è molto di più. L’obsoleto
sistema clericale di potere autocratico non funziona più, è un ostacolo molto
serio sulla via dell’evangelizzazione, non è un dono, come si suole
scrivere nella fantasiosa letteratura di genere, ma un peso grave e,
nella sua capacità di emarginare, la causa di sprechi di
preziose potenzialità. Da solo, però, non riesce a cambiare, ecco perché, per
salvare ciò che di sé è ancora utile, deve aprirsi e ascoltare.
L’ascolto che si è programmato di fare nella fase preparatoria del
Sinodo è quindi molto importante, proprio nella decisione di ascoltare.
Noi persone laiche, però, dobbiamo farci animo, superare una certa comoda
ignavia, e parlare.
Quindi,
bene, nelle liturgie sinodali che si terranno staremo ancora al nostro
posto con il foglietto in mano a leggere quello che ci viene
detto e consentito di leggere, ma nelle sessioni di ascolto sinodale cerchiamo
di parlare chiaro, con parrèsia, cerchiamo di dare un’immagine
realistica della società in cui si deve operare e di ciò che occorre
fare.
Purtroppo, a
differenza di ciò che sta avvenendo nel Sinodo della Chiesa tedesca, la
democraticità dell’evento sarà assai scarsa e quindi gli spazi di parola non
sono aperti di principio, ma andranno conquistati e, alla fine, sarà comunque
gente del clero a decidere tutto. Se ne parla come di comunione,
che consisterebbe nel fatto che uno solo vale milioni di noi, per
diritto divino, e che si parla, si parla, ma solo per farsi ascoltare da uno
solo, che poi, per un qualche prodigio spirituale, riuscirebbe
a superare le limitazioni fisiologiche e psicologiche individuali che
condizionano moltissimo il decidere umano, come ci insegnano gli scienziati
cognitivi, e trovare la via giusta, ciò che in nessun altro
campo riesce agli umani. Dobbiamo trovare la forza di dire
che questa è una favola e per di più una favola che ha
fatto tanto soffrire. Solo dalla reale cooperazione degli intelletti può
uscire la migliore soluzione in un certo tempo, sempre però
soggetta a revisione, perché i tempi e le società sempre sorprendono e
richiedono aggiustamenti. Sinodo non può voler dire solo
riunirsi intorno ad un autocrate, discutere al suo
cospetto, come si faceva con gli antichi imperatori romani cristianizzati
che insegnarono la pompa e la sovranità alla gerarchia, e poi attendere il suo
responso e ad esso fare liturgicamente festa liturgica. Così, come
è stato osservato, condotti secondo quei principi i sinodi dal Terzo secolo al
Concilio Vaticano 2° furono assai poco sinodali, nel
senso che oggi diamo a questa parola. E realmente la sinodalità a
cui oggi si far riferimento per discuterne nel Sinodo 2021-2013 [>2025 per
la Chiesa italiana] è qualcosa di nuovo, di mai visto e sperimentato. Non
c’è vera sinodalità senza possibilità di reale partecipazione,
senza riconoscere dignità ai partecipanti al processo, senza vietare che
possano essere esclusi a discrezione di un capo con un tratto di penna o due
parole, senza una loro qualche effettiva compartecipazione nella decisione.
Non è facile
avere vere relazioni con il clero, a qualsiasi livello, perché, se non può
dirigere, comincia a inquietarsi e a lanciare anatemi. Così, in genere, per
quieto vivere si tralascia quello che sarebbe un nostro dovere religioso,
quello di partecipare realmente. E questo, in particolare, dove, a dispetto di
processi di apertura al vertice, nulla del genere sia organizzato nella base,
nelle nostre realtà di prossimità. In quante parrocchie arriverà l’eco di un
Sinodo che, come quello che si aprirà domani, vorrebbe addirittura fare
della sinodalità un modo ordinario di vivere la fede?
Un gruppo
parrocchiale di Azione Cattolica come il nostro in questi frangenti ha
ora l’occasione di fare ciò per cui è stato istituito. La sinodalità è
uno sviluppo del Concilio Vaticano 2° e dagli anni Sessanta l’attuazione dei
principio conciliari è uno dei principali campi di impegno della nostra
associazione.