INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

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sabato 9 ottobre 2021

Note sulla sinodalità, in occasione dell’inizio dei Sinodi generale e italiano 2021, per il gruppo parrocchiale di Azione Cattolica in San Clemente papa – in Roma, Monte Sacro Valli - 9 ottobre 2021

 

Note sulla sinodalità, in occasione dell’inizio dei Sinodi generale e italiano 2021,  per il gruppo parrocchiale di Azione Cattolica in San Clemente papa – in Roma, Monte Sacro Valli

9 ottobre 2021

 

a cura di Mario Ardigò, associato del gruppo


Il logo del Sinodo


 

Avvertenza: l’autore non è un teologo, e non ha il minimo interesse a diventarlo,  ma cerca solo di sforzarsi di essere una persona colta e di capire i problemi che si pongono; non ha né vuole avere alcun mandato associativo o  ecclesiale. Scrive sotto la sua esclusiva personale responsabilità. Accetta ogni critica da chi ne sa di più. Chi voglia farne, gli scriva a mario.ardigo@acsanclemente.net

Tutti i testi inseriti di seguito, sono comparsi sul blog http://acvivearomavalli.blogspot.com/ , anche se in questa raccolta sono stati adattati tenendo conto degli scopi della pubblicazione.

  

 

il sito del Sinodo generale 2021-2023

https://www.synod.va/it.htm

 

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0.  Introduzione

Oggi, sabato 9 ottobre 2021, dalle 9,  a Roma, nella Sala nuova del Sinodo,  con una solenne celebrazione di Intronizzazione e Proclamazione della Parola di Dio  e momenti di riflessione verrà dato inizio al Cammino sinodale  della Chiesa universale, tutta convocata sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”.  il 17 ottobre tutte le diocesi del mondo daranno inizio al Cammino sinodale  in sede locale. Per la Chiesa italiana inizierà anche un suo proprio Cammino  per un Sinodo nazionale sul tema “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale”.   I Cammini  si concluderanno nell’ottobre 2023, per il Sinodo generale, con l’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, e nell’ottobre 2025, quello italiano, con l’Assemblea dei Sinodo dei vescovi d’Italia. Queste assemblee di vescovi saranno precedute da una lunga fase preparatoria, che costituisce, appunto i Cammini.  I due Cammini saranno in parte concomitanti e si cerchererà di armonizzarli. Quello per il Sinodo generale prevede una fase di consultazione dei fedeli  all’interno delle diocesi, che si concluderà nel marzo 2022.   Anche per l’altro è programmata una fase di  Coinvolgimento del popolo di Dio con momenti di ascolto, ricerca e proposta nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle realtà ecclesiali”, alla quale sarà dedicato l’anno 2022.

 I due Sinodi contengono una proposta epocale, qualcosa che non si è mai vissuto nella storia della nostra Chiesa con l’estensione che si vorrebbe realizzare, in particolare tra le persone laiche. Un modo di vivere la fede sinodale, partecipativo, basato sul discernimento comunitario per affrontare i problemi dei tempi.

 Da qualche tempo sto leggendo e riflettendo per capire meglio di che si tratta. Ne ho riferito sul blog  del nostro gruppo parrocchiale di AC AC VIVE A ROMA VALLI http://acvivearomavalli.blogspot.com/ . Raccolgo qui di seguito, in un unico documento, quei testi, pensando di farvi cosa utile. Li ho rivisti sfrondandoli di un certo impeto polemico che talvolta li attraversava e che mi deriva dall’aver vissuto a lungo una storia difficile della nostra Chiesa, ma che ora è controproducente e inutile in questa raccolta. Voglio dare credito alla nostra Chiesa, in questa straordinaria epoca in cui vuole farsi totalmente sinodale.

  Potete trovare ulteriori notizie sul Cammino sinodale italiano su

https://www.ceinews.it/wp-content/uploads/2021/06/CartadIntenti_Assemblea.pdf

 

  Il Cammino è programmato come una procedura fatta di incontri per riflettere insieme che nelle fasi preparatorie è rivolta all’alto, ai vescovi che si riuniranno nelle loro Assemblee sinodali e che poi dall’alto ridiscenderà verso di noi fedeli, nella fase attuativa. Le fasi preparatorie sono già  Chiesa sinodale: tutti dovremmo sentirci impegnati a costruirla per rispondere sempre più pienamente alla nostra comune vocazione di fede. Ma questo è un impegno a cui più fortemente siamo chiamati noi dell’Azione Cattolica: infatti l’idea di Chiesa tutta sinodale  nasce dai principi deliberati durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e la loro attuazione a tutti i livelli è uno dei principali campi di lavoro della nostra associazione.

 

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1.  La sinodalità come vita cristiana

 

   Una nuova impostazione nel modo di considerare il valore dei laici arrivò con il concilio Vaticano 2º (1962-1965). Il concilio fu annunziato da Giovanni 23º senza che il Papa indicasse le tematiche che dovevano essere trattate. Furono, invece, i vescovi ad essere interrogati per sapere quali problemi ritenessero più importanti per un rinnovamento pastorale della chiesa. Le risposte dei vescovi andarono a toccare le questioni più diverse. I vescovi tedeschi complessivamente seguirono da vicino il votum molto elaborato del cardinal Döpfner, allora vescovo di Berlino, presentato nel novembre del 1959. Döpfner propose che compito del concilio fosse «annunciare davanti a tutto il mondo la dignità dell’essere umano», presentare «una specie di “carta” dei diritti umani». I fedeli sono membri della chiesa ai quali Dio dona la sua grazia, per questo i laici non dovrebbero esser considerati a partire dai chierici, ma positivamente a partire dal battesimo e dalla cresima. All’accenno messo sulla struttura gerarchica deve seguire ora il riconoscimento della chiesa come popolo santo di Dio, il quale, in base alla sua natura di «sacramento primordiale» deve svolgere una «funzione sacerdotale» nei confronti del mondo».

 

[da Peter NEUNER, Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016]

 

  Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in Europa Occidentale, era molto vivo tra le persone laiche lo scandalo della loro emarginazione nella Chiesa cattolica, mentre, al contrario, il loro ruolo nelle nuove democrazie costruite nel secondo dopoguerra e nelle altre Chiese cristiane era diventato sempre più importante, anche nel campo etico, tanto che poi sfociò nell’edificazione dell’unità continentale, sul fondamento dei diritti universali dell’uomo.

  Ai tempi nostri la situazione, almeno in Europa occidentale, è molto diversa, per vari motivi. In tutto il mondo si assiste ad una ripresa del fenomeno religioso e ad una sensibile desecolarizzazione delle concezioni comuni in società. Specchio di quest’ultimo fenomeno, avvertibile ormai in tutto il mondo, può essere considerato l’ampio spazio che, in Italia,  quotidiani che furono storicamente fortemente anticlericali riservano oggi  ai detti e agli scritti di Papa e vescovi. Due giorni fa era l’anniversario della presa di Roma da parte dell’esercito italiano, con l’abbattimento dello Stato Pontificio e il completamento dell’unità nazionale, occasione in cui tradizionalmente si rinfocolavano le polemiche anticlericali, e su media non se ne è praticamente trattato. Ma è significativo anche l’accento che si dà ai diritti civili fondamentali, quindi non condizionati dai rapporti di forza o sociali del momento, e, in questo senso, non negoziabili. Questo clima culturale  è favorevole alla proposta di una sinodalità come espressione comune della vita cristiana che ci è venuta. Molto condivisibilmente si è però posto il tema dell’agente collettivo in grado di sorreggere in società questo programma di riforma. Infatti, proprio per le caratteristiche dei tempi, il clero non può bastare. Esso, di fronte ai temi della fede, non appare più distinto dalle persone laiche: ha gli stessi problemi, le stesse ansie, ma anche gli stessi aneliti. Parlo, naturalmente, cercando di sintetizzare una linea di tendenza, ma so che nel clero e tra le persone laiche ci sono anche quelli che vivono la fede come negli anni Cinquanta, e non mi interessa criticarli né pretendere che cambino. Accetto pienamente il pluralismo, anche se ovviamente contrasto vivamente quelli che del passato vorrebbero mantenere o per meglio dire riesumare il totalitarismo religioso, e quindi coartarmi.

  Non è più tanto questione di bilanciamento di poteri tra clero e laici (i religiosi si sono via via clericalizzati, come storicamente in precedenza il clero aveva assunto costumi dei religiosi), ma più in generale  di come essere cristiani nella società in cui viviamo.

  La questione va contestualizzata nell’Europa occidentale di oggi, perché altrove i problemi sono diversi, e anche molto diversi. Certamente nel Sinodo universale che è stato convocato, che non riguarda solo i vescovi del mondo ma tutte le persone che si riconoscono nell’espressione popolo di Dio, difficilmente si troverà un modo solo per dare concretezza alla sinodalitá. Ad esempio, nelle Chiese africane mi pare ancora sensibile la sacralizzazione del potere gerarchico.

  Döpfner, nel ’59, scriveva di battezzati cresimati come connotazione essenziale dei membri del Popolo di Dio, ma, se affrontiamo con spirito pratico il tema della sinodalitá come espressione comunitaria della vita cristiana, quello potrebbe non bastare. Bisognerebbe prendere in considerazione il caso, che in una persona chiamata alla sinodalitá, pur battezzata e cresimata, manchi il consenso ad essa. A questa persona potrebbero bastare la partecipazione alla vita liturgica animata da clero e religiosi, le tradizionali opere di carità e di misericordia, e un’accettazione di principio dei doveri etici fondamentali.

  Il problema ha aspetti pratici di non poco conto, che si sono posti ad esempio nelle parrocchie che hanno sperimentato la convocazione di propri sinodi. Quando ci si aggrega bisogna stabilire criteri di riconoscimento e di attribuzione di facoltà e poteri. Altrimenti diventa impossibile procedere ordinatamente e questo anche nelle realtà di base, come le parrocchie. Insomma, procedendo nella sinodalitá diffusa, che significa co-decisione e co-responsabilità  occorre acquisire il consenso e e l’impegno delle persone coinvolte.

  Se si volesse iniziare un processo sinodale in una parrocchia come la nostra, ci dovremmo confrontare con i circa 1000 – 1500 praticanti abituali, tra giovani, adulti e anziani, per circa il 70% ultracinquantenni, con la necessità, per poter lavorare utilmente, e anzitutto per potersi riunire, di suddividerli in una decina di assemblee minori, e di progettare un programma complesso di formazione, conoscenza e poi istituzioni di co-decisione. Che accadrebbe se, al dunque, in una fase avanzata di aggregazione si presentasse a partecipare tanta più gente? D’altra parte, con criteri troppo restrittivi, si finirebbe per creare i problemi che hanno avuto i gruppi con disciplina settaria, che riservano quello che intendiamo ora per sinodalità a cerchie ristrette di iniziati.

  Fermo restando che l’accesso alla pastorale (liturgie, sacramenti, formazione) deve essere universale, non si può procedere sulla via della vera sinodalitá senza strutturare  percorsi che consentano di ottenere e di riconoscere il consenso di chi è coinvolto, in modo che quest’ultimo abbia per noi un volto. Per non continuare a rimanere sostanzialmente estranei gli uni agli altri pur andando insieme in chiesa.

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2.  Capire di che si tratta

 

[…] nella teologia cattolica si era affermata una visione che accentuava prima di tutto la visibilità della chiesa, la forma esteriore della sua organizzazione, e che nello stesso tempo metteva al centro la gerarchia [=il sistema del clero: papa, vescovi, preti, diaconi - nota mia].  Riprendendo il pensiero del teologo e cardinale gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621) la chiesa fu definita come la comunità di coloro che sono battezzati, confessano la retta fede e vivono nell’obbedienza verso il papa e i vescovi. Nel corso del Medioevo e dell’epoca moderna la gerarchia era diventata, come abbiamo visto, sempre più potente e si era appropriata di tutti i poteri esercitati nella chiesa, arrivando a presupporre, perlomeno tacitamente, una equiparazione tra chiesa e clero.

  Ora, di fronte a questa immagine della chiesa, il concilio Vaticano 2° [celebrato tra il 1962  e il 1965 - nota mia] dichiarava che la chiesa non è in primo luogo un’istituzione con un determinato ordinamento. […] è fondata nel disegno di Dio sul mondo. In essa è permanentemente presente ciò che Cristo ha portato nel mondo e ciò che deve continuare ad essere vivo nella forza del suo Spirito. […]  Prima ancora della differenziazione in diversi ordini, uffici e funzioni, all’inizio della sua presentazione della chiesa il concilio ha messo in evidenza l’uguaglianza fondamentale de suoi membri. La chiesa non è stata più descritta, cosa che fino ad allora era usuale, come comunità di diseguali. Tutti coloro che nel battesimo e nell’eucaristia partecipano di ciò che è santo, che mediante la Parola e i sacramenti  vengono santificati, sono uguali gli uni agli altri nella dignità e nella chiamata all’apostolato della chiesa. Ancor prima di ogni differenza  riguardante gli uffici e i compiti, il concilio sottolinea la fondamentale unicità che abbraccia tutti i credenti e i santificati da Cristo.

[…]

 La teologia del popolo di Dio del Vaticano 2° afferma che tutti i credenti, uniti nella comunione, sono chiesa […] ha affermato chiaramente che nella chiesa tutta la potestà è affidata al popolo di Dio nella sua totalità e che è il popolo ad attuarla.

[…] I laici non vengono quindi visti in primo luogo come «non-chierici»  […] Da questa uguaglianza fondamentale dei battezzati deriva, per il concilio, la chiamata comune di tutti all’apostolato nella chiesa. […] I laici partecipano all’apostolato della chiesa stessa, vi sono chiamati da Cristo stesso. In questo modo si fa semplicemente cadere l’impianto dell’Azione Cattolica [come costruito all’epoca della sua istituzione, nel 1906 - nota mia], secondo il quale i laici potevano soltanto partecipare all’apostolato della gerarchia o eventualmente collaborare con esso. Se, secondo questa concezione, l’apostolato è mediato dalla gerarchia e, quindi, in qualche modo dipende ontologicamente da essa, ora si dice invece che l’apostolato è partecipazione alla missione della chiesa stessa. In virtù della loro appartenenza alla chiesa, di cui sono membri, i laici hanno il diritto e il compito di collaborare all’apostolato della chiesa e di realizzarlo secondo le loro rispettive possibilità.  Questo non richiede nessuna delega speciale o  nessun conferimento di poteri da parte del clero o della gerarchia, ma deriva direttamente dall’appartenenza alla chiesa. Né il conferimento né l’attuazione concreta di questo apostolato avvengono mediante una delega, dunque in dipendenza dall’ordine sacro, ma risultano entrambi dalla potestà trasmessa nei sacramenti del battesimo e della cresima. Ogni argomentazione  o idea di un «prolungamento del braccio dei vescovi» viene abbandonata.

[…]

 La sottomissione tradizionale dei laici nella chiesa era causata in buona parte dal privilegio del clero derivante dalla sua formazione teologica. Per dare a tutti la possibilità di essere corresponsabili dell’apostolato e di parteciparvi, il concilio ha chiesto che «i laici si applichino con diligenza all’approfondimento della verità rivelata e domandino insistentemente a Dio il dono della sapienza»[ costituzione Luce per le genti - Lumen gentium 35].

[…]

 Il concilio attribuisce ai laici, in modo particolare, il carattere secolare (Luce per le genti - Lumen Gentium 31] [secolare= quanto riguarda la costruzione, l’organizzazione e il governo delle società civili. Secolare, in quanto soggetto al mutamento dei tempi, distinto dall’eternità della cose sacre, date (irrealisticamente) per immutabili- nota mia]. Essi devono e possono essere «sale della terra» là dove la chiesa può essere presente ed efficace attraverso di loro. Nella costituzione sulla chiesa [Luce per le genti - Lumen gentium] queste affermazioni non sono intese in senso restrittivo, come se fosse proprio dei laici esclusivamente un apostolato nel mondo e non anche in ambito ecclesiale. […] E’ una vera e propria alterazione del significato del testo conciliare la lettura fatta da alcuni documenti successivi che traggono da questa affermazione del carattere secolare la conclusione che i laici abbiano competenze esclusivamente secolari e che l’ambito ecclesiale debba restare riservato al clero, interpretando così il compito secolare in termini restrittivi.

 

[da Peter Neuner, Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016]

 

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   La Chiesa di Dio è convocata in sinodo,  si legge nel manifesto del Sinodo universale/italiano che inizierà il mese prossimo. Nel Documento preparatorio  ci sono state poste delle domande, a partire da quella fondamentale

Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina insieme”: come questo “camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel nostro “camminare insieme”?

ma non si tratta di un sondaggio. In realtà, poiché il tema che verrà trattato è la sinodalità, vale a dire come fare Chiesa tutti insieme, c’è molto più di questo, ed effettivamente è una questione decisiva per la vita e la missione della chiesa, e non è  cosa che riguarda solo i vescovi e il Papa, ma tutti noi, per quel diritto  e dovere  di apostolato che ci deriva dall’essere battezzati, menzionato da Neuner nel brano che ho trascritto.

  Dobbiamo decidere, tutti insieme, come proseguire ad essere Chiesa insieme nel mondo di oggi, nella realtà.

 

 Sarà molto importante, per tutta la durate dei Cammini sinodali (universale e per la Chiesa italiana) cercare di informare tutti  di che cosa si tratta.

 La Chiesa come la comunità di coloro che sono battezzati, confessano la retta fede e vivono nell’obbedienza verso il papa e i vescovi, così si pensava nel Seicento.  Per molti di noi,  non è ancora questo che si intende per Chiesa?

  E quanti di noi si sono veramente applicati  con diligenza all’approfondimento della verità rivelata, vale a dire hanno studiato un pochino per capire le questioni implicate nell’essere cristiani, secondo gli auspici dei saggi dell’ultimo Concilio? Per i più, ma in fondo per tutti nei momenti di ignavia, non si è fatto forse come sempre, stando a rimorchio dei preti?

   Ciò che noi siamo e facciamo nel mondo è anche apostolato: non è che lo si fa solo negli spazi liturgici o durante le cosiddette attività pastorali. L’apostolato non è tanto  propaganda  religiosa, ma è un ordinare il mondo, e quindi, ad esempio, noi laici che abbiamo in qualche modo collaborato ad un processo di unificazione europea che ha realizzato un lunghissimo periodo di pace continentale, anche così abbiamo fatto apostolato, per quanto da parte della gerarchia in genere non venga riconosciuto come tale. La costruzione, l’organizzazione e il governo delle società possono essere un’alta forma di carità, si è cominciato a insegnare dagli anni Trenta del Novecento. Su queste basi i cristiani democratici hanno collaborato a rivoluzionare l’assetto degli stati dell’Europa occidentale.

  Ma anche la Chiesa stessa è il campo del nostro apostolato laicale. Questo significa che, partecipandovi attivamente, dobbiamo contribuire a organizzarla in modo che sia sempre più conforme agli alti principi morali della nostra fede e, prima di tutto, alla sua natura. 

  La nostra Chiesa com’è adesso non scaturì per incanto dopo la Resurrezione, né c’era prima. E’ il risultato di una costruzione sociale che in gran parte risale al Secondo Millennio e poggia sulla costruzione di una cristologia  che si è affermata dal Quarto al Nono secolo del Primo Millennio.  Per dire: nel Primo secolo non si era neanche formato un vero e proprio clero, che oggi è la parte dominante nell'organizzazione ecclesiale. L’evoluzione delle concezioni sociali nei due millenni della storia cristiana ha molto influito su quelle riguardanti la natura e la missione della Chiesa. Così si è stati cristiani secondo i propri tempi. E, in base ai principi di civiltà dei tempi nostri, i primi tempi non furono  interamente e propriamente virtuosi, ma anzi molto intolleranti, violenti, bellicosi. E, per la verità, si proseguì così. E' solo dal  Novecento, e in particolare dalla seconda metà di quel secolo,  che i cristiani, nel grandioso movimento ecumenico, hanno vissuto la loro fede per fare veramente la pace tra loro. Quando lo si è realmente voluto, la pace fu fatta. Però si è diventati migliori della nostra tremenda storia solo da poco.

  La separazione della nostra Chiesa dai tempi in cui vive, per certi versi il suo anacronismo,  che per alcuni è addirittura una virtù ma che in realtà è all’origine della crescente disaffezione della gente per l’istituzione pur in un crescente interesse per le questioni spirituali, dipende essenzialmente dal fatto che noi stessi siamo divisi nell’animo nostro e non sappiamo più bene raccordare, come si dice, fede, religione e vita. Così, progressivamente, le questioni sulla fede sono diventate argomento quasi esclusivo della teologia che vi ha agito in modo dispotico e autoreferenziale. In fondo  andiamo in chiesa  più che altro per sentirne parlare, e allora lo spazio è tutto del clero, che vi è stato formato, perché noi ne sappiamo troppo poco. Purtroppo la teologia, la cui affermazione come scienza, in particolare dal Duecento europeo,  non è stata storicamente sempre tanto positiva per le nostre Chiese, per come si  è sviluppata nel Secondo Millennio ha ancora troppo scarsa capacità di mediazione con gli altri aspetti della vita e, più che altro, tenta di assimilarli.

  Un altro modo di porre la domanda fondamentale: la caratteristica propria del nostro essere persone cristiane è quella dell’andare in chiesa ad ascoltare i preti e nel fare riferimento ad un’etica personale conforme ai precetti insegnati dai preti o c’è dell’altro? E, se c’è dell’altro, questo altro lo si fa da soli o con altre persone? E queste altre persone con le quali fare dell’altro, le troviamo solo in chiesa, quando noi siamo ed esse sono in chiesa,   o anche fuori, e, in quest’ultimo caso, qual è il confine tra fuori  e  dentro, e tra chi è dentro e chi è fuori? Se noi siamo Chiesa, quali altre persone, intorno a noi, consideriamo Chiesa con noi?

 E poi: quando i preti ci parlano delle cose della fede, quanto capiamo veramente di quello che ci dicono? Soprattutto quando ci parlano di comunione?

 Cari amici, vi consiglio di leggere e rileggere i brani del libro  di Peter Neuner che ho sopra trascritto, di rifletterci sopra e di discuterne tra voi. Riuscite a capire veramente tutto quello che scrive, e in particolare i termini che usa? Approfondite. In particolare prendendo in mano i documenti dell’ultimo Concilio Vaticano 2°, a partire dal decreto sull’apostolato dei laici L’apostolato - Apostolicam actuositatem

https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decree_19651118_apostolicam-actuositatem_it.html

 

 

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3.Appunti su sinodo  e metodo  sinodale

Luglio – Settembre 2021

 

3.1. Due Sinodi  da non confondere

Dall’ottobre di quest’anno all’ottobre 2023, si svolgerà il processo sinodale  per la celebrazione, appunto nell’ottobre 2023, della 16° Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione”. Nel programma quel processo dovrebbe essere aperto all’ascolto  della  totalità dei battezzati. Spesso, però, in occasioni simili, l’ascolto si è risolto in una semplice formalità liturgica.

  Il Sinodo della Chiesa italiana è un processo diverso, distinto,  anche se lo si coordinerà con quello del Sinodo Chiesa universale. In un certo senso, il Sinodo della Chiesa italiana avrà un oggetto più ampio, comprende la sinodalità ma anche programmi per l’azione in società nella fase di rinascita dopo i tempi duri della pandemia da Covid 19. Si cercherà di suscitare proposte in merito.

   Nel Sinodo della Chiesa nazionale si dovrebbe cercare di ottenere che le persone laiche  non siano solo ascoltate, in quello che di volta in volta è loro concesso di esprimere,  ma anche che le loro proposte  siano realmente discusse.

  I commentatori hanno evidenziato che si tratta del primo Sinodo della Chiesa Italiana, in quanto in precedenza si è proceduto per Convegni eucaristici  e Settimane sociali, eventi che sono accomunati da questo metodo: sono i vescovi a decidere chi, delle persone laiche, può intervenire e anche i temi su cui possono parlare. Si manifesta così una bella uniformità, che però, al dunque, serve poco. Mi pare che in genere si faccia gran sfoggio dell’ecclesialese e che, da quello che ne ho letto, la parrèsia, la franchezza nel dire, sia stata in passato molto evidente. Non di rado i documenti di lavoro mi sono sembrati indigeste sbrodolature, in cui si dice e non si dice e quello che si dice può essere poi interpretato in sensi opposti. Si teme di diventare un parlamento. Non siamo un parlamento, viene dettoE’ vero, non lo siamo, ma, in fondo, non sarebbe male esserlo in qualche fase del cosiddetto ascolto. Altrimenti si  parla, si scrive, ma nessuno veramente ascolta. La verità scende dall’alto e si è infallibilmente liberi di crederle. Chi crede in questo modo ha il cosiddetto sensus fidei, che sarebbe una specie di capacità di intuire la verità senza bisogno di ragionarci sopra, e nel complesso così facendo si sarebbe addirittura, complessivamente, infallibili,   altrimenti si sbaglia perché si parlamentarizza  le questioni e discutendo si finisce per dividersi. Ma, osservo, se non si ragiona insieme  sulle questioni,  confrontandosi, come si dovrebbe rare nei parlamenti, l’uniformità è solo di facciata e nasconde i problemi non risolti. Chi poi non si uniforma non di rado è spinto ai margini. Insomma, non è più come quando Montini, a chi, nella fase preparatoria del famoso Convegno ecclesiale nazionale Evangelizzazione e promozione umana  del ’76, gli faceva notare che lo storico Pietro Scoppola era un animo molto libero e poteva creare problemi nel comitato organizzatore, rispose che, sì,  egli era un cattolico a modo suo ma che andava bene così.

  Di questo Sinodo si è discusso nel maggio scorso nella 74° Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, organizzata appunto sul tema «Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale»Ma non si è discusso solo di sinodo. E’ stata approvata la seguente mozione: «I Vescovi italiani danno avvio, con questa Assemblea, al cammino sinodale secondo quanto indicato da Papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Santo Padre. Al tempo stesso, affidano al Consiglio Permanente il compito di costituire un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme, tenendo conto della Nota della Segreteria del Sinodo dei Vescovi del 21 maggio 2021, della bozza della Carta d’intenti e delle riflessioni di questa Assemblea».

 Ecco la Carta d’intenti.

 

Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita

Carta d’intenti per il “Cammino sinodale”

 

L’incontro della Presidenza della CEI con Papa Francesco lo scorso 27 febbraio ha fatto maturare la scelta di avviare il Cammino sinodale delle Chiese in Italia. La decisione s’è arricchita con il passaggio e i contributi del Consiglio Permanente del 24-22 marzo 2021. Con la presente Assemblea Generale dei Vescovi (24-27 maggio 2021) s’intende quindi dare inizio al “Cammino sinodale”. Il percorso non può essere precostituito per due ragioni: la prima, perché la pandemia insegna che basta poco per far saltare certezze consolidate o accelerare fenomeni in atto su cui poco si è riflettuto in passato; la seconda, perché la dinamica del processo sinodale richiede che il cammino si costruisca e cresca facendo tesoro dell’ascolto, della ricerca e delle proposte che emergono lungo il percorso. In tal modo si attiva il ritmo della comunione e lo stile della sinodalità che ne è lo strumento.

 

1. Il “Cammino sinodale” perché?

È prevedibile che i motivi di fondo che stanno alla base della scelta sinodale possano essere messi a fuoco e ricevere un arricchimento lungo il “Cammino sinodale”. Li tratteggiamo brevemente.

a) Nel travaglio del tempo presente. La pandemia sta mettendo in ginocchio le comunità cristiane, diocesane e parrocchiali. Con profezia e parresía occorre mettersi in ascolto della vita personale e comunitaria per intercettare nuove domande e tentare nuovi linguaggi, tenendo conto della difformità dei vari territori che compongono il Paese. Si prospetta uno scenario multiforme (aiuta qui l’immagine del poliedro, cfr. Evangelii gaudium, 236), in cui stimolare e accompagnare la rigenerazione, rafforzando quanto di buono e di bello si è già fatto negli ultimi anni, riaccendendo la passione pastorale, prendendo sul serio l’invito a rinnovare l’agire ecclesiale attraverso un costante discernimento comunitarioUna lettura cristiana del tempo presente potrà raccogliere i segni di rinnovamento per il dopo-pandemia.

  A questo proposito, nel novembre 2020 il Consiglio Episcopale Permanente affermava: «Ci sembra di intravedere, nonostante le immani difficoltà che ci troviamo ad affrontare, la dimostrazione che stiamo vivendo un tempo di possibile rinascita sociale. È questo il migliore cattolicesimo italiano, radicato nella fede biblica e proiettato verso le periferie esistenziali, che certo non mancherà di chinarsi verso chi è nel bisogno, in unione con uomini e donne che vivono la solidarietà e la dedizione agli altri qualunque sia la loro appartenenza religiosa. […] È sulla concreta carità verso chi è affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato che tutti infatti verremo giudicati, come ci ricorda il Vangelo (cfr. Mt 25,31-46)».

 La Chiesa è chiamata nel tempo della rinascita a coltivare un ascolto, un’immaginazione e una pratica in vista di un’Agenda di “temi di ricerca” che si lascia fecondare dall’annuncio evangelico e da quanto stiamo imparando dalla pandemia. Piuttosto che cercare affannosamente soluzioni immediate, sarà importante indicare i “punti cruciali” dell’azione pastorale per il prossimo futuro, facendo tesoro di quanto abbiamo imparato nel travaglio del tempo presente: l’abbondante semina della Parola anche attraverso canali di ascolto rinnovati; la proposta della lectio e della meditazione personale quale nutrimento per la vita spirituale; la formazione della coscienza; il ricupero dell’aspetto escatologico della fede cristiana nell’aldilà e nella speranza oltre la morte; la complementarità di celebrazioni sacramentali nelle comunità e di forme rituali vissute nello spazio familiare; la catechesi proposta con modalità e luoghi che superino il modello scolastico; l’azione educativa verso ragazzi, adolescenti e giovani adatta ad accompagnare nei passaggi della vita; la necessità di un’alleanza familiare per correggere il regime di appartamento e aprirlo alla scuola e alla comunità; l’urgenza di una nuova stagione di solidarietà e carità, per venire incontro all’aumento prevedibile e drammatico delle povertà materiali e della solitudine spirituale; la forza dell’impegno civile attraverso i corpi intermedi della società che è stato il collante nel momento della crisi; e, non da ultimo, la pratica di una cittadinanza e di un servizio politico all’altezza della ripresa auspicata.

 b) La prospettiva sintetica del cammino. Possiamo ora formulare in positivo la questione essenziale con la seguente domanda: “Che cosa comporta intraprendere un ‘Cammino sinodale’ per il prossimo quinquennio della Chiesa?”. L’incoraggiamento di Papa Francesco richiede di dare risposta sollecita e coraggiosa. Per fare questo occorre riprendere in mano Evangelii Gaudium alla lente d’ingrandimento del Discorso di Firenze, per poter dare avvio al Cammino, facendo tesoro delle esperienze che in Italia già diverse Chiese locali hanno fatto in questi ultimi cinque anni. Il ricco materiale già disponibile aiuterà la riflessione perché non sia una partenza da zero. Su questo sfondo è possibile intravedere la prospettiva sintetica del Cammino. Forse possiamo formularla così: l’itinerario del “Cammino sinodale” comporta la necessità di passare dal modello pastorale in cui le Chiese in Italia erano chiamate a recepire gli Orientamenti CEI a un modello pastorale che introduce un percorso sinodale, con cui la Chiesa italiana si mette in ascolto e in ricerca per individuare proposte e azioni pastorali comuni. Ci è chiesto di passare da un modo di procedere deduttivo e applicativo a un metodo di ricerca e di sperimentazione che costruisce l’agire pastorale a partire dal basso e in ascolto dei territori.

 Finora gli Orientamenti CEI (per il decennio) erano approvati dall’Assemblea Generale e proposti alle diocesi che li recepivano attraverso iniziative, percorsi e azioni pastorali. Spesso hanno attuato anche percorsi e proposte assai stimolanti ed efficaci.

  La prospettiva del “Cammino sinodale”, che emerge per il prossimo quinquennio, dovrebbe sviluppare insieme riflessione e pratica pastorale: ascolto, ricerca e proposte dal basso (e dalla periferia) convergeranno in un momento unitario  per poi tornare ad arricchire la vita delle diocesi e delle comunità ecclesiali.

 “Ascolto”, “ricerca” e “proposta”: questi sono i tre momenti perché la lettura della situazione attuale e l’immaginazione del futuro possa smuovere il corpo ecclesiale e la sua presenza nella società. È il vivo desiderio che ci ha trasmesso Papa Francesco, per ripensare il presente e il futuro della fede e della Chiesa in Italia: la prospettiva teologica e spirituale di Evangelii Gaudium e del Discorso di Firenze predispone la trama dei “contenuti” essenziali del percorso. Si intravede la promessa di un percorso circolare: il processo sinodale propone una conversione pastorale già per il modo con cui viene elaborato e vissuto nelle parrocchie, nelle diocesi e nelle realtà ecclesiali e sociali. Le Chiese che sono in Italia ne potranno uscire arricchite nella misura in cui i variegati soggetti ecclesiali del Paese si lasceranno coinvolgere. Forse emergeranno anche istanze di rinnovamento o di riforma delle strutture che dovranno essere tenute in debito conto, per snellire la macchina degli Uffici e dei Servizi pastorali, sia al centro sia alla periferia.

 2. Il “Cammino sinodale” come?

  La scommessa del “Cammino sinodale” chiama anzitutto la Chiesa al risveglio della sua coscienza missionaria. Merita ricordare, la parola profetica che il Card. Montini pronunciava alla vigilia del Concilio: «Il Concilio è una straordinaria occasione ed uno stimolo potente per aumentare in tutta la cattolicità il “senso della Chiesa”. Sembra pronunciata per questa circostanza la memorabile parola di Romano Guardini: “Si è iniziato un processo di incalcolabile importanza: il risveglio della Chiesa nelle anime”» (Discorso su “Il Concilio Ecumenico nella vita della Chiesa”, 25 marzo 1962). Ciò che il futuro Paolo VI diceva del Concilio, vale, in modo analogo, per ogni ripresa di iniziativa delle Chiese in Italia. Il “Cammino sinodale”, perciò, ha bisogno di condividere uno stile ecclesiale, un metodo sinodale e alcuni strumenti di lavoro. Lo stile ecclesiale rappresenta la sfida decisiva: esso dovrà essere attento al primato delle persone sulle strutture, alla promozione dell’incontro e del confronto tra le generazioni, alla corresponsabilità di tutti i soggetti, alla valorizzazione delle realtà esistenti, al coraggio di “osare con libertà”, alla capacità di tagliare i rami secchi, incidendo su ciò che serve realmente o va integrato/ accorpato.

  Tutti saremo chiamati a risvegliare quel sensus ecclesiae, che lo stile sinodale è chiamato a far crescere.

  Il metodo sinodale dovrà favorire alcune azioni pastorali, che si potranno scandire nei tre momenti di “ascolto”, “ricerca”, proposta” e che dovranno attuarsi in una logica di collaborazione e condivisione.

  I momenti sono tra loro circolari e indicano un metodo che si impegna ad “ascoltare” la situazione, attraverso un’attenta verifica del presente, vuole “cercare” quali linee di impegno evangelico sono immaginabili e praticabili, intende “proporre” scelte concrete che ciascuna Chiesa locale può recepire per il suo cammino ecclesiale. Ascolto e concretezza sono le due istanze a cui ci ha richiamato insistentemente Papa Francesco.

  Gli strumenti di lavoro (ad es. un’Agenda di “temi di ricerca”, Instrumentum laboris, Schede per l’ascolto e la verifica, Piattaforma digitale per il confronto e la comunicazione) avranno il compito di indicare prospettive comuni su cui orientare l’ascolto dal basso.

  È importante che gli strumenti favoriscano l’espressione della multiformità dei territori e il confronto fraterno e costruttivo.

  La Segreteria Generale della CEI con i suoi uffici accompagnerà il percorso e sarà essa stessa luogo di sintesi di quanto giungerà dalle Chiese locali. L’elaborazione della mappa dei contenuti è affidata al momento preparatorio del cammino, che potrà assumere anche buona parte della riflessione, già preparata per gli Orientamenti CEI, attorno a tre aspetti: Vangelo, fraternità, mondo.

  Nel rapporto tra Vangelo e mondo, mediato dalla fraternità ecclesiale, sono emerse, a titolo esemplificativo, alcune attenzioni pastorali (la “forma di Chiesa” per il futuro prossimo; l’Eucaristia domenicale al centro della vita ecclesiale; l’accompagnamento delle famiglie; la presenza dei giovani nel cuore della Chiesa; l’attenzione verso i poveri) e alcuni campi d’impegno sociale e culturale (cattolicesimo popolare, cultura, cittadinanza, casa comune) che possono diventare luoghi su cui attivare la ricerca e far convergere le proposte.

3. Il “Cammino sinodale” quando?

 Per dare avvio al “Cammino sinodale” sembra necessario prevedere due aspetti: la scansione dei tempi lungo il quinquennio e la previsione dei primi passi del cammino. La scansione dei tempi. Il cammino avrà un arco temporale che va dal 2021 al 2025 e sarà scandito da alcune tappe che condurranno all’Anno Giubilare del 2025.

  Il calendario con le diverse tappe è prevedibilmente soggetto a una certa flessibilità.

 • Avvio del processo sinodale (2021, in sintonia con l’avvio della preparazione del Sinodo universale) •

 Prima tappa: dal basso verso l’alto (2022) – Coinvolgimento del popolo di Dio con momenti di ascolto, ricerca e proposta nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle realtà ecclesiali.

• Seconda tappa: dalla periferia al centro (2023) – Momento unitario di raccolta, dialogo e confronto con tutte le anime del cattolicesimo italiano. • Terza tappa: dall’alto verso il basso (2024) – Sintesi delle istanze emerse e consegna, a livello regionale e diocesano, delle prospettive di azione pastorale con relativa verifica.

• Giubileo del 2025 – Verifica a livello nazionale per fare il punto del cammino compiuto.

 Nell’itinerario saranno innestati alcuni eventi già in agenda:

- 49ª Settimana Sociale dei Cattolici. Tema: “Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #tuttoèconnesso” (Taranto, 21-24 ottobre 2021); -

 XXVII Congresso Eucaristico Nazionale (Matera, 22-25 settembre 2022); - Incontro sul Mediterraneo (primi mesi 2022).

 Queste note rappresentano la “Carta d’intenti” su cui convergere per iniziare il “Cammino sinodale”. L’Assemblea Generale dei Vescovi ha approvato (27 maggio 2021) il percorso indicato in questo testo, perché il “cammino” prenda avvio con libertà, scioltezza e condivisione.

   La Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi il 21 maggio 2021 ha annunciato la XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi per l’ottobre 2023, dal titolo: “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. Il percorso proposto dalla Segreteria Generale è armonizzabile con il “Cammino sinodale” delle Chiese in Italia, perché il cammino che approda al Sinodo universale dei Vescovi disegna un percorso di ricerca e confronto sulla “sinodalità”. Questo percorso può diventare il primo momento del “Cammino sinodale” italiano, il quale ha però l’orizzonte più vasto dell’annuncio del Vangelo in un tempo di rinascita. Per questo la Presidenza della CEI si premurerà d’indicare una proposta per i tempi e i momenti del “Cammino sinodale”, perché si sintonizzi su quello della Chiesa universale.

 

3.2. Sinodo e sinodalità

Nel prossimo ottobre inizierà il “processo sinodale” della Chiesa italiana. La proposta è nuova. Non lo si vuole infatti solo come un’assemblea dei vescovi italiani e dei loro invitati, preceduta da una consultazione della base, ad esempio delle parrocchie, ma come un’attività di riforma del modo di essere e di fare Chiesa che coinvolga tutti i fedeli. In modo che le decisioni non calino solo dai vertici, ma scaturiscano anche dal tirocinio, dalle sperimentazioni e dalle proposte emergenti nella base. La novità sta appunto in questo: di coinvolgere in quel modo la base. Stando alle esperienze storiche è infatti più facile cambiare in basso che in alto, a causa della rigidità delle strutture di potere ai vertici.

 Si stanno pubblicando molti studi sul tema della sinodalitá, anche accessibili a chi non è teologo, ma ha solo una acculturazione generica al discorso teologico.

  Anch’io sto facendo alcune letture e vorrei farvi parte di ciò che credo di stare capendo.

  È chiaro che si tratta di materia molto complessa, perché la storia delle nostre Chiese lo è.  Anche i grandi esperti la affrontano con l’umiltà che è tipica della vera scienza, vale a dire quella che è sempre in ricerca. Tanto più se la si affronta senza aver avuto una formazione scientifica. Si legge, quindi, per poter porre ulteriori domande alla comunità di coloro che si interrogano e ricercano.

 La cosa che mi pare emerga con molta chiarezza è che le Chiese delle origini erano organizzate in modo molto diverso da ora, in particolare nel Primo secolo, nel corso del quale si consolidarono le tradizioni confluite negli Scritti Sacri che definiamo Nuovo Testamento. Agli inizi la guida era sinodale, si ritiene. Per la scarsità delle fonti abbiamo però informazioni insufficienti a stabilire con precisione il metodo seguito, per imitarlo. Dal Secondo secolo piuttosto rapidamente la direzione delle Chiese locali si accentrò intorno a “un” vescovo, sul cui ministero venne costruita la teologia del “la Chiesa è dove è il vescovo”. Quasi contemporaneamente si sviluppò il sacerdozio, modellato culturalmente su quello dell’antico giudaismo palestinese, come attributo di una persona, non più quindi legato al servizio in una determinata comunità. Dall’inculturazione del Vangelo nelle filosofie ellenistiche, in un’interazione caratterizzata da aspri conflitti teologico-politici con caratteristiche molto diverse dal giudaismo delle origini, si sviluppò un sistema teologico con una diversa visione del mondo nella sua interazione con il Cielo, che, in modo ancora piuttosto misterioso, coinvolse la classe dirigente dell’antico impero romano. All’inizio del Quarto secolo venne proclamata la libertà religiosa, quindi anche la libertà di essere e vivere da cristiani, e il cristianesimo rapidamente sostituì l’antica religione politeistica come ideologia pubblica dell’impero; alla fine del Quarto secolo il cristianesimo fu dichiarato religione  obbligatoria per tutti i sudditi. Dal Quarto al Nono secolo la politica dell’impero influì potentemente nella definizione dei principali dogmi, vale a dire delle formulazioni principali delle convinzioni di fede, di quella che ormai era una nuova religione. Tutti i concili svolti nel Primo Millennio e riconosciuti come “ecumenici”, vale a dire riguardanti tutte le Chiese, furono convocati e di fatto anche presieduti, direttamente o da loro delegati, dagli imperatori romani. Il vescovo di Roma vi inviò dei delegati. L’impero “romano”, a quell’epoca, non era più centrato su Roma, ma su Bisanzio/Costantinopoli, secondo il grandioso disegno politico realizzato dal 326 dall’imperatore Costantino Primo (306-337), nato in Serbia e morto in Anatolia nelle vicinanze dell’attuale Izmir. Costantino pensò se stesso come vescovo supremo, Vicario del Cielo, addirittura apostolo. La sua figura e la sua teologia politica, organizzata intorno a se stesso fu celebrata dal vescovo palestinese e scrittore (in greco) Eusebio di Cesarea, che fu suo consigliere e che fu protagonista del primo concilio ecumenico, quello svoltosi a Nicea, in Anatolia,nel 325, che definì ciò che è per noi Cristo, vale a dire il fondamento della nostra fede.

 “Da Costantino, ma soprattutto  con Teodosio [nato in Spagna nel 347 e morto a Milano nel 395] le disposizioni dei sinodi diventano anche leggi per lo stato […] In ambito intraecclesiale la normatività delle scelte dei sinodi precede il riconoscimento civile” [da Nicola Salato, La sinodalitá al tempo di Francesco -1- Una chiave di lettura storica dogmatica, EDB,2020 (anche in eBook).

  In sostanza, dal Secondo secolo il Sinodo diventò cosa per capi religiosi, tanto che nel libro che ho citato si osserva che i Padri della Chiesa (scrittori di teologia tra il 1^ e il 7^ secolo il cui pensiero è riconosciuto come particolarmente importante per la definizione della nostra fede) non conoscono la sinodalitá, ma solo il sinodo, in quella accezione.

 La proposta attuale di un “processo sinodale” riecheggia quindi le più lontane origini del nostro vivere come Chiesa.

3.3. Tempi nuovi e processo sinodale.

Un dato mi pare eclatante confrontando la situazione tra i cristiani d’oggi con quelle che storicamente si manifestarono fin dalle origini: una condizione in genere pacificata e di reciproca tolleranza e, in molti casi, di reciproca stima.

  La storia dei cristiani è stata infatti caratterizzata per la sua massima parte da feroci controversie che, cristianizzate le ideologie pubbliche europee, sfociarono in vere e proprie guerre. Il Secondo Millennio, poi, fu caratterizzato da una lunga serie di persecuzioni a sfondo religioso condotte con i metodi della polizia politica da istituzioni ecclesiastiche e civili. E, sempre in quest’epoca, risalta l’evangelizzazione genocida delle Americhe, nel corso della quale potenze europee riconosciute come cattoliche cercarono di annientare le culture dei nativi, che nel Centro e Sud America erano molto evolute. Da ciò, appunto, derivò la cosiddetta “America Latina”. Ma anche nel Nord America non ci si condusse diversamente, da parte dei cristiani, cattolici e non.

 Di solito, quando si cerca di orientarsi in materia di fede, si scandagliano i tempi antichi, alla ricerca di tradizioni consolidate che ci confermino in un certo orientamento. Ma dobbiamo prendere atto che, purtroppo, quel passato non corrisponde del tutto alle semplificazioni agiografiche che di solito vengono insegnate nella formazione di base dei fedeli. Innanzi tutto, le fonti che riferiscono sui primi tempi sono piuttosto incerte e anche divergenti. Poi dal Quarto secolo la politica influì potentemente nella definizione delle decisioni in materia di fede divenute vincolanti, dògmata, dogmi, nel greco antico.

  Francamente, l’asprezza di certe controversie dei primi secoli, con pesanti conseguenze per la vita dei protagonisti, spesso persone che cercavano sinceramente di essere virtuose, sconcerta, ma anche ripugna. Eppure il corpo delle dottrine di fede che oggi seguiamo si è consolidato con quei metodi. In generale, ciò che indichiamo come “teologia” non si è manifestato tanto utile per trovare una via di convivenza pacifica e i sinodi, dall’epoca in cui si affermò il potere monocratico dei vescovi come quello proprio di un ordine autoreferenziale, furono in genere occasione di scontro e, al più, le sedi di precari armistizi, con qualche notevole eccezione naturalmente. La svolta epocale è stata recentissima e risale al movimento ecumenico affermatosi dalla seconda metà del Novecento. La pace religiosa tra i cristiani ne è il frutto. Ma da quale pianta è derivato? Come è possibile che, da una storia tanto efferata, ad un certo punto sia nata questa nuova realtà, che talvolta, ma senza grandi appigli, proiettiamo nel passato?

  È una domanda importante.

3.4. Distinguere tra Cielo e Terra.

Leggo, citato in SALATO Nicola (a cura di), La sinodalità al tempo di papa Francesco – 1 – Una chiave di lettura storico – dogmatica, contributo   “La sinodalità nella riflessione dei Padri della Chiesa, di Roberto Della Rocca, questo brano tratto dall’opera De Dominica Oratione, 23 – Sulla Preghiera del Signore, 23, del vescovo di Cartagine e “Padre” della Chiesa Cipriano, vissuto nel Terzo secolo in Nord Africa, appunto nell’antica colonia romana di Cartagine, ricostruita dai romani nell’area dell’attuale Tunisi dopo la distruzione dell’antico insediamento di origine fenicia:

«Infatti Dio comanda che nella sua casa tutti siano miti, concordi e in pace e vuole che noi, una volta rinati, continuiamo a essere quali ci ha creati grazie alla seconda nascita. Noi, che iniziamo a essere figli di Dio, dobbiamo rimanere in pace con Dio perché vi sia una sola anima e un solo sentire in coloro nei quali c’è un solo spirito. Così Dio non accetta il sacrificio di colui che non è in pace, e gli comanda di allontanarsi dall’altare e di riconciliarsi prima con il fratello, perché Dio possa essere propiziato con preghiere di pace. Infatti il sacrificio più grande per Dio è la pace che regna tra noi, la nostra concordia di fratelli e il fatto di essere un popolo riunito nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

 Della Rocca evidenzia che la definizione della Chiesa come  popolo riunito nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo divenne classica e che ad essa ci si richiamò durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965), tanto che nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti – Lumen gentium, al n. 4 viene riportata quella stessa citazione:

 

Lo Spirito santificatore della Chiesa

4. Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv 17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa e affinché i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo . Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: « Vieni » (cfr. Ap 22,17).

Così la Chiesa universale si presenta come « un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo » [CIPRIANO, La Preghiera del Signore - De Orat. Dom. 23, formula richiamata anche da Agostino -vissuto tra il 4° e il 5° secolo- e Giovanni di Damasco -vissuto tra il 7° e l’8° secolo].

 

  Ora, è indubitabile che l’obiettivo di rimanere in pace con Dio perché vi sia una sola anima e un solo sentire in coloro nei quali c’è un solo spirito  è stato storicamente sempre  fallito dalle Chiese cristiane salvo che in rari e precari tempi di sentire condiviso su base mistico-carismatica. Esso, realisticamente, non è dunque alla portata degli esseri umani: può solo essere un criterio etico orientativo, non politico. La storia della Chiese cristiane è stata sempre, con le eccezioni che dicevo, una storia di divisioni, polemiche e anche di violenze, che raggiunsero efferatezze, intensità ed estensioni che ai tempi nostri ci paiono incredibili.

 Se il processo sinodale che inizierà nel prossimo ottobre punterà a far scendere il Cielo sulla Terra, proponendosi un’unità con quelle caratteristiche, è altamente probabile, se non certo, che fallirà, perché è quasi sempre andata così, in particolare, da ultimo, nella fase attuativa del Concilio Vaticano 2°. E’ bene essere più realisti sugli obiettivi ottenibili.

  Riconoscere al processo sinodale non solo la natura, ad esempio,  di conferenza teologica o spirituale, o di azione liturgica,  ma propriamente di azione di ricostruzione sociale, vale a dire di riforma, cioè di azione politica, perché la politica è progettare, costruire e governare società, esige di porre alla sua base il criterio della distinzione tra Cielo e Terra e quindi di prendere atto che l’amicizia sociale, ciò che può essere evocato anche come agàpe   in senso propriamente religioso e che è alla base dei processi politici di qualsiasi natura, anche religiosa, non deve avere come condizione essenziale e irrinunciabile un “solo sentire” su tutto come se i molti divenissero una sola persona,  vale a dire che necessariamente, se ci si vuole veramente distaccare dal nostro tremendo passato, si  debba accettare una pace di tipo pluralistico, la sola alla portata degli esseri umani, anche se animati dallo spirito religioso.  Purtroppo su questa via non possiamo trarre esempi virtuosi dal passato, in particolare in base alle vicende nel corso delle quali  ci si è scontrati aspramente su definizioni terminologiche, secondo anche il metodo che poi fu definito dalla teologia quando fu fondata come disciplina scientifica, all’inizio del Secondo Millennio. Il che è come dire che se la teologia vorrà imporre il suo dominio assoluto sulla politica, come mi pare di capire che stia accadendo in questa fase preparatoria del Sinodo della Chiesa Italiana, si fallirà sicuramente l’obiettivo politico, per la riforma ecclesiale, dell’amicizia sociale e della pace, e la teologia rimarrà solo un complesso di idee sulla pace sociale, capace solo  in realtà di produrre il suo opposto.

3.5. La politica nella costruzione della Chiesa.

Prendo lo spunto dall’articolo di Domenico Marino pubblicato su Avvenire on line il 21 luglio 2021 con il titolo “Vangelo, cultura e politica: Cassiodoro verso gli altari”, per articolare alcune riflessioni sulla politica.

  Incollo qui sotto il link per leggerlo

https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/vangelo-cultura-e-politica-cassiodoro-verso-gli-altari

Una biografia affidabile, per la prestigiosa fonte da cui proviene, di Cassiodoro, anche con alcuni rilievi critici, si trova in:

 

 https://www.treccani.it/enciclopedia/cassiodoro_%28Dizionario-Biografico%29/

 

 La notizia è questa: il 22 luglio 2021 presso la Diocesi di Catanzaro-Squillace è stata celebrata la liturgia solenne della conclusione dell’inchiesta  diocesana per la beatificazione di Flavio Aurelio Magno Cassiodoro, già proclamato Servo di Dio. Si è seguita la procedura canonicamente detta “equipollente”, nella quale si prende atto e si approva un culto esistente da tempo e quindi si prescinde dal riconoscimento di un miracolo. Ora la pratica passa alla Congregazione delle cause dei santi, con sede a Roma.

  Cassiodoro visse in tempi antichi, tra il Quinto e il Sesto secolo, quando il cristianesimo era già divenuto religione di stato nei territori occupati dall’Impero romano, che dal Quinto secolo erano stati in parte, in particolare nell’Europa occidentale, invasi da popoli nordici, i cui capi spesso avevano avuto una lunga consuetudine con le istituzioni Romane. Questo fu il caso di Teodorico, re degli Ostrogoti, re in Italia dal 493 al 526, al quale succedettero Alarico, dal 526 al 534, Teodato, dal 534 al 536,  Vitige, dal 536 al 540 e Totila,  dal 541 al 552. 

 Teodorico era stato nominato “Patrizio d’Italia” nel 493 dall’imperatore bizantino Zenone. Quell’anno Teodorico aveva fatto fuori, secondo alcune fonti con le sue stesse mani, il suo antagonista in Italia, Odoacre,  con il quale aveva appena giurato un trattato di pace, generale romano golpista di etnia erula il quale circa vent’anni prima aveva deposto l’ultimo imperatore romano d’Occidente, venendo riconosciuto re d’Italia dal Senato Romano e dall’imperatore bizantino, Dall’età di dieci anni e fino ai diciotto Teodorico aveva studiato a Costantinopoli, dove aveva imparato il latino e il greco ed aveva anche avuto un’educazione militare.

  Odoacre e i sovrani ostrogoti in Italia integrarono l’amministrazione romana nella costruzione politica del loro nuovo regno.

  Cassiodoro nacque nel 485 in Calabria, a Squillace. Suo nonno era stato ambasciatore sotto l’imperatore romano d’Occidente Valentiniano 3^ e in tale veste aveva conosciuto Attila, re degli Unni. Cassiodoro fu un alto funzionario del re Odoacre, ma anche sotto i re ostrogoti che gli succedettero, a partire da Teodorico, il quale lo nominò governatore della Sicilia e anche  della Calabria, e fino a Vitige. Visse l’ultima parte della sua vita, che si narra sia stata lunga, come monaco, nel monastero di Vivarium, vicino a Squillace, da lui fondato intorno al 554.

  Il pensiero di Cassiodoro, che fu anche prolifico scrittore, ebbe particolare importanza nel costruire una legittimazione politica e  anche sacrale del regno italiano degli Ostrogoti, presentato come erede dell’Impero Romano d’Occidente, sebbene soggetto all’autoritá carismatica dell’imperatore bizantino, e in posizione di superiorità nei confronti degli altri sovrani dei popoli invasori dal Nord. Per Cassiodoro Teodorico regnava “per volontà di Dio”, come l’imperatore bizantino, per restaurare la civiltà romana in Italia.

  La Chiesa cattolica di oggi è impegnata in un processo di riforma, che ha natura principalmente politica nel suo aspetto di costruzione  sociale, e, secondo il suo costume, cerca riferimenti nel passato più lontano.

  Nelle conclusioni dell’inchiesta diocesana naturalmente vengono posti in grande risalto gli aspetti spirituali della vita di Cassiodoro come monaco, anche relativi al lavoro di copiatura, conservazione, trascrizione e studio del manoscritti antichi, sia cristiani che classici. Ma viene menzionata anche la sua intensa carriera politica,  vista come un esempio di come il credente possa manifestare l’annuncio di salvezza lavorando nelle istituzioni, senza temere la cultura del proprio tempo, ma anzi servendosene con sapienza.

  L’agiografia dei candidati alla santità ufficiale è spesso non affidabile storicamente, almeno nelle informazioni che vengono divulgate al di fuori degli ambienti specialistici. Certamente il regno in Italia degli Ostrogoti, del quale Cassiodoro fu corresponsabile quale alto funzionario dei sovrani, non può essere considerato, con la sua violenza estrema e i suoi intrighi, un modello per la politica di oggi. E lo stesso dicasi anche per la stessa azione politica di Cassiodoro, nel suo aspetto di adulazione acritica del sovrano suo signore. Ma si può essere personalmente santi anche in contesti simili.

  Penso che nel clero affascini ancora l’idea dell’intervento del cristiano in politica come consigliere del principe, capace di condurre mediante la cultura  il suo signore al rispetto di principi politici di civiltà, comprensivi anche di un certo umanitarismo cristiano. Cassiodoro li idealizzó, con riferimento al regno ostrogoto in Italia, nel suo pensiero politico che ci è giunto mediante un memoriale in 12 libri (!) intitolato Variae. Esso trovò smentita storica con l’eclisse del regno italiano degli Ostrogoti, cominciata da quando nel 540 il generale bizantino Belisario catturò Vitige a Ravenna. Allora Cassiodoro, dopo un lungo esilio a Costantinopoli. si ritirò in monastero, a Vivarium,  dedicandosi all’impegno prettamente culturale e religioso. Il funzionario civile che si ritira in monastero nell’ultima parte della sua vita è evidentemente sentito come più vicino alla propria esperienza dal clero. E probabilmente aiutano  in  ciò le notizie sul ministero di Cassiodoro al servizio di papa Virgilio, nel 550, durante un viaggio a Costantinopoli, dove Cassiodoro risiedette almeno fino al 554, per poi tornare in Calabria.

  Il cristiano di oggi, in Europa, non è chiamato ad essere, in politica, consigliere di un autocrate, ma partecipe di un governo largamente condiviso, secondo il metodo democratico. La condizione politica dell’Europa di oggi non è quella tragica dei tempi in cui visse Cassiodoro; nel pluralismo che caratterizza i tempi nostri, come quelli di Cassiodoro, i conti non si fanno facendo strage di oppositori e dissenzienti. Legittimare il potere in quanto visto come restaurazione del passato, come sognò Cassiodoro, non è raccomandabile oggi. Trasfigurare irrealisticamente i propri tempi vedendovi immaginificamente realizzati i propri sogni di restaurazione civile, nemmeno. 

 Eppure Cassiodoro svolse un   lavoro di mediazione culturale molto importante verso i suoi sovrani, che provenivano da popoli invasori con differenti tradizioni culturali e istituzionali, seppure assai acculturati all’ideologia politica cristianizzata nella versione bizantina. Un lavoro analogo fu svolto nel Nono secolo dai bizantini nell’evangelizzazione degli slavi. Anche da ciò scaturisce l’Europa come ancora oggi viene percepita. La teologia politica dei cristiani è stata un potente fattore di integrazione dei popoli, ma è stata anche l’origine di violenze sociali efferate nel suo tentativo di integrare accentrando intorno ad autocrati con potere sacralizzato. Tentazione che va accuratamente evitata oggi.

3.6. Tener conto della storia.

 Come vi ho scritto in precedenza, sto leggendo il libro “La sinodalità al tempo di papa Francesco – 1 – Una chiave di lettura storico dogmatica”, a cura di Nicola Salato, EDB, 2020, che è composto di una serie di brevi articoli di vari autori. Quello intitolato “La sinodalitá in prospettiva eucaristico-sinodale” è di Agostino Porreca”. Leggendolo ci si può fare un’idea dell’estrema difficoltà di sperimentare cambiamenti nella nostra Chiesa. Ma essa mi pare problema comune anche nelle altre Chiese cristiane storiche.

  Porre le istituzioni ecclesiastiche in una relazione troppo stretta con la teologia dogmatica le rende non riformabili.

  La gran  parte della nostra dogmatica si è formata tra il Quarto e il Nono secolo, in un’era in cui ci fu  la convinzione di poter creare tra i cristiani un’unità protetta da un’autoritá di tipo imperiale, a lungo rappresentata dall’imperatore con sede a Bisanzio, specchio di un ordine Celeste.  

  Nell’ambito di quell’autorità agivano con molta autonomia i patriarcati e gli altri episcopati, che cercavano di comporre le diversità di vedute su temi di organizzazione ecclesiastica e di definizioni di fede mediante riunioni collegiali denominate concili e sinodi. In genere con risultati precari. Da qui il frequente ricorso all’anatema (il Concilio Vaticano 2^ è stato il primo che non ne ha deliberati) e alla violenza politica.

  Nell’Europa occidentale il potere dei vescovi, per influenza degli assetti istituzionali veicolati dalle dinastie germaniche succedute all’Impero romano, assunse configurazioni  propriamente feudali, venendo i vescovi ad esercitare anche domini territoriali. Il dominio territoriale che il Papato iniziò ad esercitare nel Centro Italia, fino alla costituzione, in epoca moderna, di un vero e proprio stato, del quale l’attuale Cittá del Vaticano riproduce alcune caratteristiche pur non essendone il successore, originò da quella evoluzione. Altra manifestazione di questo processo fu che,  dal 13^ al 19^ secolo, tre dei sette “elettori” del “Sacro Romano Imperatore” furono vescovi.  Così come lo stato, costituito nel Sacro Romano Impero, del Principato vescovile di Trento, durato dall’11^ al 19^ secolo.

  I riflessi sulla dogmatica di quelle concezioni del miglior potere politico sono evidenti, anche se io non ho la competenza culturale e scientifica per trattarne sistematicamente. In particolare li vedo nella Cristologia e nelle idee su che cosa è e come si deve vivere come Chiesa. Questo contesto culturale è irrimediabilmente dissonante con le diverse concezioni del potere politico che caratterizzano le democrazie europee in fase di integrazione nell’Unione Europea (una costruzione istituzionale  nella quale u movimenti cristiano-democratici hanno avuto gran parte).

  Conciliare le antiche concezioni con le nuove, che denotano in modo anch’esso molto evidente gli attuali processi sinodali tedesco e italiano, è impossibile.

 I teologi cercano di farlo estendendo certe sacralizzazioni liturgiche allo “spirito sinodale” che si vorrebbe suscitare, in sostanza, in tutti i fedeli, in modo da farne la base per processi di più larga partecipazione, in particolare per sollevare il laicato dalla sua attuale umiliante condizione. Ciò che viene tentato sulla base della teologia eucaristica. Questa però si è già dimostrata una via che non conduce al risultato sperato. La liturgia non funziona nelle assemblee organizzative, fatte per esaminare problemi, soluzioni e programmi comuni, in cui il presupposto perché non siano solo vuoto formalismo è la libertà di esprimersi e l’accettazione del pluralismo.

 La teologia ancora oggi può fare grande danno nell’argomentare solo per via di logica dai principi dogmatici soluzioni  politiche senza tener conto dei risultati storicamente ottenuti, senza imparare dall’esperienza passata. Aver cercato di portare il Cielo in Terra ha generato tutte le atrocità della tremenda storia dei cristiani. Forse la sapienza dei teologi potrebbe riuscire a distinguere la mistica, che certo è dimensione irrinunciabile della nostra spiritualità, dalla costruzione sociale di una convivenza pacifica, che richiede la desacralizzazione della politica, anche di quella ecclesiale. Significherebbe anche pensare una teologia della democrazia come oggi la viviamo in Europa (e la viviamo in modo molto diverso da come la si viveva ai tempi dei primi  duri scontri con le Chiese cristiane).

 Scrive Porreca:

“A questa essenziale sinodalità della Chiesa, rivelata è manifestata dalla l’ex orandi [=liturgia], non corrisponde un adeguato sviluppo delle strutture sinodali, che ovviamente non possono limitarsi alle sole strutture di consultazione, non sufficientemente rispettose della corresponsabilità battesimale”.

  Ecco, questo è proprio il problema!

   Esso non ha una soluzione liturgica, ma deve averne una politica, che significa capire che “il Regno non è di questo mondo” e non significa regno secondo le impersonificazioni che storicamente vi furono a tutti i livelli, e anche nella nostra Chiesa. Ciò comporterebbe una diversa configurazione politica  della nostra gerarchia, senz’altro  pensabile senza ledere la dogmatica. L’ideale dei “Principi vescovi” sta tramontando.  Le Chiese cristiane storiche arrivate ai tempi nostri hanno realizzato ciò che mai era accaduto nella storia, vale a dire un’unità di agápe e di reciproca stima che corrisponde finalmente ai comandi evangelici, e ciò pur nel pluralismo religioso. Ciò che chiedevamo, e ancora chiediamo, nelle nostre preghiere sta iniziando a manifestarsi.

  Per la loro estrema sacralizzazione, incrostata e appesantita dalla gestione dei patrimoni ecclesiastici, la riforma delle istituzioni di vertice della nostra Chiesa si è rivelata storicamente impossibile, nonostante le sincere buone intenzioni di molti. L’unica sperimentazione che si può tentare, sperando realisticamente in qualche risultato, è quella da fare nelle realtà di base, come le parrocchie.

3.7.Prospettive di riforma dal basso.

La storia dell’attuazione dei principi innovativi del Concilio Vaticano 2^ (1962-1965) dimostra chiaramente che la nostra Chiesa non è attualmente  riformabile in tempi ragionevolmente brevi, né  nelle sue strutture centrali né nei vertici del potere locale, vale a dire negli episcopati. Troppo intensa è ancora la sacralizzazione di queste strutture di governo, organizzata dalle teologie proprio al fine di renderle resistenti alle riforme. Per nostra buona sorte il loro potere politico è stato molto limitato dai processi democratici sviluppatisi nelle società europee e dunque, benché palesemente obsolete e declinanti, non vi è reale urgenza di impegnarsi in un contrasto frontale e radicale. Altra fu, ad esempio, la situazione dei rivoluzionari repubblicani che nel 1849 sentirono la necessità politica  di abbattere il regno del Papato a Roma (anche in quel caso senza metterne in questione il Primato in ambito religioso).

  Le innovazioni sono possibili solo a partire dal livello di base, in particolare da un’istituzione di prossimità territoriale come la parrocchia, nella quale si vive un certo pluralismo. Quest’ultimo è il principale problema con cui ci si deve confrontare.

  Non sono un teologo, ma mi sono reso conto, da semplice lettore che cerca di essere colto, che la teologia può essere affascinante. In teologia si possono però progettare entusiasmanti riforme, che non avranno mai, tuttavia, la minima possibilità di essere attuate. Così assisto con una certa diffidenza al rifiorire di tanti studi su ciò che oggi viene definito “stile sinodale”, e quelli di cui sono consapevole sono certamente solo  una piccola parte di quelli esistenti, perché abitualmente non mi accosto alla letteratura del ramo.

  La teologia ha preparato il processo di riforma del Concilio Vaticano 2^, è stata la lingua  principalmente parlata in quella assise e la cultura di riferimento della sua  fase attuativa, che però dobbiamo riconoscere realisticamente essere abortita. Ha aperto delle prospettive, fin dove ha potuto, in particolare asseverando l’ortodossia del nuovo corso, ma ha anche creato ostacoli insuperabili nella fase di  edificazione  sociale, in particolare  costruendoli sistematicamente e ideologicamente come insuperabili e poi attestandone l’insuperabilità. Qualcosa del genere accadde nella controversia sulla dottrina della cosiddetta giustificazione, che, quando le condizioni sociali per la pacificazione maturarono, fu composta rapidamente senza particolari insuperabili difficoltà teologiche nel 1999 ad Augsburg (Augusta) con le Chiese luterane, accordo a cui successivamente aderirono altre importanti Chiese protestanti. Il Pontificio Consiglio per l’unitá dei cristiani, dopo aver dichiarato incredibilmente che “non vi era stato alcun rinnegamento del passato”, ammise che quello che definì “comune passo in avanti” era stato “reso possibile dal clima di fiducia reciproca”. Ecco, questa è la vera straordinaria novità dei tempi nostri, rispetto ai secoli delle tremende stragi e persecuzioni fondate su diversità di vedute sulle relative definizioni teologiche, in realtà causate da controversie politiche. Il miracolo del “clima di fiducia reciproca” è stato prodotto dai valori delle democrazie europee, le quali, riducendo le sacralizzazioni dei poteri politici civili e religiosi ne ha creato le condizioni, superando l’oltranzismo teologico.

  Se si afferma che il potere di una persona è voluto dal Cielo, e solo dal Cielo legittimato, e che è dunque  obbligo religioso sottomettercisi docilmente senza possibilità di discuterlo, perché qualsiasi critica ad esso distrugge l’armonia tra Cielo e Terra e dunque la società che su tale armonia si pensa fondata, per cui è peccato contro il Cielo, e in questo appunto consiste la sacralizzazione del potere sociale, allora la riforma è impossibile senza traumatiche divisioni e poi la guerra tra i monconi che ne derivano. Questa è stata sempre, in sintesi, la storia dei cristiani, e di ogni ideologia politica sacralizzata secondo cristianesimi. Quel clima di fiducia reciproca che ha consentito l’accordo di Ausburg del ’99, il prodigio dei nostri tempi, è il ripudio di un orrendo passato, del quale anche la teologia di corte degli autocrati che lo macchiarono di sangue e che trascinarono popoli interi in conflitti che smentirono ogni principio sociale cristiano porta gravi colpe. Ecco che l’istituzione dichiara però di non voler rinnegare quel passato e quindi, sostanzialmente, di sentirsene ancora legata in altre questioni, ad esempio, ipotizzo, quando si parla di riforma ecclesiale.

  Di solito,  nella  teologia cattolica, ci si sente riformatori quando si auspica un’estensione della collegialità episcopale nei confronti dell’autocrazia papale (ne parlo in questi termini perché così è definita dal diritto canonico), ma questa visione appare oggi obsoleta: sono lo stesso episcopato monarchico e la gerarchia episcopale nel suo insieme a creare problemi organizzativi, in quanto poteri che si vuole mantenere autocratici anche al di lá delle funzioni di Magistero o di quelle liturgiche, ad esempio, addirittura, nella gestione di quel simulacro di stato che è la Città del Vaticano a Roma o di una complessa azienda come quelle espresse  dalle organizzazioni di beni e personale di grandi Diocesi, con grandi patrimoni e flussi finanziari da amministrare. È in questione quello che fu al centro del Concilio Vaticano 2º, vale a dire il popolo di Dio, ma senza che siano indispensabili, per le riforme organizzative che servono, ulteriori diatribe teologiche e, in particolare, indagare per cercare in un lontano passato delle Chiese cristiane quello   che oggi occorre, ciò in quanto in quel passato esso non c’è perché a quei tempi si volle creare politicamente, qui sulla Terra, quel “regno” che il Maestro aveva rifiutato, nascondendosi alla folla che voleva farlo re  al modo in cui lo erano gli altri re della sua epoca, vale a dire l’origine di gran parte  dei nostri attuali problemi ecclesiali

 Date le condizioni attuali, la riforma della nostra Chiesa non deriverà verosimilmente da un concilio o da un sinodo di autocrati religiosi e loro consiglieri e invitati che approvi una qualche costituzione, ma da una prassi sociale che, nelle realtà di base, dalla gente di fede, consenta l’ampia e costante  sperimentazione di un clima diffuso di amichevole compartecipazione e di fiducia reciproca, nel quadro di una maggiore consapevolezza religiosa, superando l’attuale deplorevole carenza formativa che è la vera causa della dispersione religiosa in Europa, in un popolo che si vorrebbe ancora tenere nello stato di gregge mentre è fatto di persone umane, con menti e cuori, non dunque costituito semplicemente solo per obbedire docilmente ad ogni dettato dei suoi gerarchi. Ecco, questa sarebbe sinodalità totale.

  Vedo nella parrocchia l’istituzione che, nel giro di una generazione – l’inculturazione della riforma deve essere un processo graduale, ampio e progressivo, quindi lento, misurato sul passo di chi va più piano – potrebbe essere l’ambiente in cui suscitare un nuovo fecondo  modo, secondo l’agápe evangelica, di vivere la Chiesa. Bisognerebbe partire da questo: creare progressivamente, ad ogni livello della vita parrocchiale, vere sedi di compartecipazione amichevole dove, senza tirare in ballo l’ecclesialese, l’urtante e confuso gergo a sfondo teologico parlato dai dirigenti ecclesiali che organizzano il laicato, si affermi il principio che proposta e critica sono sempre ammesse nella misura in cui chi propone e critica è realmente disposto a contribuire a un progetto comune con propri personali tempo, energie e affetto, e non condizioni la propria disponibilità all’accoglimento integrale delle proprie vedute (principi della solidarietà e del pluralismo).

3.8.Cambiare la parrocchia dal basso.

3.8.1. Se si è d’accordo che gli ultimi 75 anni  dell’Europa occidentale contengono un’evoluzione straordinaria anche della vita religiosa, oltre che di quella civile e politica, allora è su questo che è meglio concentrarsi per  progettare un modo rinnovato di vivere la Chiesa nella parrocchia. Di solito, seguendo il metodo delle teologie cristiane, si inizia invece dal riflettere come si fu nei primi secoli, e questo per l’importanza che si attribuisce, in particolare nella nostra confessione religiosa, alla tradizione, che, con riferimento alle principali convinzioni di fede, tra i cattolici si scrive con la “T” maiuscola, Tradizione. Ma di quei tempi, in particolare quando si risale al Primo secolo, si sa poco e la memoria che la tradizione ecclesiale ci ha tramandato fino ad oggi non è completamente affidabile. Inoltre i processi sociali di organizzazione che si svilupparono nelle Chiese delle origini non contengono quella novità dei tempi contemporanei a cui ho fatto riferimento. Essa può essere sintentizzata in questo modo: ai tempi nostri le Chiese cristiane storiche non si combattono più e, addirittura, in genere si stimano, collaborano, perciò progressivamente vengono meno o sono attenuate le condanne che si scagliarono reciprocamente contro nel loro tremendo passato. Questa situazione è nuova nel senso che non c’è mai stata nei secoli passati, e questo fin dalle origini, nelle quali, in particolare, tra cristiani si fu veramente molto bellicosi. Essa non ha avuto ancora una soddisfacente sistemazione teologica e quindi anche una legittimazione da quel punto di vista. In un certo senso, anzi, la teologia è rimasta piuttosto indietro e ragiona come se si vivesse ancora nei tempi delle divisioni dure, per cui, ad esempio, vive male il fatto che sussistano ancora più organizzazioni cristiane e non una sola. A ben vedere, però, l’ideale di una unità nel senso di soggezione politico-amministrativa delle Chiese ad un unico centro di potere o almeno di coordinamento è il risultato di metamorfosi culturali che non si produssero subito fin dall’epoca detta apostolica, ma che caratterizzarono l’espansione dei cristianesimi solo a partire dalla metà del Secondo secolo e, soprattutto, la loro integrazione come ideologia politico-religiosa nella riforma dell’antico Impero romano. La formulazione delle nostre principali convinzioni di fede, dei dogmi, ne dipende, risalendo ad un arco storico tra il Quarto e il Nono secolo.

   Una ricostruzione storica sintetica della storia della parrocchia come istituzione religiosa locale si trova in

https://www.treccani.it/enciclopedia/parrocchia-e-parroco_%28Enciclopedia-Italiana%29/

una voce scritta dal grande specialista di diritto ecclesiastico e storico della Chiesa Arturo  Carlo Jemolo (1891-1981).

  Da essa emerge che la parrocchia, come istituzione territoriale locale di decentramento burocratico-religioso, risale al massimo al Quarto secolo, epoca a cui risale anche gran parte del cristianesimo ancora confessato nella nostra Chiesa e in cui i cristianesimi divennero ideologia politica dell’Impero romano, in particolare sacralizzando il potere dei suoi imperatori. Nel Secondo Millennio e, in particolare, dal Cinquecento, quando la nostra Chiesa volle darsi un’organizzazione amministrativa e politica analoga a quella degli stati nazionali che  a quell’epoca cominciarono a formarsi, la burocrazia parrocchiale svolse una funzione molto importante, come ancora ora, quella della tenuta dei registri parrocchiali, dove vengono annotate informazioni su Battesimi, matrimoni, morti. Le parrocchie furono a lungo, come in fondo ancora sono tra i cattolici, la sede principale della formazione religiosa di base del popolo di fede e il centro liturgico di prossimità per le persone comprese nel loro territorio. Dopo il Concilio Vaticano 2° si volle riformarle in senso comunitario, operazione che non può dirsi, in genere, riuscita.

  La teologia spesso dà un’immagine della parrocchia diversa da quella reale, perché vi riflette certe sistemazioni culturali su come vive il Cielo che si vorrebbero riprodurre, in maniera per così dire analoga, sulla Terra, nelle società dei fedeli. Così facendo i ruoli sociali assegnati agli attori di questa società locale non ne facilitano l’adattamento ai tempi nuovi, in particolare privando del tutto di voce e competenza il laicato, facendone solo un gregge curato dal parroco e dal clero che con lui collabora.

 Non mi interessa, e del resto non ho competenza in merito, discutere quella teologia, posto che è più semplice partire da alcuni importanti principi che si sono affermati durante il Concilio Vaticano 2° e che sono anche alla base delle democrazie europee avanzate. I principali sono quelli della libertà di coscienza e del pluralismo, il secondo prodotto dal primo. Va detto che essi sono il risultato di una vera rivoluzione culturale nella nostra Chiesa, che si è cominciata a manifestare veramente, in Europa, dal Secondo dopoguerra, quindi dal 1945, benché i fermenti culturali, e  in particolare teologici, dai quali derivò li vediamo manifestarsi a cavallo tra Ottocento e Novecento.

 Una formulazione della libertà di coscienza si ha nel Decreto sulla libertà religiosa Della dignità umana del Concilio Vaticano 2°, al paragrafo n.3:

 

L'uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso. Infatti l'esercizio della religione, per sua stessa natura, consiste anzitutto in atti interni volontari e liberi, con i quali l'essere umano si dirige immediatamente verso Dio: e tali atti da un'autorità meramente umana non possono essere né comandati, né proibiti. Però la stessa natura sociale dell'essere umano esige che egli esprima esternamente gli atti interni di religione, comunichi con altri in materia religiosa e professi la propria religione in modo comunitario.

 

 In quella formulazione, per ciò che posso capire, c’è tutta la teologia fondamentale che serve per riorganizzare la vita parrocchiale maggiormente in senso comunitario.

3.8.2. La parrocchia, in genere e nel caso della nostra, è un’istituzione comunitaria: è scritto nel diritto canonico, che è il diritto della nostra Chiesa (canoni 515-572). In ciò la sua configurazione è stata cambiata con il nuovo Codice di diritto canonico, deliberato nel 1983, che ha sostituito il precedente, del 1917, per seguire i principi decisi nel corso del Concilio Vaticano 2º  (1962-1965):  ci vollero quasi vent’anni, indizio eclatante delle difficoltà che ci furono nell’applicarli. L’operazione non riuscì bene. Nella parrocchia istituzione comunitaria, infatti, la comunità non conta nulla:  la parrocchia, dal punto di vista giuridico, è governata monarchicamente, in tutto, dal parroco, e gli altri, il clero e i laici che con lui collaborano, non sono nient’altro che esecutori o consulenti.

  Naturalmente talvolta vi può essere un governo parrocchiale con elementi di reale compartecipazione, ma questo dipende solo dal parroco, che può anche revocarla accentrando nuovamente. L’arrivo di un nuovo parroco determina quindi l’inizio di una nuova era nella parrocchia. Così è stato nella nostra parrocchia, che nella sua storia ha avuto solo tre parroci, don Vincenzo Pezzella dalla fondazione, negli anni Cinquanta, al 1983, don Carlo Quieti, dal 1983 al 2015, don Remo Chiavarini dal 2015 a tutt’oggi. Questa situazione dovrebbe essere corretta e lo si può fare utilizzando innovativamente  i limitatissimi spazi di compartecipazione consentiti dalle norme canoniche vigenti, per far emergere la comunità e una tradizione. Lo si è iniziato a fare in molte parrocchie italiane, con alterni e in genere non stabili risultati, per come mi pare di capire.

  Non è necessario, è anzi fortemente sconsigliabile, pasticciare con la teologia: quella che c’è nei documenti del Concilio Vaticano 2^ basta e avanza. Riscosse un vastissimo consenso tra i padri conciliari e nel travagliato processo applicativo dei princìpi conciliari è stata anche in qualche modo inculturata nella gente, anche se la consapevolezza che in genere se ne ha non mi pare sufficiente.

 Piuttosto, vanno fatti approfondimenti sulla storia recente dell’Europa, che è il contesto culturale in cui ci muoviamo (è una via improduttiva sognare di riprodurre epoche del passato, fosse anche quello delle origini), e acquisire un’informazione sintetica delle evoluzioni ecclesiali dei secoli precedenti. Questo è un lavoro che in genere non si fa, o, se si fa, è svolto più che altro con finalità apologetiche, che è un modo di definire una propaganda religiosa non di rado caratterizzata da una certa faziosità.

 San Karol Wojtyla, nel suo ministero di Papa, in preparazione del Grande Giubileo dell’Anno 2000, ci guidò nel difficile impegno che definì di purificazione della memoria, che consiste nel fare memoria veritiera del nostro passato ecclesiale per non ripeterne gli orrori, cercando invece di prendere esempio dal  bene che espresse. Ricordo che, in questo, fu duramente criticato dai teologi di corte, oltre che da tutti coloro che accettavano tutto quel passato come perdurante modello per i nostri tempi, resistendo ai cambiamenti.

  Così non di rado, in genere inconsapevolmente però, si ripetono gli errori del passato, ed è solo perché viviamo in una democrazia che le cose non assumono una brutta piega. Ad esempio, mi è capitato di udire persone palesemente incolte in teologia  scagliare anatemi accusando gli altri di eresia, perché in disaccordo con loro su certi modi di vedere. E, poveretti, nemmeno si rendevano conto che, cosi facendo, davano scandalo, allontanando gente dalla Chiesa, con ciò che ne consegue secondo il monito  evangelico. 

  Spesso sento favoleggiare delle Chiese delle origini, su cui non sappiamo molto di affidabile e ciò che si sa non mi entusiasma molto: furono piuttosto bellicose, rigidissime nello scontrarsi per ragioni di definizioni teologiche, tanto che già l’apostolo delle Genti  Paolo implorò i Galati almeno di non distruggersi a vicenda (Gal 5,15). Resici consapevoli di quel passato non dovremmo cercare di riprodurlo integralmente, anche in quegli atteggiamenti intolleranti che fecero tanto soffrire.

  Come ci insegnò don Remo il giorno che iniziò il suo ministero tra noi, è molto importante volersi bene, nonostante le diversità di vedute su come vivere la fede. Ce ne vogliamo? Dico in concreto, non a parole. E spesso, come  lamenta anche il Papa, sono proprio le parole lo strumento per farci del male, per ferire, allontanare, escludere, discriminare. Una piaga ricorrente in tutte le parrocchie che ho vissuto. I preti, purtroppo, ne sono le prime vittime.

3.9.La formazione dei formatori.

Ieri, discutendo con mia moglie, insegnante, della formazione religiosa di base che si fa, in genere, nelle parrocchie, ho osservato che è un peccato che non tenga conto di quello che bambini e ragazzi imparano a scuola. In particolare, nella scuola primaria (che quando vi fui alunno si chiamava elementare), si danno informazioni sugli antichi greci e romani, le cui culture sono state fondamentali nella costruzione delle teologie politiche cristiane, a loro volta fondamentali in quella della dogmatica, vale a dire l’insieme delle definizioni più importanti della nostra fede. Non per nulla la deliberazione di queste ultime come vere e proprie leggi dello stato avvenne, nell’impero romano cristianizzato, e in particolare nel suo nuovo centro culturale a Costantinopoli / Bisanzio, tra il Quarto e il Nono secolo nel corso di concili ecumenici convocati e presieduti, direttamente o mediante delegati, dagli imperatori romani che avevano sede in quella città dell’antica Tracia.

  L’attuale metodo della formazione di base alla fede si basa troppo su elementi mitici e spiritualizzanti e non costituisce basi valide per l’azione del cristiano nella società in cui è immerso, che, in particolare, è il compito principale assegnato dal Magistero ai laici. Tenendo conto che la formazione primaria è, per la maggioranza della popolazione italiana acculturata alla fede, l’unica della sua vita, non stupisce poi una certa debolezza del nostro laicato nel coniugare fede e vita, che non è solo quella personale, individuale, ma anche quella sociale, il che si esprime sostenendo che la nostra è una fede comunitaria, e soprattutto non limitata a un sentire o a una convinzione intellettuale, ma che esige una pratica nelle relazioni con altre persone.

 Naturalmente cambiare pone il problema preliminare della cosiddetta formazione dei formatori, che ora mi pare insufficiente, se non inesistente. Ai tempi in cui mia madre  fu coinvolta nel ministero di catechista nella nostra parrocchia, negli anni ’70, il tempo fecondo del rinnovamento della catechesi nella Chiesa italiana, invece si fece, anche con l’aiuto di esperti inviati dalla Diocesi che venivano in parrocchia, ma anche con sessioni specifiche presso l’Università Lateranense. Mia madre poi la proseguì iscrivendosi al corso di laurea in Scienze dell’educazione nella vicina Università salesiana, e naturalmente, quando iniziò a mettere in pratica nel catechismo parrocchiale quello che stava imparando, venne bruscamente esonerata dal parroco, anche purtroppo a causa di mormorazioni parrocchiali. Il parroco non era una persona cattiva, ma era stato formato in un certo modo per cui aveva paura del nuovo, temendo di non riuscire a gestirlo, in particolare quando generava, appunto, mormorazioni.

3.10. Stesso sentire.

L’unità che cerchiamo secondo la nostra fede è descritta anche come un medesimo sentire. Come interpretare questa espressione che ci giunge dai tempi antichi ed è anche cruciale per cercare di vivere uno “Spirito sinodale”?

  In una società pluralistica come la nostra, può significare “pensarla tutti allo stesso modo”? 

  Riflettete: quando mai è  veramente successo nella storia delle nostre Chiese? Per ciò che ricordo, non è successo neppure, vivente tra noi il Maestro, nel gruppo dei primi apostoli.

  Ma proprio questo quello che ci richiese il Maestro, esortandoci ad essere una cosa sola?

 Un teologo saprebbe rispondere con la competenza propria della sua scienza e leggendo o ascoltando gli interventi del Magistero si può avere un insegnamento autorevole in merito. Ma la costruzione sociale non è solo ufficio loro, bensì di ciascuno di noi,

  Per quanto mi riguarda, osservo che pensare di proporci una metà che quasi mai è stata raggiunta tra noi e, quando lo è stata, ancor più raramente lo è stata in modo stabile, è irrealistico.

  Se, ad esempio, prendiamo in esame le discussioni che prepararono le deliberazioni dei documenti del Concilio Vaticano 2º, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965, capiamo bene che anche nella larga maggioranza che poi li approvò si continuò a pensarla diversamente su alcune importanti questioni, per cui i testi approvati furono frutto di un compromesso, in quanto decidere fu ritenuto più importante che non farlo, anche se ciò che fu deciso non rispecchiava esattamente la convinzione di molti. La stessa minoranza di chi votò contro accettò comunque la deliberazione collettiva, che non riguardava solo la questione intellettuale della definizione di una questione dottrinale, come può accadere in un simposio scientifico, ma ciò che possiamo considerare come leggi della nostra Chiesa, capaci di modificarne il volto, come effettivamente avvenne. In questo caso è ancora più eclatante che “medesimo sentire” non significò identità  di vedute e convinzioni sul da farsi.

  Un atteggiamento fondamentalista avrebbe invece condotto alla rottura, non tollerando l’accoglimento  di proposte contrarie al proprio orientamenti, considerati come irrinunciabili. La frattura sarebbe anche stata suggerita da posizioni integraliste, determinate da quel fondamentalismo, ritenendo intollerabile anche solo stare insieme a chi la pensava diversamente, considerato fonte di impurità sociale. Posizione che fu molto comune nelle nostre Chiese delle origini, quando mi pare che ci si scambiarono più anatemi, quindi deliberazioni di esclusione, che lettere di comunione, e comunque i primi ebbero gli effetti più clamorosi.

  Nella Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum – la Parola di Dio, che a molti appare incompiuta, possiamo cogliere, per quella sua incompiutezza, indizi che si andò molto vicini alla frattura. Nonostante questo, chi partecipò ai lavori del Concilio ne riferì come di un’esperienza straordinariamente positiva, i cui effetti per diverso tempo entusiasmarono tutti, anche chi votò contro alcuni e decisioni e a prescindere da questo, aprendo un’epoca di effervescenza ecclesiale della quale oggi chi non visse consapevolmente quei tempi fatica a farsi un’idea.

  In effetti si può considerare che la grande importanza che nella storia della nostra Chiesa si finì per attribuire a identitá di vedute su definizioni è prassi non trova convincenti riscontri in ciò che il Maestro ci comandò.

  Egli, mi pare di aver capito, non fondò ad esempio una sua scuola, come era già usanza nella prassi rabbinica nel giudaismo del suo tempo. Nessuno di coloro che gli furono vicini fu accreditato come membro di una scuola, nel senso di mirare a raggiungere un’autorevolezza pari alla sua e distinta dalla sua, come accadde, ad esempio, nel caso dell’antico filosofo greco Platone rispetto al suo maestro Socrate. I suoi discepoli, e in particolare quelli tra loro che svolsero le funzioni di apostoli, presentarono invece la loro missione come quella di chi ha ricevuto il comando di insegnare esattamente e solo il vangelo del suo Maestro e, in particolare, l’esportazione all’agápe, intesa come convivenza benevola  misericordiosa, aiutandosi e sorreggendosi amichevolmente gli uni gli altri, prendendo esempio da lui.

  Del resto tra i più stretti suoi primi seguaci non troviamo uomini di cultura del suo tempo, ad esempio uno scriba.

  Com’è allora che molto presto si diede tanta importanza alle definizioni e com’è che gli scritti che definiamo neotestamentari ci sono giunti in greco, che non era certamente stata la lingua del Maestro e della prima cerchia dei suoi seguaci?

  È evidente che sulle tradizioni delle memorie della vita e dei detti del Maestro e su quelle delle prime comunità riunite nel suo nome dopo la sua morte e Resurrezione si lavorò molto e, in particolare, da persone che sapevano scriver nel greco antico.

  L’incidenza della cultura ellenistica, che appunto si esprimeva in greco, nella tradizione e formalizzazione di quelle memorie può spiegare quell’accanimento puntiglioso sulle definizioni, che storicamente generò anche efferate violenze. C’è ora chi di quell’influsso è divenuto insofferente e ne vorrebbe depurare la tradizione cristiana, ma, a prescindere dalle questioni filologiche implicate nell’analisi dei testi sacri, che richiedono una raffinata competenza specialistica per cercare di individuare parti di tradizioni corrispondenti a un deposito antecedente all’ellenizzazione delle memorie evangeliche, considerando semplicemente la storia delle nostre comunità delle origini, credo che questo sforzo si potrebbe rivelare inutile, e ciò per il grande rilievo che ebbero, fin dalle origini, i gruppi di fedeli formatisi in ambiente ellenistico. Ad esempio ad Antiochia di Siria, che è ricordato come il primo luogo nel quale i cristiani furono definiti tali.

  Molto presto, insomma, si cominciò a ragionare di fede, comunità, società, natura, quindi sul mondo, con categorie filosofiche e politiche correnti nell’ellenismo del Primo secolo, da cui poi derivò gran parte della nostra dogmatica, delle definizioni ritenute fondamentali per essere riconosciuti come cristiani, nonostante che quello non corrispondesse esattamente al modo di insegnare argomentando del Maestro.

  E, come ho osservato, un sentire comune in materia di definizioni, nel senso di unanimità, fu assai raro e in fondo questa è anche la situazione attuale, e non solo tra teologi e clero, ma anche tra tutti noi, anche in un ambiente di prossimità come la nostra parrocchia.

  Però se considerassimo che il Maestro ci esortò all’unitá intesa come agápe, quindi non tanto sulle definizioni, sulle quali i colti avversari del suo tempo tentarono di coglierlo in fallo, ma come pratica di amicizia, compassione e solidarietà alla portata di tutti coloro che rimanevano coinvolti nel suo vangelo, allora sarebbe differente. Si potrebbe essere uniti nonostante certe diversità e questa unità verrebbe prima delle distinzioni concettuali anche se frutto di culture sofisticate. Come nella parabola del Samaritano misericordioso, di recente posta al centro dell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco.

3.11.Pluralismo e comunità.

Una comunità è una collettività legata da relazioni più strette, in intensità e frequenza. Alle origini, i cristianesimi furono comunitari, ben prima che si producesse la loro istituzionalizzazione.

 Necessariamente il vivere comunitariamente tende a separare le persone,  in maniera più o meno forte, dall’esterno. Questo grado di separatezza è richiesto per essere riconosciuti come partecipi della comunitá. Gli elementi caratterizzanti la comunità, e quindi separanti dal resto, variano a seconda delle culture, del contesto sociale, dei fini del radunarsi. In genere il passaggio da fuori a dentro  è segnato da riti di iniziazione, mentre quello da dentro a fuori da riti di esclusione. Una procedura sociale ha il carattere di rito quando presenta elementi simbolici. Il simbolo è un segno o un’azione che richiama sinteticamente il senso di ciò che accade o si vuole intendere. Ogni comunità, in quanto racchiude e separa, ha un certo grado di integralismo. Ciò che socialmente si ritiene non possa essere superato, pena l’esclusione dalla comunità, ne è il fondamento. Ogni comunità esprime anche un certo fondamentalismo. Vengono chiamate, però, integraliste quelle comunità che più intensamente fanno della separatezza una ragion d’essere e fondamentaliste quelle che estremizzano i loro elementi caratterizzanti, condizionando ad essi la disponibilità a relazionarsi con l’esterno.

  Moti integralisti e fondamentalisti hanno segnato i cristianesimi fin dai primi tempi, ma essi sono convissuti con la tendenza all’apertura universale, nella convinzione di essere mandati a tutte le genti della Terra per diffondere il vangelo. Si tratta di una condizione paradossale. In particolare nello spirito di agápe si vorrebbe includere, e questo comporta anche il separare sotto certi aspetti, ma nello stesso tempo mantenendo la solidarietà umana con chi è (per ora) fuori. Si vive quindi l’inclusione come un accogliere, rimanendo sempre disponibili a questa accoglienza nonostante i forti legami comunitari, ciò che Papa Francesco esprime invitando ad abolire le dogane ai nostri confini comunitari. Mantenere in equilibrio questi elementi apparentemente contrastanti non è stato storicamente facile, specialmente dopo la marcata istituzionalizzazione delle nostre Chiese.

   Si ha istituzionalizzazione quando una società produce un proprio diritto, quindi norme su chi comanda, il modo di farlo e i doveri e facoltà dei consociati, che siano formali, definite, imposte come obbliganti da una comunità, di modo che la loro violazione comporti una sanzione che può giungere anche all’esclusione o peggio.

  In una parrocchia,  che oggi si vuole come istituzione e comunità, quindi istituzione comunitaria troviamo tutti gli elementi a cui sopra ho accennato. La nostra missione è di questi tempi cercare di rafforzare l’elemento comunitario, che, come è accaduto nel resto della società italiana, si è molto indebolito, sia per l’allentarsi delle relazioni sociali di prossimità derivante dai costumi sociali correnti, sia per l’affermarsi da noi di tendenze integraliste e fondamentaliste.

  I cristianesimi fin dagli inizi furono, e sono ancora, marcatamente pluralistici: questo significa che non c’è mai stato un solo modo di vivere da cristiani, al di là del consenso più o meno ampio su riti e definizioni. Questo pluralismo è spesso stato vissuto come imperfezione, talvolta cercando di correggerlo con l’esclusione, talaltra provando a pacificarlo mediante l’integrazione. L’accettazione di un ampio pluralismo di vita sociale orientata secondo i cristianesimi, pur nella rigidità in materia di definizioni, fu una delle caratteristiche del Medioevo europeo, molto idealizzato in genere tra i cattolici. In quel contesto, anche l’istituzionalizzazione, vale a dire la normazione, fu più marcatamente una produzione sociale, piuttosto che, come avvenne dal Seicento, un’imposizione di autorità deliberanti. La tendenza delle società europee di oggi è nel senso di recuperare quel pluralismo, superando lo statalismo che vi imperò almeno fino agli anni Cinquanta. Nella Chiesa italiana si manifestano analoghe tendenze.

3.12.Il piccolo nel grande.

Tutti, i sapienti come gli ignoranti, siamo confinati in ambienti cognitivi molto limitati, che possiamo descrivere come il teatro delle nostre vite quotidiane. A partire da lì ci figuriamo la realtà, diciamo l’universo, per indicare tutto il resto che c’è. Non possiamo essere diversi, perché questo modo di capire dipende da come è fatta la nostra mente ed essa si è evoluta in milioni di anni. È più o meno la stessa negli ultimi duecentomila anni, ci insegnano le scienze biologiche.  

  Per evadere dai nostri ambienti cognitivi personali limitati ci aiutiamo gli uni gli altri e quindi formiamo società. L’evoluzione della nostra mente ci permette di crearne di immense mediante le culture, che sono rappresentazioni immaginifiche dell’universo secondo le quali ci orientiamo nelle relazioni di massa, vale a dire con gli individui che non arriveremo mai a conoscere veramente. Le culture sono possibili in base ai miti, che sono immagini semplificate della realtà caricate di elementi emotivi. Questo perché noi cerchiamo di capire per agire e agiamo in base alle emozioni. La parola “emozione” ci viene dal francese, nel quale a sua volta costituiva l’evoluzione di una parola latina che richiamava l’idea di mettere in moto, anche nel senso figurato di suscitare passioni.

  Nelle religioni gli elementi culturali emotivi sono fondamentali. In un certo senso delle religioni ci si innamora prima di capirle e le si capisce da innamorati, altrimenti si ha la sensazione di esaminarle dall’esterno, come fanno gli antropologi.

  Questo innamoramento religioso crea problemi quando si pensa la vita religiosa in grande, al di là di un piccolo gruppo di prossimità nel quale ci si riesce a conoscere intimamente tutti, come accade in una famiglia. E parlando di una parrocchia come la nostra si pensa in grande, anche se non è tra le società più grandi. Non sappiamo esattamente quanti fedeli contenga: nel suo territorio vivono circa quindicimila persone, delle quali circa l’80% fanno riferimento al soprannaturale e all’etica cristiani, circa il 30% vengono saltuariamente in chiesa e affidano i loro bambini per la prima formazione etica, e circa il 7% frequenta regolarmente la nostra chiesa parrocchiale, un migliaio di persone circa, quelle che dovremo cercare di coinvolgere nel processo sinodale che sta per iniziare. È chiaro che non possiamo pensare di conoscere da vicino, come un parente prossimo, ogni persona di quel migliaio. L’antropologia concorda che possiamo arrivare a conoscere in quel modo solo circa 150 persone, detto numero di Dunbar dal cognome dell’antropologo inglese Robin Dunbar che lo propose alla comunità scientifica in base alle sue ricerche. Dobbiamo servirci quindi di una cultura emotiva dell’incontro per mediare le nostre relazioni con quell’ambiente umano più vasto. 

  Il nostro problema è che quella cultura non c’è, va costruita, e senza di essa ciascuna persona rimane confinata nel proprio particolare o, addirittura, nella propria individualità. Di solito, infatti, in religione ci serviamo dei riti, che definiamo liturgie, parola che etimologicamente richiama un’azione di massa, ma non c’è ne sono per processi sinodali di base, perché da secoli il popolo, intendendo  coloro che non appartengono al clero o ad ordini religiosi, ne sono stati emarginati. Questo perché si è ritenuto che dovessero semplicemente seguire dei pastori al modo di un gregge, temendone il pluralismo. Durante il Concilio Vaticano 2º, preso atto che la complessità delle società contemporanee richiedeva la loro partecipazione ai processi decisionali, si cercò di coinvolgerli maggiormente, ma, appena si iniziò a farlo, nel corso degli scorsi anni ’70, la nostra gerarchia temette di perdere il controllo del processo e tutto fu sospeso. Ragione per la quale, ancora ai tempi nostri si raccomanda ai laici la partecipazione ma non la si consente, non creandone una cultura adeguata. Questa umiliante condizione è all’origine dei problemi della nostra Chiesa, come di altre Chiese cristiane, perché si finisce per servirsi della religione più che altro nel suo aspetto rituale per celebrare con più solennità le feste della vita, in un contesto propiziatorio o consolatorio, altrimenti appare inutile e addirittura controproducente.

  Quando le masse religiose vengono radunate per un grande evento religioso, vi partecipano solo come comparse chiamate a fare e a dire ciò che si dice loro, secondo un certo copione, nel quale il ruolo principale, nel quale si può veramente comunicare qualcosa, è riservato al celebrante, appartenente al clero.

 In un processo sinodale parrocchiale dobbiamo cercare di organizzare occasioni di incontro nelle quali quel migliaio di persone che vorremmo coinvolgere emergano dall’anonimato e si facciano conoscere. L’unico metodo praticabile è convocarle per gruppi limitati che mantengano una certa capacità di relazione e dialogo con gli altri gruppi mediante elementi culturali adeguati. Ciò significa anche costruire una cornice istituzionale adeguata, una specifica ritualità, inserendovi elementi emotivi che di solito hanno origine artistica. Quanto a questi ultimi l’architettura ha storicamente svolto una funzione  molto importante: le chiese cristiane come costruzioni architettoniche sono sotto questo punto di vista potenti macchine cognitive.

 Negli anni ’90 la nuova chiesa parrocchiale venne progettata architettonicamente per rappresentare l’incontro secondo le concezioni che vi avevano preso piede nel decennio precedente. Da ultimo, con la costosa realizzazione del presbiterio e del grande altare centrale, si completò l’opera. Con tutta evidenza la nostra chiesa parrocchiale venne pensata per una neocomunità molto coesa e affiatata di dimensioni molto inferiori a quella che ora costituisce per noi l’obiettivo del processo sinodale. Una scelta che ora è impossibile correggere, perché non possiamo pensare di ricostruire la nostra chiesa parrocchiale, ma anche, in fondo, inutile, perché si deve comunque procedere per gruppi limitati, anche per radunare quel migliaio. Rimane il rimpianto di aver subito decisioni così importanti senza il minimo coinvolgimento della base dei fedeli della parrocchia, salvo che per chiedere loro un contributo economico.

3.13. Comunità aperta.

L’ambiente comunitario della nostra parrocchia è ancora piuttosto debole.

  Nella riforma della catechesi progettata negli anni ’70 si riponevano troppe speranze sulla capacità di educare alla fede per l’effetto dell’inserimento in una comunità. Questo perché si diffidava abbastanza di quell’attività di coinvolgimento e costruzione sociale che definiamo mediazione culturale.

  In generale si pensava alla  cultura religiosa  come un dato preesistente, completo e immodificabile e la vita comunitaria come un semplice metterla in pratica  in modo che le intense relazioni che caratterizzano le comunità la sorreggessero e la veicolassero. Sottinteso vi era anche il confidare nella possibilità di esclusione del membro di una comunità educante  qualora si manifestasse deviante verso la cultura religiosa normativa. Non venne inteso il significato di coartazione della libertà di coscienza che vi era insito, dissonante con i principi deliberati nella Dichiarazione sulla libertà religiosa “Della dignità umana – Dignitatis humanae” durante il Concilio Vaticano 2°.

  In realtà quella concezione di cultura religiosa, che direi totalitaria, non corrisponde alla realtà della fede delle persone, che reagisce con la loro vita, e quindi con le loro esperienze sociali, e in definitiva è sempre in via di costruzione. La storia delle nostre Chiese può convincerci che è sempre stato così. La fede  vissuta comunitariamente evolve continuamente.  L’unica fede che non evolve è quella morta.

  L’ossessione dell’uniformità culturale intesa come ortodossia, che purtroppo ha caratterizzato le nostre comunità fin dalle origini e ha causato gran parte del male sociale che esse espressero, conduce inevitabilmente al ricatto comunitario, secondo il quale chi non si conforma alla cultura ritenuta normativa nella comunità di riferimento è minacciato di esclusione, ed effettivamente escluso quando persiste. Bisogna dire che dai vertici ecclesiali è in genere venuto un cattivo esempio in questo campo, ma non vi è per noi alcuna possibilità di produrre una riforma a quel livello. In una realtà come quella parrocchiale, invece, si può tentare.

  Questo è un aspetto molto importante di un processo di riforma parrocchiale volto a potenziare l’elemento comunitario. Infatti, l’esigenza di ottenere dalle persone un conformismo a certe prassi ritenute normative perché corrispondenti a un dato modello di cultura religiosa conduce fatalmente alla chiusura  verso tutto ciò che c’è intorno, anche nell’ambito della stessa parrocchia, in qualche modo considerata una società carente e da riformare, insomma, qualcosa assimilabile a ciò che nel gergo religioso viene definito, in senso negativo, mondo.

  La chiusura si fa tagliando legami, impedendone di nuovi e saturando con quelli all’interno della comunità di riferimento quelli di cui una persona è capace, che non sono molti. Per chiudere con più efficacia si cerca di ridurre le dimensioni delle comunità in cui una persona è inserita, operando una selezione, per aumentare l’intensità della forza comunitaria centripeta. Le relazioni infatti si fanno molto più intense nei piccoli gruppi e la psicologia ci parla proprio di specifiche dinamiche dei piccoli gruppi che vengono utilizzate, ad esempio, nelle procedure di riabilitazione dopo traumi. Se la persona vive la fede prevalentemente o addirittura esclusivamente in piccoli gruppi totalitari di quella natura certamente è coartata più efficacemente al conformismo sociale, ma vive anche in una realtà sociale per così dire artificiale, che assomiglia a una serra. La persona vi sta piantata lì e attende le cure di chi si attribuisce le mansioni di agricoltore: è addirittura peggio della metafora comunitaria del gregge, con il pastore che se ne prende cura. In entrambi i casi si ha una  disumanizzazione  indotta dalla comunità, con persone spinte a pensarsi piante  o  pecore.

  La parrocchia concepita come  comunità di comunità-serra è in realtà un ambiente in cui ogni persona è estranea alla maggior parte delle altre e, quindi, è comunità solo di nome: non può esistere comunità quando si rimane estranei. E non basta quel poco di consuetudine liturgica che si ha, perché in essa, per come di solito è svolta, la gente è nelle condizioni di semplice comparsa in uno spettacolo in cui il copione è scritto da altri e i protagonisti sono altri. Se le relazioni comunitarie si riducono prevalentemente a quelle liturgiche esse sono ben poco come relazioni e, in realtà, sono relazioni solo immaginate.

 Come ho scritto, però, coinvolgere anche solo quel 7% delle persone del quartiere che viene regolarmente a messa la domenica richiede di organizzare incontri per piccoli gruppi di approfondimento. Come evitare, allora, il totalitarismo comunitario che ne può derivare? Innanzi tutto rifiutando il ricatto  comunitario di cui ho scritto e poi, molto semplicemente, facendo ruotare le persone tra i vari gruppi di approfondimento, in modo che acquisiscano una consuetudine con molta più gente, e, innanzi tutto, si abitui a non temere ciò che c’è fuori dai gruppi di persone con cui si è più in sintonia.

  Anche il nostro gruppo di Azione Cattolica parrocchiale deve cominciare a praticare quell’apertura, dando il buon esempio. Naturalmente occorre però dare una cornice organizzativa e istituzionale, vale a dire progettare un nuovo ambiente sociale destinato agli incontri che chiamerei sinodali, perché si sta ragionando in preparazione del processo sinodale che si vorrebbe far partire dal prossimo ottobre.  La sede propria per questa deliberazione è il Consiglio pastorale parrocchiale, di cui in genere i fedeli della parrocchia sanno poco, ad esempio, chi vi partecipa, che si fa, che si è deciso.

3.14. La lezione della storia.

Quando, ormai più di vent’anni fa, san Karol Wojtyla, avvicinandosi gli eventi del Grande Giubileo dell’Anno 2000, volle guidarci, con la sua autorità di Papa, nel lavoro che chiamò purificazione della memoria, vale a dire nel far memoria veritiera del nostro passato ecclesiale per non ripeterne il male che aveva espresso, pose consapevolmente le basi per un inedito processo di riforma. Infatti, in genere, quella memoria era stata pesantemente alterata per ragioni di politica ecclesiastica e solo così facendo, ad esempio, si può favoleggiare di origini a cui si dovrebbe tornare perché realmente più virtuose a confronto con il nostro oggi. 

 Anche solo accostando ad un primo livello di comprensione la storia realistica  di quelle origini si capisce bene infatti, innanzi tutto, che esse furono fortemente pluralistiche, per cui non esprimono un solo modello sociale, poi che furono ben poco virtuose dal punto di vista della ricerca di una convivenza pacifica e solidale, il nostro attuale problema dei problemi, e, infine, che il tipo di organizzazione ecclesiale a cui siamo abituati emerse in un processo assai travagliato solo dopo circa un secolo da quelle origini. 

 E quel travaglio significò lotte, violenze, esclusioni reciproche, alle quali vanamente si cercò di porre rimedio con quello che oggi chiamiamo spirito sinodale, venendo composte, sempre però precariamente, solo quando la teologia politica dei cristianesimi creò un’ideologia adatta ai tempi nuovi, che fu strumentalizzata nel grandioso processo di riforma dell’impero romano promosso dall’inizio del Quarto secolo, a seguito del quale l’autorità politica impose la definizione delle principali controversie teologiche nel modo ad essa  politicamente più conveniente, in modo da accreditare la propria neo-autorità imperiale come quella di un luogotenente del Cielo, vescovo universale e insieme vicario, il modello poi adottato nell’Undicesimo secolo nella costruzione teologica e politica di un Papato Romano imperiale.

  In Italia la materia della storia del cristianesimo è rimasta con quelle del diritto canonico e del diritto ecclesiastico, tra gli insegnamenti con affinità teologica ancora praticati nelle università statali, mentre la teologia vi fu espunta, e questo ha consentito un pensiero in questi campi libero dai pesantissimi condizionamenti ecclesiastici ai quali gli insegnamenti teologici furono soggetti, e quindi maggiormente affidabile, perché non vi può essere ricerca affidabile che non sia anche libera. Nella storia del cristianesimo  si sono distinti in Italia gli  insegnamenti impartiti nell’Universitá La Sapienza di Roma, fondata dal Papato e acquisita dal nuovo Regno d’Italia dopo l’unità nazionale.

3.15. Cultura religiosa.

Negli scorsi anni Cinquanta i laici italiani  cominciarono a contare di più nella nostra Chiesa, questo essenzialmente per il ruolo politico nelle vicende nazionali che si erano dimostrati capaci di svolgere. Era stato il risultato di un lungo processo di formazione che si era svolto prevalentemente in Azione Cattolica, organismo costruito dal Papato agli inizi del Novecento, nei tempi bui della persecuzione antimodernista, proprio al fine di costituire una forza sociale e politica che sostenesse le sue rivendicazioni politiche. La nuova associazione, in realtà fatta di un complesso coordinato di associazioni di settore, aveva presto superato le aspettative clericali, finendo per costruire ed esprimere una multiforme cultura democratica. Poiché l’Italia, ormai organizzata politicamente come stato nazionale, era divenuta una sorta di laboratorio politico del Papato, i principi fondamentali di quell’esperienza  finirono per orientare la politica ecclesiastica mondiale, anche se la cultura teologica che venne impiegata per pensare il nuovo corso ci provenne in gran parte da intellettuali francesi, in particolare da filosofo Jacques Maritain (1882-1973) e dai teologi Yves Congar (1904-1995) ,domenicano, ed Henry de Lubac (1896-1991), gesuita. Giovanni Battista Montini apprezzò particolarmente il pensiero del primo e, al termine del Concilio Vaticano 2º, consegnò da Papa a Maritain il messaggio del Concilio agli uomini di pensiero e di scienza. Questo nuovo clima culturale influì molto anche in Germania, un’altra nazione europea che era finita in preda al fascismo e nella quale i cristiani, protestanti e cattolici, dal secondo dopoguerra svolsero un ruolo fondamentale nella ricostruzione politica ed economica nazionale, mentre durante il passato regime erano stati prevalentemente silenziati e asserviti, non essendosi manifestato il quel Paese qualcosa di analogo al clericofascismo italiano. Non sono d’accordo, quindi, con un commentatore politico italiano il quale  ha scritto l’altro giorno che la lunga egemonia politica dei cattolici italiani, durata dal ’46 al ’94, sia stata “accidentale”: in realtà si colse ciò che era stato a lungo  seminato.

  Lo stesso può dirsi a proposito dei nostri attuali problemi ecclesiali, ai quali ci si propone di porre un rimedio con il processo sinodale diffuso che inizierà dal prossimo ottobre.

  La politica ecclesiale   degli ultimi decenni prima del regno di papa Francesco non si è rivelata  tanto positiva per l’Italia, tesa com’era fondamentalmente a sopire, anche con una pressione disciplinare su clero e religiosi, i fermenti che si erano manifestati nella nostra Chiesa negli anni Settanta, quelli in cui si cercò di attuare i principi deliberati durante il Concilio Vaticano 2º. Ne è derivato un certo clericalismo tra i laici italiani che ne ha ridotto la capacità di pensiero innovativo anche nel campo loro più proprio delle cose sociali e politiche. Del resto era proprio questo che si voleva produrre. Finora quindi gli appelli ad un loro nuovo protagonismo che ciclicamente sono venuti dai vescovi italiani e dai Papi dal 2005 sono andati delusi. Come i chierici e i religiosi, i laici temono l’emarginazione esponendosi. Così anche  i vibrati appelli al rinnovamento venuti dal 2013 da papa Francesco non hanno avuto ancora una buona accoglienza.

  È importante quindi, cercando di liberarsi delle semplicistiche parole d’ordine, vuote di senso, dell’ecclesialese clericale, provare a riprendere a ragionare di cultura religiosa nella prospettiva dei laici, cercando di non pasticciare troppo con la teologia, che, in passato, ha fatto più danni che bene nelle cose sociali. Come ho scritto, meglio attenersi alla teologia scritta nei documenti del Concilio Vaticano 2º, definita dal Montini il “catechismo dei nostri tempi”. Basta e avanza. E per capirla ci vuole  comunque molto impegno.

3.16.Rimanere sulla Terra nelle cose sociali.

I maestri di spiritualità raccomandano di limitare l’immaginazione man mano che si progredisce nel farsi pervadere dalla fede. Presentano questo metodo come uno sbucciare una cipolla, strato dopo strato. L’immaginazione, infatti, inganna e va considerata come le rotelle delle biciclettine dei bimbi che imparano a pedalare.

  Purtroppo, invece, quando tra laici ci si incontra tentando di realizzare un nuova esperienza comunitaria, l’ecclesialese che ci si sente in dovere di praticare complica le cose. Si tratta, in definitiva, di cercare di andare d’accordo nelle relazioni quotidiane che riguardano le cose elementari. Questo ci esime dal travaglio della teologia, della quale, in genere, si ha poca dimestichezza, finendo per uscirsene non di rado  con quelli che a un competente apparirebbero degli strafalcioni. Del resto, a ben vedere, il Maestro non fu un teologo e si scelse come discepoli più cari delle persone incolte. 

  Questo non significa che la teologia non serva, perché in realtà ci è necessaria per capire come considerare le nostre complicate società nell’ottica di fede e quindi anche per trovare orientamenti. Ma è necessario esserci acculturati e, per insegnarla con competenza, anche specificamente formati. La teologia, infatti, dall’Undicesimo secolo è stata costruita come scienza, non come letteratura generalista e tanto meno come un complesso di confuse ed estemporanee  chiacchiere ispirate. Tuttavia, naturalmente, si può, e anzi si deve, descrivere la propria fede parlando e scrivendone senza per questo doversi fare prima teologo. Questo pone al riparo da una certa presunzione e anche ad una qualche aggressività che storicamente si è quasi sempre manifestata nel discorso teologico, e questo fin dalle origini, quindi ancor prima che la teologia avesse statuto scientifico e richiedesse pertanto un discorrere rigoroso, vale a dire conseguente con le premesse.

  Ho notato che gli incolti in teologia, quando parlano in ecclesialese, il confuso gergo a sfondo teologico che sembra di prammatica quando i laici che hanno qualche funzione ecclesiale discorrono in presenza del clero, hanno l’anatema facile, mentre, ai tempi nostri, i teologi per così dire professionali, e si possono fregiare del titolo solo coloro che hanno conseguito un dottorato, vale a dire un grado accademico  specialistico post laurea, sono in genere  molto più cauti e tolleranti.

  Quando costruiamo le nostre società di prossimità cerchiamo anzitutto di avere presente il comandamento evangelico dell’agápe, che significa fare società in modo amicale, misericordioso, benevolo, solidale, e, facendo tesoro dell’esperienza ecclesiale di sempre, attestata finanche negli scritti nel neotestamentari, cerchiamo di non impuntarci su questione di parole, considerando la tentazione di escludere i dissenzienti come quella  di un peccato grave. Che nessuno di noi, che non ne abbiamo ricevuto la specifica funzione, osi mai dire ad un’altra persona “Tu non sei di Cristo!”.

  Teniamo a freno lingua e immaginazione, facciamo elenchi di cose da fare insieme e dividiamoci i compiti da buoni amici, cercando di essere costanti nel rispettare gli impegni presi.

3.17. Il Sinodo in parrocchia.

 Le nuove norme canoniche sul Sinodo dei vescovi prevedono una fase di consultazione del popolo. In passato attività del genere non hanno veramente coinvolto la gran parte dei fedeli ma solo alcuni dirigenti di associazioni e movimenti, in genere docili verso i vescovi, come piace loro.

  Questa volta il Papa vorrebbe qualcosa di più, vale a dire un processo sinodale diffuso, del quale tuttavia non vi sono precedenti e dunque non si sa come farlo.

   Innanzi tutto, al di fuori del Sinodo dei vescovi si può decidere qualcosa? Ancora non si sa bene che cosa saranno chiamati a decidere i vescovi, che sul punto, al di là di propositi piuttosto vaghi, non si sono sbilanciati. E se poi le proposte non incontrassero il favore del Papa?! mi pare pensino i più: meglio aspettare che ci dia l’imbeccata. I loro timori sono del tutto fondati. Per la struttura autocratica della nostra Chiesa, contrariare il Papa regnante può costare molto in termini di carriera.

  In una parrocchia, quelle considerazioni di potere non ci sono e, in genere, chi voglia può avere un’idea chiara dei problemi. Il ruolo che vi hanno i laici è umiliante. Occorre cambiare. Si può tentare di farlo sfruttando gli spazi di autonomia che già ci sono, senza creare problemi geologici. Se ne può discutere non solo nei consigli e nelle equipe, ma in occasioni d’incontro strutturate come processo sinodale di base.

3.18.Le origini storiche dell’umiliazione dei laici.

Trascrivo da

NEUNER Peter, Per una teologica del popolo di Dio, 2015, pubblicato in traduzione italiana da Queriniana, 2016:

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 Nella bolla Clericos laicos (1296) il papa [Bonifacio 8º] constatava perfino che “è antica tradizione che i laici siano sommamente nemici dei chierici, e anche le esperienze del tempo ne danno conferma”. Sebbene affermazioni di questo genere siano state determinate da situazioni concrete di conflitto politico con il re di Francia, con esse è stata fissata per iscritto, anche dal punto di vista teorico, la contrapposizione tra clero e laici, rispettivamente la subordinazione e la sovraordinazione nella chiesa di due classi in conflitto l’una contro l’altra. E questa idea entrò nel diritto canonico. Graziano, il “padre della giurisprudenza ecclesiale” del 12º secolo: “Ci sono due tipi di cristiani. Il primo, in quanto incaricato del servizio divino e dedito alla contemplazione e all’orazione è conveniente che stia lontano dalle cose temporali. Di esso fanno parte i chierici e coloro che sono dedicati a Dio e cioè i religiosi.” Questi “sono i re”. L’altro tipo di cristiani è costituito dai laici. A costoro è permesso possedere beni temporali, ma solo per l’uso…A costoro è concesso di sposarsi, coltivare la terra, giudicare tra uomo e uomo, pagare le decime, così potranno salvarsi se però eviteranno il vizio e faranno il bene”.

  In questo modo fu tracciata e fissata una chiara linea di separazione nella chiesa. Da una parte o in alto stanno coloro che hanno un un ufficio ecclesiastico, che sono legittimamente ordinati e conducono una vita conforme alle regole di perfezione cristiana. Questi sono i chierici; solo loro sono deputati al culto divino. [Accanto o sotto sta la gran massa dei laici che a tutto questo non è chiamata e che per questo conduce una vita nello stato di “imperfezione”. Le due parti non formavano una comunità, ma erano rispettivamente sovra- e sub-ordinate l’una all’altra.

  L’immagine della chiesa è chiara: i cristiani veri e propri sono i chierici. L’ordine dei laici va inteso in definitiva come una concessione alla debolezza umana. […] Il chierico è il cristiano perfetto, il laico è cristiano solamente nella misura in cui la sua vita si accorda con quella di un chierico. Ciò che lo distingue dal chierico è anche ciò che limita e oscura la sua esistenza cristiana. Terminato il periodo dei martiri delle origini cristiane, quasi tutti i santi, che sono diventati esempio di fede, appartengono all’ordine dei chierici: sono fondatori di ordini religiosi, monaci e monache,vescovi o papi. Il laico, sebbene non in via di principio, di fatto non sembra avere nessun accesso alla santità fini a quando rimane in “stato di imperfezione” e non abbandona il mondo.

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 Quell’ordine di idee descritto da Neuner è cambiato a seguito del Concilio Vaticano 2º, anche se nella pratica i cambiamenti non sono stati del tutto conseguenti. Sotto il regno del papa Giovanni Paolo 2º è quello dei suoi successori cominciarono ad essere proclamati molti beati e santi che furono laici  e proprio a motivo della loro vita da laici. Caratteristica comune a tutti era però la sottomissione all’autoritá ecclesiastica, nonostante tutto, anche nonostante la sua discutibile virtù. E nella vita ecclesiale i laici, e soprattutto le laiche, in genere vengono tenuti in una condizione di umiliante soggezione, come se fossero ancora appendici non necessarie dell’apparato istituzionale costituito da chierici e religiosi. Non vengono veramente coinvolti nei processi decisionali, anche quelli nelle realtà di prossimità, vengono trattati con esasperante sufficienza, non ci si cura della loro formazione di secondo livello salvo che per i rudimenti in preparazione del matrimonio.

3.19. Insufficienza della spiritualità miracolistica.

“Anche oggi, il mondo ha bisogno di vedere nei discepoli del Signore dei profeti, cioè delle persone coraggiose e perseveranti nel rispondere alla vocazione cristiana. Persone  che seguono la ‘spinta’ dello Spirito Santo, che le manda ad annunciare speranza e salvezza ai poveri e agli esclusi; persone che seguono la logica della fede e non del miracolismo; persone dedicate al servizio di tutti, senza privilegi ed esclusioni. In poche parole: persone che si aprono ad accogliere in sé stesse la volontà del Padre e si impegnano a testimoniarla fedelmente agli altri”.

[papa Francesco, discorso ai fedeli dopo l’Angelus, il 3-2-19]

 

  Il miracolismo  è la spiritualità basata su pretesi fatti prodigiosi. Essa non è adeguata per la formazione dei laici che devono partecipare alla vita sociale per cercarvi di affermarvi i principi evangelici. Eppure è largamente utilizzata per affascinare la gente meno acculturata alla fede o, comunque, come scorciatoia formativa. In questo senso è ancora uno strumento del potere clericale. Quest’ultimo, nella propria sacralizzazione, si ammanta di simboli che rimandano a fatti prodigiosi ostacolandone una revisione critica.

  Una formazione fondata sulla fiducia nei prodigi, centrata su luoghi e persone miracolanti, è povera, insufficiente, anche se produce belle e immaginifiche narrazioni. Le nostre società non cambieranno se ci limiteremo a pregare e ad attendere un miracolo. I poteri sociali, compresi quelli ecclesiastici, non potranno che degenerare se non troveranno sufficiente capacità di critica sociale intorno a loro. E l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, come insegnava Lorenzo Milani, grande anima.

  Si magnificano presunti prodigi e si è talvolta incapaci di riconoscerne uno vero, frutto del lavoro determinante svolto da cristiani in collaborazione con altri movimenti di virtuosi, vale a dire gli oltre settant’anni di pace europea, un evento senza precedenti nella storia umana. È stata anche opera nostra e, religiosamente, confidiamo che vi abbia posto mano anche il Cielo. La nostra gerarchia appare in genere, ma vi sono eccezioni virtuose, incapace di ammetterlo e, al più, si affida a un vago populismo che si è rivelato storicamente incapace di produrre null’altro che precarie agitazioni, o addirittura si concede a tentazioni francamente reazionarie.

  La costruzione sociale è arte che si impara e, in quanto produce pace, è via di santità per quelli che la percorrono, scegliendo di rimanere nel mondo per agirvi come fermento, non di fuggirlo cercando di creare oasi di pretesa santificazione.

  Purtroppo la formazione di secondo livello dei laici, quella che si fa alle soglie della vita adulta e quella permanente che dovrebbe continuare sempre, è sotto questi aspetti gravemente insufficiente, e in genere la si riempie di una stucchevole spiritualità miracolistica la quale, oltre ad essere inutile per un laico, disgusta, del tutto a ragione, i più.

3.20. Tempi nuovi, tradizioni e Tradizione.

Tempi nuovi iniziarono subito dopo la morte del Maestro, ma durarono solo fino al terzo giorno. Dopo la sua Resurrezione ne iniziarono altri ancora, dei quali si narra negli scritti biblici neotestamentari, durante i quali egli fu di nuovo tra i suoi e in mezzo alla gente per un po’ di tempo, per poi allontanarsene nuovamente in modo prodigioso, promettendo di ritornare nella gloria, dando così inizio ad altri tempi nuovi ancora. Da quel momento cominciò  la riflessione sociale per interpretarli. Innanzi tutto: quando sarebbe tornato e che fare fino ad allora? Le attese di un ritorno veloce andarono deluse nei decenni successivi. Si cominciò a pensare di non avere idea precisa di quando sarebbe accaduto. Così le comunità delle origini si organizzarono, ciascuna secondo la propria cultura, per durare, in una condizione di vasto pluralismo che non c’è più e che durò circa un secolo, nel corso del quale morirono tutti i testimoni diretti degli eventi evangelici, dei quali circolavano varie tradizioni. Da queste ultime, procedendo la strutturazione sociale e istituzionale delle nostre prime comunità, che presto manifestarono il costume di volersi tenere in contatto, in particolare per ragionare di questioni di fede e di vita sociale nella fede, scaturì quella che i teologi cattolici chiamano Tradizione e che ritengono normativa per essere riconosciuti socialmente come cristiani. Essa viene pensata come un deposito culturale da trasmettere di generazione in generazione e i cattolici ritengono che risalga agli apostoli, i discepoli che ricevettero direttamente dal Maestro l’incarico di trasmettere il suo insegnamento in tutto il mondo, attraverso una serie di incarichi successivi tra i loro successori. Di questo si può leggere nella Costituzione sulla Divina Rivelazione La Parola di Dio – Dei Verbum, deliberata nel corso del Concilio Vaticano 2º (1962-1965). In altre Chiese cristiane ci sono diverse concezioni sulla natura e rilevanza della Tradizione.

  Leggiamo in quel documento del Concilio:

 

Gli apostoli e i loro successori, missionari del Vangelo

7. Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la Rivelazione di Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l'Evangelo, prima promesso per mezzo dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai suggerimenti dello spirito Santo, quanto da quegli apostoli e da uomini a loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza.

Gli apostoli poi, affinché l'Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i vescovi, ad essi « affidando il loro proprio posto di maestri ». Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell'uno e dell'altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com'egli è (cfr. 1 Gv 3,2).

La sacra tradizione

8. Pertanto la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi. Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto, ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce che per iscritto (cfr. 2 Ts 2,15), e di combattere per quella fede che era stata ad essi trasmessa una volta per sempre. Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede. 

Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio.

Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega. È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16).

 

 Ciò sintetizzato, servendoci di un documento dell’ultimo Concilio,  per quanto riguarda gli aspetti del problema trattati nella teologia cattolica, bisogna osservare che, nel corso della storia delle Chiese cristiane, e specificamente della nostra, la quale cominciò a manifestare le caratteristiche che specificamente la distinguono dalle attuali altre tra l’Undicesimo e il Quattordicesimo secolo, si manifestarono altre tradizioni culturali in materia di fede che non vengono comprese in ciò che si ritiene costituisca la Tradizione, benché su questo punto si sia molto discusso e ancora si discuta. Poiché la storia delle nostre Chiese non ha avuto connotati particolarmente diversi da quelli delle altre società e quindi non è stata particolarmente virtuosa, valutata secondo i criteri evangelici, e, ad esempio, ha compreso il coinvolgimento in una serie lunghissima di sanguinosi conflitti, discriminazioni razziali e di altro genere, abusi di potere di ogni tipo, anche quelle altre tradizioni non sono state da meno.

  In genere chi è riuscito a comandare in religione, non di rado valendosi del potere politico che di fatto o di diritto era riuscito a conquistare, ha cercato storicamente di inglobare le tradizioni, in particolare quella specifica che legittimava quel suo potere, nella Tradizione, in modo da sacralizzare il proprio potere. Ad esempio, fino al Concilio Vaticano 2º si riteneva ancora tra i cattolici che nella Tradizione fosse compresa la sottomissione della donna all’uomo, e ciò, va rilevato, contro i costumi dei cristiani in quel primo secolo in cui si confrontarono e formalizzarono in testi scritti le varie tradizioni evangeliche.

  Nel lavoro di purificazione della memoria al quale ci guidò san Karol Wojtyla da Papa è compreso anche quello di distinzione tra le tradizioni storiche e la Tradizione, che consideriamo come il tesoro prezioso da consegnare intatto alle generazioni successive. Nonostante spesso lo si dubiti, non è un lavoro solo per teologi, perché tutti noi, nell’interazione sociale partecipiamo incessantemente  alla creazione e trasmissione di tradizioni e quindi di esso siamo anche responsabili personalmente. Ma ad esso si dovrebbe anche essere formati, gli autodidatti non hanno dimostrato di farlo granché bene, ma questa formazione è oggi in prevalenza riservata a clero e religiosi. Così  sembra che tra loro e noi laici si parlino lingue diverse e spesso i laici manifestano una condizione di umiliante ignoranza, che è reale, certo, ma dipende  fondamentalmente da un inadempimento di chi ha avuto la missione apostolica di rimediarvi.

3.21.Le relazioni creano il senso della vita.

Quando iniziai il catechismo dell’infanzia, che ebbi proprio nella nostra parrocchia,  cominciarono con lo spiegarmi chi era Dio. Forse avrebbero fatto forse meglio a spiegarmi prima  chi ero io. Capii confusamente di essere qualcuno nella massa degli uomini, nella specie dei bambini e che, come tale, avevo degli obblighi assai vasti di obbedienza nei confronti dei miei genitori, innanzi tutto, e poi di coloro che ne facevano le veci, nonne, preti, maestri e poi l’Akela dei lupetti. In cima a tutti c’era questo Dio, che fondava il potere di tutti gli altri sotto e che poteva mandarti all’inferno, per sempre, per la minima disobbedienza. Per molti la religione rimane essenzialmente questo, anche quando la riscoprono in altre stagioni della vita o,  addirittura, solo da anziani. La rivoluzione nella catechesi che si cercò di progettare negli anni ’70 cercò di presentare un diverso modo di vivere la fede, ma nella pratica non ci si riuscì mai, perché senza la sacralizzazione del potere di cui dicevo sembrava che tutto svanisse.

  Noi capiamo chi siamo mediante le relazioni sociali a cui partecipiamo nelle varie età della vita, nella quale troviamo un limite oggettivo come quello che ci si prospetta verso la fine. Se ne prese coscienza anche in religione negli anni ’60 e ’70 e si cercò quindi di organizzare la catechesi rinnovata in comunità educanti, le quali, però, finirono per manifestare un certo dispotismo, quando non realmente partecipate. Non basta, infatti, all’animo umano proporre di continuare a fare come tutti gli altri, e meno che mai secondo i costumi della famiglia di origine. Queste comunità ovile comunità serra, la cui caratteristica era la separazione dal resto della società per preservare nuclei di resistenti, creavano relazioni troppo povere, in particolare per i giovani, che per fisiologia sono spinti a rendersi autonomi. Inoltre finiscono  per selezionare elementi docili, l’urtante termine che purtroppo ricorre nel Magistero quando si rivolge ai laici, mentre gli altri prendono altre strade. La crisi dei modelli ecclesiali correnti è prima di tutto crisi di relazioni sociali, alla quale si cerca di porre inutilmente  rimedio con la spiritualità miracolistica e l’agitazione liturgica, la prima fortemente caratterizzante la seconda. Nell’attuale prassi liturgica il popolo, composto in massima parte da persone laiche, è ridotto al ruolo di mera comparsa adorante e non ha vera voce.

  Formare alla fede, come in ogni altro tipo di formazione vera, significa costruire società, quindi relazioni tra persone. Anche quella con Dio, come viene inteso tra i cristiani, va costruita, per questo non è mai la stessa in tutte le persone e anche nell’evolvere dei tempi.

   Da bambino, per come mi presentavano la religione, pensai che avrei finito per annoiarmene: man mano che crescevo mi resi conto che le persone, nella loro vita, non hanno mai veramente il tempo di annoiarsi perché essa è breve, troppo breve, e le stagioni della vita si succedono tumultuosamente, cambiando il mondo che percepiamo intorno perché cambiano le nostre relazioni con esso. Chi vuole fermare il proprio tempo, ad esempio sforzandosi di credere come quand’era bambino, rimane deluso, perché non funziona per quanto ci si sforzi, attivando l’immaginazione.

  Piuttosto la religione, se non tiene conto che le persone cambiano, diventa rapidamente inutile e, proprio perché il tempo della loro vita è poco, le persone tendono a non sprecarlo per ciò che si rivela inutile.

  La religione, come ancora oggi è presentata, diventa rapidamente inutile. Pochi tra i laici hanno il privilegio di approfondirla in modo da rendersi conto perché, invece, essa è stata amata da grandi anime del passato, e lo è anche oggi, e tra esse persone molto sapienti.

  Il miglioramento della formazione religiosa delle persone laiche, da non intendere strettamente come catechesi ma come costruzione sociale, è pregiudiziale all’esito del processo sinodale diffuso che si sta progettando nella Chiesa italiana dal prossimo ottobre, perché non si risolva nella solita, noiosa, insensata, pantomima paraliturgica, nella quale il ruolo delle persone laiche è più che altro quello di recitare ciò che leggono sul foglietto con la loro parte.

3.22.Nella storia molte risposte.

[Da FILORAMO Giovanni, Storia della Chiesa – 1. L’età antica, EDB, 2019]

 

 (pag.100-101) Il sorgere, nel corso del 2º secolo, di un’apologetica cristiana come difesa puramente razionale, senza ricorrere ad argomenti scritturistici e dunque alla rivelazione, delle proprie dottrine e pratiche, costituisce un momento essenziale nel formarsi della “grande Chiesa” che, in questo modo, dimostra di sapersi confrontare su un piano di parità con la cultura ellenistico-romana. Questo confronto non va inteso a senso unico. Le posizioni degli apologeti del 2º secolo, a questo proposito, variano tra una più concordistica, tesa a dimostrare l’importanza e la convergenza tra il meglio della ricerca razionale e il contenuto della dogmatica cristiana,e un’altra, più conflittuale, tesa di contro a sottolineare  l’irriducibilità delle verità di fede e quelle raggiungibili dalla ragione.

[…] Questo contrasto è già presente in Paolo […] ritorna negli apologeti nelle sue diverse risposte di Giustino e Taziano […] il primo, con la sua teoria del lògos spermatikòs [le idee sul rettò comportamento e il divino già presenti trama le genti prima della rivelazione cristiana], getta le basi di una teologia naturale che, tra alti e bassi, arriva al Concilio Vaticano 2º.

[…]

(pag.99) Il tratto distintivo della più antica apologetica cristiana, intesa come presentazione, su di un piano di plausibilità razionale, dei contenuti della fede non soltanto come mezzo di difesa del cristianesimo, ma nel contempo, ai fini di propaganda e diffusione, consiste nello sforzo di accreditare il cristianesimo presso la classe politica e intellettuale pagana come il solo interlocutore valido sul piano della politica religiosa; e questo, sia nei confronti delle forme tradizionali di religiosità, sia nel confronto del proliferare dei nuovi culti. La cooperazione tra cristiani e sistemi di potere del mondo corrisponde alla volontà di Dio come mezzo per facilitare la salvezza degli uomini.

[…]

(pag.105) Nel corso del 3º secolo, nonostante la violenta persecuzione di cui fu vittima a metà secolo prima sotto Decio poi sotto Valeriano, la Chiesa conobbe un processo di ampliamento e consolidamento […] quel che pare più probabile è che all’inizio del 4º secolo, al momento dello scoppio della “grande persecuzione” dioclezianea, essi [i cristiani] costituissero quasi il 10% della popolazione dell’impero, stimata intorno ai 70 milioni: una minoranza, ma significativa. Un caso a parte è rappresentato da Roma, per la sua posizione eccezionale in quanto capitale dell’impero: a metà del 3º secolo i cristiani potevano essere circa 40.000, tra il 5 e il 10% della popolazione, stimata a circa 7000.000. Ciò potrebbe spiegare il detto attribuito da Cipriano a Decio: “preferirei sentire che un imperatore romano è insorto contro di me piuttosto che vi sia un altro vescovo a Roma”. (Lettere 59,9).

 

*******************

   Nella formazione religiosa della gran parte delle persone, la storia non è presente e questo la rende povera. Inoltre va sprecato, dal punto di vista religioso, il prezioso patrimonio culturale che si acquisisce durante le scuole secondarie, che, invece, dovrebbe essere costantemente rinfrescato e arricchito nel corso della formazione religiosa. Quest’ultima, invece, per i più si indirizza presto verso una spiritualità di tipo miracolistico che riduce alla umiliante condizione di mero gregge nelle mani di un clero che, privo di un sufficiente apporto dei laici, appare incerto, insicuro, ondivago tra conservazione e atteggiamenti reazionari,  incapace di confrontarsi con la società intorno.

  Senza la capacità di mediazione culturale sviluppatasi nelle società dei cristiani tra il 2º e  il 3º secolo le chiese cristiane sarebbero state rapidamente riassorbite dalla società intorno, come accadde ad altri culti coevi. La mediazione per il potere politico influì poi potentemente, dal 4º secolo, sulle definizioni teologiche fondamentali, in particolare sulla cristologia e sul concetto di Regno, in un contesto culturale in cui gli imperatori cristianizzati iniziarono a rivendicare il ruolo di vescovi supremi e di vicari di Cristo.

3.23.Difficile Sinodo.

Il Sinodo della Chiesa cattolica tedesca, il cui inizio ha preceduto quello della nostra, spaventa taluni. Su teme che, volendo veramente coinvolgere tutti i fedeli, e non solo ritualmente, difficilmente si riuscirà a eludere i problemi, in particolare quello della umiliante condizione dei laici, e tra essi quella delle donne, e la crisi del sacerdozio ministeriale come stato di vita separato e privilegiato. Quindi penso che ci potrebbe essere la tentazione di sceglierà la via di ritualizzare e in tal modo di circoscrivere il contributo effettivo dei laici a quella parte di loro che ancora non si scandalizza di essere tenuto nella posizione di gregge.

  La situazione alla quale non si riesce a porre rimedio ha origini storiche e si è particolarmente inasprita dal 16º secolo, nella fase applicativa del Concilio di Trento (1545-1563). La maggior parte dei fedeli non ne ha nessuna consapevolezza, ma i preti sì, ne vengono informati nel corso del loro lungo iter formativo. Se ne tratta, ad esempio, in NEUNER Peter,Per una teologia del popolo di Dio, pubblicato nel 2015 in Germania e in traduzione italiana da Queriniana l’anno successivo. Ne cito di seguito alcuni brani.

 

(pag. 64-65)  La distinzione tra clero e laici caratterizzò l’ecclesiologia medievale che consisteva fondamentalmente in una dottrina della gerarchia e dei suoi poteri. Le immagini dell’unico popolo di Dio e dell’unico corpo di Cristo furono modificate in modo tale da non esprimere più l’unitá della chiesa, ma una separazione interna. […] La chiesa diventata una città con due popoli, l’uno raccolto dietro il papa, formato da vescovi,dai sacerdoti e dai monaci, l’altro raccolto dietro l’imperatore, formato dai principi, dai cavalieri, dai contadini, da uomini e donne.

[…] Clero e laici stavano gli uni di fronte agli altri in un atteggiamento di fondamentale ostilità, come chi domina e chi è dominato.

[…] Di fatto, i laici ora erano privati di tutto ciò che era significativo per la loro loro vita ecclesiale. Ora tutto questo apparteneva al clero.

[72-74] Nei decreti dogmatici del concilio [di Trento] il sacerdote è presentato come l’uomo dei sacramenti, caratterizzato dal potere di consacrare i doni eucaristici e di perdonare i peccati, vale a dire dai poteri che il laico non ha. […] I sacerdoti furono, per così dire, rapiti in cielo. Ne troviamo un esempio nel Catechismus romanus, un documento ufficiale che doveva rielaborare le decisioni del concilio di Trento per i parroci e le comunitá, nel quale si dice che “nessuna missione sulla terra è più sublime di quella dei sacerdoti e giustamente i preti sono chiamati non solo angeli, ma addirittura dèi, portando in sé stessi l’efficacia e la maestà della divinitá”.

[…]

  Nell’epoca che segue il concilio di Trento la Chiesa viene vista innanzitutto e prima di tutto come una grandezza suddivisa in classi, come una società di diseguali. […] L’impostazione era chiara: da una parte c’era la. Chiesa docente, dall’altra la Chiesa discente e obbediente. I fedeli sono le pecore delle quali si prendono cura i pastori. La loro funzione nell’annuncio è limitata a “testimoniare ciò che è stato loro insegnato dai pastori”. 

 […] Questa concezione della chiesa trovò la sua codificazione  anche nel diritto canonico.Questo era quai esclusivamente  un diritto riguardante il clero. I laici comparivano  quasi esclusivamente come oggetti di diritto, non come soggetti di diritti. […] [Nel sistema del codice di diritto canonico del 1917] i laici sono coloro dei quali ci si deve prendere cura e sui quali, per questo motivo [il clero] può esercitare le proprie potestà. E anche laddove ai laici viene aperta la possibilità di esercitare una parte attiva, come ad esempio nell’Azione Cattolica, nelle associazioni e confraternite, il diritto canonico deve fare in modo che tutte queste attività  possano essere compiute attentamente soltanto sotto la guida  e le direttive del clero. I laici, in definitiva, avevano soltanto il diritto di farsi accudire spiritualmente  dal clero e di adempiere alcune e ben circoscritte funzioni seguendo le indicazioni della gerarchia ecclesiastica. E quando un sacerdote veniva privato dei diritti speciali che gli spettavano nella chiesa,  questo atto veniva detto laicizzazioneriduzione allo stato laicale.

 

   Le deliberazioni del Concilio Vaticano 2º (1962-1965), che ebbe come centro di riflessione la Chiesa come popolo di Dio e di conseguenza la condizione del laicato, iniziarono a scostarsi da quegli sviluppi ideologici prodottisi essenzialmente nel Secondo Millennio della storia della cristianità, ma in modo incompleto, mantenendone fondamentalmente la concezione della struttura gerarchica. Inoltre, nella lunga egemonia di san Karol Wojtyla e e di Joseph Ratzinger ai vertici ecclesiali, caratterizzata da un marcato inasprimento disciplinare verso clero e religiosi, gli unici strati della popolazione cristiana rimasti quasi completamente nel dominio della gerarchia ecclesiale, si cercò di imporne una interpretazione fortemente restrittiva, nel corso di quello che con il senno del poi appare un lungo inverno ecclesiale caratterizzato dalla profonda diffidenza in particolare verso i movimenti laicali dell’Europa occidentale.

  Da ciò, sostanzialmente, la profonda crisi della partecipazione ecclesiale nella Chiesa cattolica italiana, dalla parte dei laici, ma anche di clero e religiosi, salvo frange reazionarie piuttosto bellicose e rumorose, ma pur sempre frange.

3.24. Le basi dogmatiche della riforma sui laici già esistono.

Peter Neuner, in Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016, osserva (pag.72-83) che l’inesorabile nuova dogmatica affermatasi nel Concilio di Trento (1545-1563), a seguito della quale la Chiesa venne vista innanzi tutto e prima di tutto come una grandezza suddivisa in classi, come una società di diseguali, con il clero che accentrava nella pratica la definizione dei principi, lasciando ai laici il solo compito di testimoniare ciò che era stato loro insegnato dai pastori, venne mitigata nei decreti di riforma del medesimo Concilio,  che ponevano al centro dei compiti di vescovi e sacerdoti la predicazione e la pastorale. Quest’ultima parte della riforma attuata con quel Concilio è sostanzialmente  sopravvissuta nelle concezioni alla base delle deliberazioni del Concilio Vaticano 2º, svoltosi circa quattro secoli dopo, mentre la dogmatica ecclesiale del Concilio di Trento appare radicalmente mutata, in particolare con la Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per genti – Lumen gentium. Semplicemente, non se ne sono tratte ancora tutte le conseguenze con riferimento in particolare alle posizioni e alle funzioni ecclesiali dei laici. È un lavoro che  deve coinvolgerci tutti, non essere confinato nella gerarchia, nella quale in anni passati, come dimostrato dall’esperienza storica della fase attuativa del Concilio Vaticano 2º, finora fallita, si sono manifestate tendenze per proporre una lettura restrittiva della nuova dogmal’attuarla. La legge generale di ogni potere politico, e quello della nostra gerarchia ecclesiale ha anche questa natura, ed è questo suo aspetto ad umiliare i laici, è quella di resistere ad ogni riforma che ne comporti limiti, prospettando la dissoluzione del corpo politico di riferimento. La fase attuativa del Concilio Vaticano 2º abortirà se, per la parte che riguarda il laicato, non sarà largamente partecipata dal laicato, mediante processi propriamente democratici e non solo sinodali.

    Poiché i profili dogmatici sono già stati faticosamente definiti e tenuto conto che la teologia cattolica in Italia, prevalentemente organizzata in università controllate dalla gerarchia mediante una asfissiante pressione disciplinare, tende a sopravvivere adattandosi agli orientamenti della gerarchia che attualmente spingono verso interpretazioni restrittive della dogmatica dell’ultimo concilio, è consigliabile muoversi nell’ottica della dogmatica conciliare, cercando di trarne tutte le possibili conseguenze in tema di laicato, invece che ulteriormente pasticciare confusamente in teologia, finendo stritolati da quella di corte fondamentalmente reazionaria ma capace di un pensiero raffinato.

  Il punto di forza del laicato è questo: l’attuale sua umiliante condizione ecclesiale deriva da una disumanizzazione delle persone di fede non appartenenti al clero, ridotte ideologicamente  alla condizione di gregge alla completa mercé di gerarchi ecclesiali, che in realtà si sono riconosciuti bisognosi del consiglio dei laici anche nei compiti loro propri della predicazione e della cosiddetta pastorale. Questo è dimostrato dalla riconosciuta ampia partecipazione di esperti laici alla redazione delle encicliche pontificie almeno dalla Delle novità – Rerum novarum del 1891. La direzione politica dell’organizzazione ecclesiale è arbitrariamente ancora riservata alla sola gerarchia del clero, anche negli aspetti che non toccano la predicazione e la pastorale, come quelli, ad esempio, dell’amministrazione e utilizzazione dei beni ecclesiastici, tipico il caso della Cittá del Vaticano ma la stessa situazione si ripresenta in un ambiente sociale di base come la parrocchia, e quelli delle relazioni politiche con i poteri civili, nelle quali ancora, ed arbitrariamente dal punto di vista della dogmatica, quando si parla della Chiesa si intende ancora solo la gerarchia ecclesiastica. 

  Dati i deliberati dogmatici del Concilio Vaticano 2º in materia di Chiesa è possibile uscire tranquillamente dalla politica ecclesiastica di impero religioso che ci ha connotati (solo) dal Secondo Millennio e costruire, a partire dalla pratica, quindi iniziando a farne tirocinio, forme più partecipate e meno umilianti  per i laici di essere e fare Chiesa. E non si deve temere per il fatto che una cosa del genere non ci sia stata mai nel passato, ed è vero, perché, sotto questo specifico  profilo, non abbiamo più esempi virtuosi ancora validi per il nostro oggi, ma una storia tremenda, veramente orrenda nella sua estrema, estesissima ed efferata violenza, dalla quale occorre distanziarci in quel lavoro di purificazione della memoria al quale iniziò a guidarci, nell’ultima fase del suo regno di Papa, san Karol Wojtyla e che ora sembra caduto un po’ in desuetudine. Questa storia sconvolgente non risale però alle origini e, in particolare, al nostro Maestro, mite e umile di cuore, ma a teologie politiche di molto successive, le ultime manifestazioni eclatanti delle quali si ebbero durante il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano 1º (1869-1870), travolto traumaticamente dagli eventi bellici italiani che portarono alla soppressione dello Stato Pontificio nel Centro Italia. Il Concilio Vaticano 2º inaugurò una nuova era.

3.25. La creazione del laico come costruzione sociale.

Il teologo tedesco Peter Neuner in Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016, ha sintetizzato molto efficacemente come la figura del laico e l’umiliante emarginazione dei laici nella Chiesa cattolica sia stata il frutto di costruzione sociale che si è sviluppata nell’arco di circa un millennio e che si è completata con le deliberazioni del Concilio di Trento, nel Cinquecento. Nelle prime comunità cristiane delle origini non esistevano preti sacerdoti né vescovi e tantomeno vescovi monarchi autocratici. Esse ci appaiono travagliante, all’interno e tra loro, da aspre polemiche e duri conflittu e questo è l’elemento che possiamo considerare realmente persistente nelle varie forme di cristianità che storicamente si sono manifestate, almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, epoca dalla quale, proprio con il contributo determinante di persone laiche, si è cominciato a vivere la fede diversamente e la pace sociale  non è stata più intesa come un’utopia realizzabile solo alla fine dei tempi ma come un concreto obiettivo politico-religioso. 

  Ancora oggi la cosiddetta gerarchia considera l’Illuminismo un nemico pericoloso e a ragione: con l’Illuminismo, infatti, dal Settecento, cominciò ad essere messa in questione la condizione sacralizzata del clero come parte migliore della Chiesa, destinata a dominare gli altri fedeli, ridotti alla condizione laicale.

 Scrive Neuner (pag.75):

Nonostante tutte le motivazioni teoretiche portate a sostegno della subordinazione dei laici al clero, questo stato di dipendenza si potè conservare soltanto fino a quando la formazione, almeno in ambito filosofico e teologico, fu riservata al clero. Non a caso il termine “laico” ha conservato sempre anche il significato di non-specialista.Questo presupposto cominciò a venir meno con llluminismo che rese accessibile la formazione a gruppi più ampi di persone. In ambito cattolico ciò avvenne con un certo ritardo perché l’Illuminismo, in molti suoi rappresentanti, specialmente in ambito francese, aveva assunto un profilo ostile alla chiesa e perché la Chiesa ufficiale aveva reagito mettendosi sulla difensive o sulle barricate nei confronti di tutti gli sviluppi moderni. Il Syllabus di Pio IX, del 1864, con il suo rifiuto di tutte le correnti e idee moderne e con la condanna dei tentativi di riconciliare la chiesa con il progresso, rappresentò il culmine e la sintesi di questa ghettizzazione della chiesa.

  Con l’estraniazione della chiesa da ampi settori del mondo e della cultura moderna, i laici furono quasi costretti ad esserne i rappresentanti nel mondo con il quale la gerarchia non voleva più  avere alcun contatto.

 

   Naturalmente la gerarchia contrastò duramente queste pretese di partecipazione dei laici (ma anche del basso clero, che in questo campo ne segui la stessa sorte) e, per rendere un’idea del clima dell’epoca, Neuner cita queste righe inviate da un prelato all’arcivescovo di Westminster, criticando le idee esposte da John Henry Newman nel saggi del 1859 Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina: “Se non sarà loro posto un freno, i laici inglesi diventeranno i capi della Chiesa d’Inghilterra prendendo il posto della Santa Sede e dell’episcopato. È del tutto esatto che Newman a Roma sia stato sempre sospetto…Qual è il campo dei laici? Andare a caccia, sparare, conversare. Queste sono le cose che capiscono; ma di immischiarsi nelle questioni della Chiesa, loro non ne hanno nessun diritto […] Il dottor Newman è l’uomo più pericoloso d’Inghilterra”.

  Una volta, negli anni ’70, mi fu raccontata una freddura che all’epoca circolava nei seminari, sulle posizioni dei laici nella chiesa, che sarebbero state: in piedi, in ginocchio, seduti e  con le mani al portafoglio.

  La viva diffidenza di clero e religiosi verso i laici è ancora chiaramente percepibile, ad esempio, quando, ad ogni richiesta di maggiore coinvolgimento nelle attività ecclesiali, si risponde loro che la Chiesa non è una democrazia. Sarebbe bene, per il bene della Chiesa, che i laici non accettassero più passivamente  uscite del genere, replicando con forza che purtroppo la Chiesa, come struttura di governo collettivo, quindi nella sua dimensione politica, non è ancora una democrazia e quindi vi si discrimina ingiustificatamente la maggior parte del suo popolo.

3.26.E’ necessaria la riforma della struttura politica ecclesiale.

Ogni struttura politica ha avuto origine storica ed è tale, vale a dire politica, perché serve per il governo della società di riferimento. Serve  nel senso che ne è strumento. I cristiani hanno tuttavia un’idea più virtuosa di quel servire, nel senso che il governo della società è messo nelle mani di taluni non nel loro proprio interesse, ma in quello dell’intera società, per cui essi lo devono esercitare come colui che serve, e questo è un principio evangelico. Quindi la politica serve per il governo della società, ma, poiché chi la esercita lo deve fare come colui che serve, allora  il governo della società deve servire  alla società, vale a dire essere finalizzato al suo bene, cioè bene comune, che, in un’ottica cristiana, deve essere concepito secondo criteri evangelici, quindi nello spirito dell’agápe. Secondo quest’ultima, ciascuno è ammesso benevolmente alla condivisione della tavola comune nella sua piena dignità di persona umana. Una struttura politica che, pur finalizzata al suo bene, lo umili e lo riduca, disumanizzandolo, ad animale, del quale pure ci si debba prendere cura, non risponde a quel criterio di agàpe. Essa va quindi riformata, in base a quelle semplici considerazioni, che non implicano alcuna sofisticata teologia. Non facendolo, quella struttura politica non serve più, in entrambi i sensi in cui il servire può essere inteso, e diventa oppressiva e fonte di sofferenze ingiuste, oltre che disfunzionale. Questo problema si è riproposto ciclicamente moltissime volte nella travagliata storia politica delle nostre Chiese, che, di solito, ci appare virtuosa nelle biografie personali, ma raramente nel suo aspetto istituzionale, nel quale soni prevalsi decisamente aspri conflitti per questioni di politica nell’interesse proprio di ceti di volta in volta emergenti.

  “Dio ha creato la gerarchia e così ha provveduto piú che a sufficienza ai bisogni della Chiesa fino alla fine del mondo”: così il teologo cattolico Johann Adam Mohler (1796-1838) [v. biografia in Enciclopedia Treccani in line] sintetizzò ironicamente “la concezione diffusa nel suo tempo, secondo la quale Cristo era venuto sulla terra per istituire con  Pietro il primo papà e con gli apostoli i vescovi, e che poi se ne era potuto andare, lasciando la chiesa all’autorità della gerarchia e del diritto” [da P. Neuner, Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016]. Mohler considerava la condizione dei laici cattolici al suo tempo come un’odiosa umiliazione del popolo di Dio provocata da quel concetto gerarchico di chiesa e si proponeva di dare un nuovo suono alla parola “laico”. La situazione dei laici cattolici di oggi mi appare di poco mutata.

3.27.Non perdersi d’animo.

 Di solito si sorvola sulla storia delle nostre Chiese perché si teme di spaventare i semplici. Se ne dà quindi una versione agiografica, vale a dire tesa a porne in risalto i soli elementi virtuosi, che certamente non mancano. 

  Tuttavia, in questo modo non se ne fa una memoria realistica e se questo può essere in qualche modo accettato quando ci si rivolge ai bambini, non è così nella formazione dei ragazzi e degli adulti, vale a dire delle persone nelle età in cui ci si deve confrontare con il male che c’è nella natura e con il male etico, sia individuale che sociale. Ognuno può facilmente constatare che queste specie di male sono presenti dovunque in noi e intorno a noi. La nostra Chiesa come struttura sociale, e quindi politica, ne sarebbe stata e ne sarebbe ancora esente? 

  Ma come può essere se già negli scritti neotestamentari, quelli particolarmente importanti perché ci parlano della vita e degli insegnamenti del Maestro e delle prime esperienze comunitarie dei cristiani, sono chiaramente presenti?

   Aggiungo che, se di solito ora cerchiamo di individuare in ogni problema del passato una parte della società che sbaglia consapevolmente sceglie una via cattiva, e che così facendo ne è responsabile, e ci sforziamo di non comprendervi mai chi nella nostra Chiesa esercitava il potere supremo, in realtà, sforzandoci di fare memoria veritiera del passato, ci accorgiamo che questo non ci è sempre possibile, e allora proponiamo comunque tesi giustificazioniste, osservando che chi comandò azioni discutibili in definitiva non può essere considerato soggettivamente colpevole, perché giudicava secondo la cultura del suo tempo e, anche se aveva ricevuto la Rivelazione, la interpretò secondo quella cultura, così come quella Rivelazione descriveva con le parole delle lingue da lui conosciute. A questo modo di pensare si può obiettare che la memoria realistica del passato serve a non ricadere nel male etico che vi è insito, non a condannare chi lo visse e impersonò, perché, dopo la morte di una persona, quel giudizio compete a Dio e a Dio solo. È addirittura un dogma della Chiesa cattolica, deliberato nel corso del Concilio di Trento (1545-1563), che nessuno, se non Dio,  possa dichiarare che una persona morta è sicuramente dannata. Insomma, un po’ semplicisticamente, mi sembra che si debba concludere che si possano proclamare beati o santi, ma non dannati. Questo per quanto riguarda le biografie individuali. Ma certamente non solo possiamo, ma anzi dobbiamo, riconoscere il male sociale, ma anche individuale, del passato per non ripeterlo. 

  Questo appunto il lavoro di purificazione della memoria al quale ci guidò san Karol Wojtyla nei tre anni di preparazione che precedettero il Grande Giubileo dell’Anno 2000. 

 Egli fu anche molto criticato per questo, appunto obiettandogli che il popolo cristiano avrebbe potuto esserne disorientato, ma nondimeno egli lo prosegui, celebrando in quella che chiamò la Giornata del Perdono, una liturgia in cui, il 12 marzo 2000, in San Pietro, come capo della Chiesa cattolica e a nome di tutti gli altri fedeli, chiese perdono a Dio del male etico di cui i cristiani si erano resi responsabili nei secoli passati. Oggi l’elencazione delle colpe da lui confessate in quell’occasione ci appare incompleta, perché non comprendeva esplicitamente quelle riconducibili all’esercizio del potere degli stessi Papi del passato. Essi, in particolare, storicamente si resero responsabili di scelte politiche che oggi ci appaiono addirittura malvagie, ad esempio quelle che discriminarono gli ebrei loro contemporanei nella vita civile. In quel campo noi non accettiamo più nemmeno l’insegnamento di alcuni dei più importanti Padri della Chiesa, che furono feroci contro l’ebraismo. E che dire delle stragiste guerre per reprimere albigesi valdesi per questioni teologiche e di assetto ecclesiastico, che oggi condurrebbero i responsabili davanti alla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra?

  Nonostante quella tremenda storia e nonostante le indubitabili responsabilità anche di coloro che all’epoca  si presentarono come Vicari di Cristo, non bisogna però perdersi d’animo, perché la nostra Chiesa ci ha sicuramente recato anche gli insegnamenti del Maestro, e questa era la sua missione. C’è riuscita nonostante che le sue strutture politiche fossero state modellate dalla sua storia e dalle culture che, nei vari tempi, erano risultate dominanti, e come tali avessero provocato tanta sofferenza. 

  Così, la gran parte delle accuse alla nostra Chiesa che le giungono da parte dei suoi nemici sono senz’altro  vere, ma nondimeno noi non dobbiamo abbatterla come loro pretenderebbero, ma riformarla,  per dimostrare di aver imparato  la dura lezione che viene dalla sua terribile storia, per la quale del resto ogni cristiano, ed anche gli stessi Papi, confessa, all’inizio della liturgia della messa, di aver molto peccato. 

  Senza la nostra Chiesa, infatti, ci sarebbe stato  impossibile diventare realmente cristiani e su questo, che io sappia, tutte le nostre Chiese contemporanee  sono d’accordo.

  In religione in genere si pensa a ciò che è santo come di qualcosa legato al divino e, in questo senso perfetto. La nostra esperienza pratica ci dimostra che però  nessuno nulla di cui abbiamo fatto  esperienza può essere considerato totalmente  perfetto in quel senso, tranne il Maestro e, per i cattolici e altre Chiese cristiane, sua Madre. Dunque, la santità non è di questo mondo? E come la mettiamo con le diverse persone e istituzioni che, nelle Chiese cristiane, vengono considerare sante, ad esempio, per i cattolici, la stessa nostra Chiesa? Per avere delucidazioni in merito dovete fare riferimento ai pastori e ai dottori, i quali sono una componente essenziale nelle Chiese cristiane, al di là delle varie configurazioni organizzative che si è dato ai loro ministeri. Io non sono né l’uno né l’altro.

  Il problema si pose fin dall’antichità, in particolare da quando la Chiesa cominciò  a manifestarsi come un’organizzazione istituzionale ben definita che tendeva all’unità intorno a un centro di potere. Una via pratica e semplice, quindi empirica perché basata sull’esperienza concreta, che può essere seguita è di considerare la santità come un modo di indicare la perfezione in quello che è realmente secondo il volere divino, per cui, siccome noi riconosciamo di essere sempre per via verso quella meta, possiamo non scandalizzarci delle imperfezioni che ci affliggono, come persone e nelle società che costruiamo, comprese la stessa storica organizzazione ecclesiale, imparando però a riconoscere anche il bene dove si manifesta e anche ad accettarne l’origine soprannaturale.   

  Naturalmente questo non risolve i complessi problemi su quei temi travagliano il pensiero teologico, ma che consente a noi che non sappiamo di teologia di continuare a rispettare le nostre Chiese anche quando ci proponiamo di riformarle. 

  Non è in fondo con quest’atteggiamento che affrontiamo di solito  ogni problema di riforma sociale, in particolare in ambienti democratici, nei quali quel lavoro non è ostacolato dalla sacralizzazione dei poteri sociali, operazione tesa a sottrarli alla critica sociale?

  Le nostre Chiese, nelle loro attuali configurazioni, non sono scese dal Cielo bell’e fatte, ma sono il frutto di faticose e travagliate costruzioni sociali e, qualunque cosa pensiamo in merito, continueranno senz’altro ad esserlo: questo non esclude che noi riconosciamo loro la santità, nel senso sopra precisato, in quanto volute dal Cielo per il nostro bene e in ciò che in loro è ed è fatto in modo conforme al vangelo. 

  E, appunto, penso quindi che si debba rendere grazie al Cielo se le nostre Chiese ai tempi nostri sono tanto diverse da quello che storicamente furono in passato nel male che manifestarono e che oggi siamo liberi (finalmente) di ammettere, seguendo, in particolare, la via aperta ai cattolici da san Wojtyla, il Papa della mia gioventù, che a noi giovani di allora piacque tanto perché ci esortava a non avere paura di vivere da cristiani.

3.28.Catecumenato, catechesi e formazione permanente.

Uno degli sviluppi più infelici della fase attuativa dei principi deliberati durante il Concilio Vaticano 2º è stato quello che ha riguardato la formazione permanente alla fede della gente, in particolare dei laici, in genere confusa, per quanto riguarda questi ultimi, con catecumenato catechesi e vista come troppo legata a una pressione psicologica comunitaria e molto meno alla decisione in coscienza e al dialogo sociale. Questo è sostanzialmente dipeso dalla storica e persistente diffidenza di clero e religiosi verso la libertà delle scelte personali, per lo più declinata come libero arbitrio, con una connotazione negativa.

  Il catecumenato, antica istituzione che  l’ultimo concilio ha inteso riprendere e ravvivare, è l’attività di iniziazione alla fede delle persone che chiedono il battesimo e quindi è arbitrario (e umiliante per chi ne è oggetto) intendere come tale la catechesi e la formazione permanente di chi ha già ricevuto il sacramento. La catechesi è l’istruzione religiosa su principi, liturgia, etica personale e comunitaria: serve a rendere capaci di partecipare consapevolmente alle liturgie e alla vita comunitaria tra i cristiani. Catecumenato e catechesi sono affidati a persone incaricate  dal vescovo o dai sui collaboratori, dopo una specifica formazione (che non sempre, però, si ha tempo e modo di fare, con la conseguenza di insegnamenti a volte discutibili, se non francamente bizzarri). La formazione  permanente è quella che si consegue interagendo da cristiani nelle società in cui si è immersi, non solo nella Chiesa, e significa esserne parti attive; essa comprende l’apostolato e, in particolare, l’apostolato dei laici, ma soprattutto quell’azione che consiste nell’ordinarle secondo Dio, secondo l’espressione usata nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa  Luce per le genti – Lumen gentium, del Concilio Vaficano 2º. La formazione permanente compete ad ogni cristiano, senza necessità di un mandato gerarchico: essa è prima di tutto autoformazione, personale e comunitaria, che si attua nelle relazioni sociali, poi anche acquisizione culturale, perché altrimenti è povera, ma soprattutto tirocinio, personale e comunitario, perché si impara ciò che si osa sperimentare e si impara anche da quelli che, con il senno del poi, vengono riconosciuti come errori o, addirittura, colpe. La formazione permanente non deve ridursi ad una acculturazione teologica, perché la teologia, qualsiasi teologia, non è sufficiente per quello che necessita per raggiungere i suoi scopi, quindi occorre acculturarsi anche ad altre competenze, deve essere capace e innanzi tutto disposta a imparare dalle competenze altrui, e non deve risolversi nel ripetere lezioncine catechetiche, o addirittura proporsi di inscenare un  qualche passato storico o di cristallizzare la situazione in cui si vive. Il passato, anche quello piuttosto mitizzato delle origini, è pieno di incubi da non risvegliare. È chiaro che si è molto al di là della semplice istruzione. Nel campo della formazione permanente, che anche  costruisce, modella, forma, le società di riferimento, i laici possono anche validamente sostenere le attività che vengono ritenute proprie della gerarchia, comunque si voglia intendere questa espressione, obiettivo che si consegue anche contenendone le pretese autocratiche ed autoreferenziali e facendone risaltare invece le connotazioni ministeriali, quindi di servizio e funzionali.

3.29. Lavoro nella base.

L’ultima volta che, a Bologna, incontrai don Lorenzo Bedeschi, amico di famiglia e storico del cristianesimo, mi congedò intimandomi con l’indice alzato “Mario, combatti il clericalismo!”. Mia zia Francesca colse quell’attimo e ci fece una fotografia che ho incorniciato e appeso in casa. Si era nel 2002 e ancora non avevo molto approfondito il tema,  ma dall’enfasi con cui ne aveva trattato don Bedeschi avevo capito che era molto importante. In effetti gran parte dei problemi degli italiani con la nostra fede sta appunto nel loro inveterato clericalismo, del resto indotto consapevolmente nella scarsa formazione religiosa che in genere si dá loro. Così la principale virtù sembra essere quella di obbedire alla cosiddetta gerarchia e la principale colpa, imperdonabile, quella di mostrarsene in un certo grado autonomi: questo appunto è clericalismo.

  In Italia anche una parte delle persone che si definiscono non credenti, in prevalenza uomini, mostrano un certo clericalismo. E subito iniziano a pontificare, aggiungendosi alla sterminata schiera di padri che pretendono di insegnarci la vita cristiana. Sono anche piuttosto pretenziosi: fanno le mostre di aver per capito tutto. Del resto gli psicologi cognitivi ci avvertono: per come funziona la mente umana, meno si sa è più si è convinti di sapere. Ecco che quindi che, ad esempio, ci spiegano con sufficienza che il cristianesimo non è opera di Gesù di Nazaret ma di Paolo di Tarso, e, dal punto di vista storico, nessuna delle due affermazioni è attendibile. In particolare, perché, benché gli scritti attribuiti a Paolo di Tarso circolassero prima dei Vangeli canonici, il paolinismo ci mise del tempo per affermarsi, e, quando avvenne, Paolo, era già morto. I cristianesimi furono storicamente manifestazioni pluralistiche di stuoli di cristiani, non di questo o quello scrittore, capo carismatico, o vescovo o anche papa. Vivendo da cristiana, ogni persona, anche oggi,  vi contribuisce. Ma questo sfugge ai clericali, credenti e non. In definitiva, anche per quelli che vengono definiti sarcasticamente atei devoti, la Chiesa si riduce sostanzialmente a clero e religiosi, ma loro ci si mettono in mezzo come delle specie di vescovi, o addirittura papi, di complemento, aggravando il problema.

  Nell’opera Le cinque piaghe della Santa  Chiesa, del 1848, don Antonio Rosmini, beato dal 2007, quel libro essendo messo nell’Indice dei libri proibiti (ai fedeli) nel 1849, ed essendo il suo pensiero condannato nel 1888 dal cosiddetto Sant’Uffizio e riabilitato dal papa Giovanni 23º e dai suoi successori, stigmatizzò  come piaga la divisione del popolo dal clero

 

[Testo integrale su wikisource:

https://it.wikisource.org/wiki/Delle_cinque_piaghe_della_Santa_Chiesa_(Rosmini)/Delle_cinque_piaghe_della_Santa_Chiesa/Capitolo_I]

 

  In realtà, più che di divisione, si è trattato di annullamento del popolo, che, si osservò ai tempi del Concilio Vaticano 2º, veniva considerato come un qualcosa di  appiccicato dall’esterno al clero, considerato, esso solo, la Chiesa. Elemento in tanto  tollerato, in quanto sottomesso al clero. Anche l’istituzione  dell’Azione Cattolica italiana, avvenuta nel 1906, sulla base dell’enciclica Il fermo proposito del papa Pio 10º dell’anno precedente, rispondeva a quel criterio. Ancora nel 1951, il Papa Pio 12º, parlando al Primo Congresso Mondiale sull’apostolato dei laici disse che l’Azione Cattolica “è uno strumento nelle mani della gerarchia, deve essere il prolungamento del suo braccio, è, per questo fatto, sottomessa per natura alla direzione del superiore ecclesiastico”. Chiarì il suo pensiero dichiarando:

La gerarchia, istituita divinamente, possiede in se stessa ed espressamente, anche senza la cooperazione dei laici, la missione e la potestà, di cui essa potrebbe fare uso efficacemente nell’apostolato che le appartiene, mentre i laici da se stessi, vale a dire indipendentemente dalla gerarchia, e formalmente non posseggono la potestà di esercitare un apostolato legittimo ed efficace.”  Osserva Peter Neuner, in Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016, pag.92: “In questa concezione il laico non ha un’esistenza  autonoma e definita nella chiesa. Il laico si può comprendere solo a partire dalla gerarchia e deve essere definito in riferimento ad essa: egli è semplicemente il non-chierico”.

  Ora, i deliberati del Concilio Vaticano 2º hanno mutato profondamente i presupposti dogmatici di quel modo di pensare, che tuttavia di fatto si è perpetuato nella prassi, essenzialmente per gravi carenze formative dei laici, intese sia come insufficienze di istruzione, sia come impedimenti a costruzioni sociali conformi alle nuove concezioni. La situazione si è aggravata per le interpretazioni riduttive degli aggiornamenti deliberati nell’ultimo concilio che sono venuti dalla gerarchia.

  Come ho scritto in precedenza, non credo che la situazione cambierà per interventi dall’alto, dalla gerarchia, che appare tuttora restia a condividere realmente le decisioni sui principi che riguardano l’azione sociale e politica,  quelli che riguardano l’ordinare la società, che dovrebbe essere il campo privilegiarono dei laici, né tanto meno a fare spazio ai laici nella gestione delle strutture ecclesiastiche, manifestando di essere disposta al più a servirsene come consulenti, ma solo se si dimostrano docili.

   D’altra parte, qualcosa bisogna pur tentare di fare, perché,  o scrive lo storico Riccardi nel suo ultimo interessante libro, la Chiesa brucia, nel senso che si sta annientando per consunzione, un po’ come è accaduto alla cattedrale di Notre-Dame in Parigi nel 2019. La strada è più aperta in periferia, alla base, lontano dai centri del potere ecclesiastico, lì dove non si è intralciati dagli affanni dell’amministrazione di un imponente patrimonio immobiliare e finanziario e dalle ambizioni della carriera ecclesiastica, lì dove,  benché sostanzialmente caduti in desuetudine nel lungo inverno ecclesiale vissuto in Italia, sono formalmente aperti spazi di partecipazione popolare, e, in particolare nelle parrocchie. Lì e anche privilegiato d’impegno della nostra Azione Cattolica che è agevolata dall’aver conquistato una struttura realmente democratica, senza essere afflitta dall’emergere di oppressive strutture para-clericali che si nota in alcuni movimenti laicali piuttosto bellicose e rumorosi (in ciò attualizzando poco virtuose tradizioni ecclesiali che risalgono addirittura alle origini). 

3.30. Al lavoro!

   A metà ottobre 2021, il nostro gruppo parrocchiale di AC riprenderà le attività e speriamo di poterlo fare in parrocchia. Comunque attiveremo anche il collegamento in videoconferenza Meet, per consentire una più ampia partecipazione. Le prove di questo modo di riunirci, in presenza e da remoto, che abbiamo fatto nell’ultima riunione prima della sospensione estiva è andata bene.

  Nello stesso mese di ottobre in cui inizieremo a incontrarci di nuovo inizierà il Sinodo della Chiesa cattolica italiana. Ad agosto ho cercato di sviluppare alcune riflessioni sul metodo  sinodale nella concreta vita ecclesiale, sulla base di letture che andavo facendo.

  Credo che, come gruppo di Azione Cattolica, dovremmo sentirci impegnati a suscitare in parrocchia un movimento per coinvolgere quante più persone possibile in questo processo  sinodale. Lo si vorrebbe appunto, tale, un processo, non solo una sessione di incontri tra gerarchi ecclesiali e loro invitati o consiglieri.

  Perché si approdi a qualcosa, occorrerà agire con spirito pratico, cercando di fare poco ricorso all’ecclesialese. Benché si dica che la sinodalità è in qualche modo collegata anche al soprannaturale, e in particolare possa essere come un riflesso della vita divina trinitaria, si tratta comunque di costruire un modo di vivere insieme, una società, che si differenzia abbastanza da ciò che c’è ora, in cui, in particolare, i laici sono umiliati in una posizione piuttosto passiva, che talvolta può essere espressione anche di una certa loro pigrizia e di un qualche ritegno a impegnarsi in modo più serio.

 Non possiamo pensare di poter riuscire a calare il Cielo in una società umana concreta e le relazioni reali tra le persone, non quelle meramente immaginate, non possono corrispondere a quelle tra le Persone della Trinità, e non sarà mai possibile, qui sulla Terra, ottenere un obiettivo simile.

  Alla base dell’intesa dal quale può originare un effettivo processo sinodale sta la capacità di dialogo e, ancor prima, la decisione di provare  a stare insieme. Di solito si evidenzia la radice semantica della parola sinodo nell’andare insieme, ma storicamente la si è intesa anche, nella vita delle Chiese antiche, prima di tutto come uno stare insieme. Si decide di stare insieme prima ancora  di aver verificato se realmente ce ne sono le condizioni. Questo chiarisce le relazioni tra sinodalità  e democraticità, che conservatori e reazionari propongono come alternative: in realtà non lo sono. Prima viene al sinodalità, come decisione di stare insieme, e poi  la democraticità come modo di stare insieme rispettandosi e anche di  decidere insieme sviluppando argomentazioni ragionevoli. Una sinodalità non democratica è certamente possibile e si ha quando si decide di sottostare volontariamente ad una oligarchia autocratica, ma essa è umiliante per chi sta sotto e silenzia la propria voce. Nella storia delle nostre Chiese, fino ad epoche recenti, la sinodalità era espressione di compromessi precari, basati sulle relazioni di forza del momento, e ha prevalso la pura e semplice autocrazia, lo spirito gerarchico, che è stato piuttosto sacralizzato con argomenti che non cessano di essere discussi. La cosiddetta Gerarchia è sopravvissuta alle riforme deliberate durante il Concilio Vaticano 2°. Non si tratta di un principio, ma di persone, Papa, vescovi, preti, che pretendono di sovrastare il resto del popolo come autocrazia sacrale. La sinodalità  è spesso presentata, ma anche vissuta, come un correttivo a questa forma di esercizio del potere che, in particolare nell’Europa di oggi, è ritenuta in genere obsoleta e particolarmente umiliante per le persone laiche, in particolare dove si pretenda di vincolarvi le decisioni in materia di organizzazione sociale e di politica, il cui significato religioso venne riconosciuto espressamente a partire dagli scorsi anni ’30 e che, secondo i deliberati del Concilio Vaticano 2°, dovrebbero essere il campo proprio dell’azione laicale.

  Da dove iniziare, però?

   Direi dal creare un’organizzazione parrocchiale espressamente dedicata a un processo sinodale, con l’obiettivo di coinvolgere gradualmente almeno le circa mille persone che, stando alle statistiche correnti sulla pratica religiosa in Italia, ancora vanno regolarmente in Chiesa, per arrivare finalmente alla celebrazione di un’Assemblea parrocchiale e alla elezione di membri del Consiglio pastorale parrocchiale che affianchino quelli che vi fanno parte di diritto e quelli nominati dal parroco. Costruire questa organizzazione può farsi rientrare nella competenza dell’attuale Consiglio pastorale parrocchiale, e così è stato appunto fatto nelle parrocchie che negli anni scorsi hanno celebrato  sinodi parrocchiali.

  Del Consiglio pastorale parrocchiale si sa poco. Non viene data alcuna informazione sulle sue attività e decisioni. Non mi pare che ne siano stati indicati pubblicamente i componenti. Le sue competenze sono state in qualche modo sovrastate dalla nuova equipe pastorale, struttura richiesta dalla Diocesi ma discutibile in quanto porti alla lenta obsolescenza del Consiglio pastorale parrocchiale, unica vera incipiente forma di timida democraticità prevista per la parrocchia.

  Nella stagione sinodale è bene che il nostro gruppo sappia rivolgersi anche al di fuori della cerchia dei propri iscritti. Chi volesse essere informato tramite mailing list sulle prossime attività e ricevere via email la nostra Lettera ai soci  e i link per la partecipazione in videoconferenza alle nostre riunioni, può chiederlo mandando una email a mario.ardigo@acsanclemente.net

 

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4.Sinodo totale

 

  Una Chiesa sinodale  è quella partecipata da tutti. Si basa sul riconoscimento della pari dignità dei suoi membri. Non si tratta solo di una Chiesa nella quale i capi del suo clero cercano di esaminare le questioni e di decidere insieme. La sua sinodalità  diffusa, totale,  comporta l’accettazione del suo pluralismo, vale a dire dell’esistenza di diversi modi di vivere da cristiani. Questo non è scontato, tenendo conto della nostra storia.

 Che compito può  svolgere su questo tema la nostra Azione Cattolica?

  L’Azione Cattolica fu fondata nel 1906 al tempo di quella che Fulvio De Giorgi, nel suo libro Quale Sinodo per la Chiesa italiana. Dieci proposte, Morcelliana 2021, chiama Chiesa totalitaria.  Si era in tempi bui, quelli della durissima persecuzione contro il cosiddetto modernismo e della contrapposizione frontale con il liberalismo democratico e il socialismo. L’Azione Cattolica fu concepita per influire in società, nell’economia e in politica come corpo unitario e totalizzante, con le sue varie articolazioni professionali e per età e sesso, i suoi rami, in particolare per sostenere le rivendicazioni politiche del Papato, che in Italia aveva in corso una forte polemica con il nuovo  Regno unitario, detta Questione romana, perché originata nel 1870 dalla  soppressione violenta, per conquista militare, dello Stato Pontificio con capitale Roma. L’Azione Cattolica era, ed è ancora, una istituzione della Chiesa, la principale istituzione della Chiesa per la  partecipazione delle persone laiche all’apostolato e, anzi, da esse stesse animata. Infatti ha natura associativa. Rimanevano per le persone laiche varie altre organizzazioni di spiritualità e devozione, Terz’ordini  e Confraternite ma con obiettivi limitati, centrati sul perfezionamento interiore, su atti devozionali e sulla carità.

 La caratteristica principale dell’Azione Cattolica dalla fondazione alla riforma attuata negli anni ’60, durante la presidenza di Vittorio Bachelet, fu di essere il braccio della gerarchia. Essa non aveva una propria connotazione di spiritualità, né un orientamento politico definito autonomamente. Si dedicava alla formazione delle masse per l’azione sociale, nel senso indicato dalla gerarchia. La sua fondazione origina dalla reazione del Papato contro i moti democratici che si erano manifestati nella precedente organizzazione di massa dei cattolici italiani, l’Opera dei Congressi, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Durante il fascismo italiano l’Azione Cattolica nazionale in gran parte si fascistizzò, nonostante gli iniziali screzi poco dopo la conclusione dei Patti Lateranensi, nel 1929, con i quali la Questione Romana  venne chiusa. Del resto, nel 1931, con l’enciclica Il Quarantennale  [dalla prima enciclica sociale, la Le Novità – Rerum Novarum]  - Quadragesimo anno, il papa Pio 11° le aveva ordinato di collaborare alle riforme corporative del fascismo mussoliniano. L’azione sociale e politica era una forma di carità,  disse quel Papa parlando agli universitari della FUCI – Federazione universitaria cattolica italiana, uno dei rami intellettuali dell’Azione Cattolica. Tuttavia, sempre negli anni ’30, per impulso della Segreteria di Stato Vaticana, l’Azione Cattolica formò alla democrazia un ceto di laureati, un altro suo ramo intellettuale, i Laureati Cattolici (che ora è un’organizzazione autonoma, il MEIC – Movimento ecclesiale di impegno culturale), al quale poi, regnante il papa Pio 12°, fu ordinato di progettare una nuova democrazia post-fascista, cosa che fu fatta.

 Il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) deliberò una importante riforma dogmatica riguardante il ruolo delle persone laiche. Esse non vennero più considerate legittimate all’apostolato  per delega  dalla gerarchia, ma in virtù della loro personale e diretta relazione con Cristo. Questo comportò la riforma dell’Azione Cattolica, espressa nel suo nuovo statuto del 1969. Il rapporto con la gerarchia venne definito di diretta collaborazione

L'Azione Cattolica Italiana è una Associazione di laici che si impegnano liberamente, in forma comunitaria ed organica ed in diretta collaborazione con la Gerarchia, per la realizzazione del fine generale apostolico della Chiesa.

 Il legame con la gerarchia rimase forte e caratterizzante, ma basato sui presupposti deliberati dall’ultimo Concilio.

  Dagli anni ’70, sui medesimi presupposti dogmatici, sorsero altre organizzazioni partecipative, composte da laici, clero religiosi, che ebbero poi il riconoscimento dell’ecclesialità, nessuna però con quel particolare legame con la gerarchia che aveva l’Azione Cattolica, organizzazione specificamente laicale. Alcune delle nuove aggregazioni si posero esplicitamente in polemica con i principi conciliari in materia di ruolo e azione della Chiesa nel mondo  e di ruolo delle persone laiche e divennero protagoniste dei moti reazionari contro l’attuazione della riforma deliberata dal Concilio Vaticano 2°, cercando anche di influire sulla gerarchia e sull’elezione del Papa formando un proprio clero e anche un proprio episcopato. Esse attaccarono duramente l’Azione Cattolica, in particolare dagli anni ’80, durante il regno del papa Giovanni Paolo 2°. Contemporaneamente, quello che De Giorgi ha definito un lungo inverno calò sulla Chiesa italiana bloccandone l’effervescenza sociale che si era manifestata nel decennio precedente. Questo clima si manifestò progressivamente ma con sempre maggiore evidenza anche nella nostra parrocchia, per la quale dal 1983 iniziò una nuova stagione, con molti cambiamenti. Come testimoniato dai ricordi raccolti da Bruno Bonomo nel libro Il quartiere delle Valli – Costruire Roma nel secondo dopoguerra, Franco Angeli, 2007, negli anni ’80 l’Azione Cattolica parrocchiale aveva ancora numerosi aderenti, in particolare molti giovani. Questo è anche il mio ricordo personale. Tuttavia non la si ritenne più un percorso formativo valido, in particolare per i ragazzi, e così fu interrotta la sua continuità generazionale. Progressivamente la si mantenne sostanzialmente come esperienza in via di esaurimento, mentre ai giovani  vennero proposte altre vie. Per il suo particolare legame con la gerarchia, l’Azione Cattolica non può sopravvivere in sede locale se non collaborando con il clero. Questo nuovo orientamento creò anche dei problemi evidenti con la gente del quartiere, sui quali ho scritto molto negli anni passati e potete quindi capire di che si è trattato cliccando sui relativi post. Dall’autunno del 2015 si è tentato di porvi rimedio, con visibili risultati. In particolare si è cercato di ripristinare un certo pluralismo formativo. L’Azione Cattolica parrocchiale è comunque sopravvissuta e il titolo di questo blog  “AC VIVE A ROMA VALLI” ne è una orgogliosa rivendicazione. Ma si trova ancora in una condizione per così dire embrionale. E’, tuttavia, un seme piantato nel quartiere, un piccolo seme, ma si sa la considerazione per i piccoli semi  che troviamo nei Vangeli.

  Dagli anni ’60 il principale scopo dell’Azione Cattolica è l’attuazione delle riforme deliberate nel Concilio Vaticano 2°, che riguardano la Chiesa e l’intera società. L’orientamento principale è dato dalle Costituzioni Luce per le genti – Lumen Gentium La gioia e la speranza – Gaudium et spes  e dal Decreto sull’apostolato dei laici L’apostolato – Apostolicam actuositatem del Concilio Vaticano 2°.   L’attuazione della sinodalità totale  ne è espressione. Da qui il grandissimo impegno che in Azione Cattolica, anche in parrocchia, vogliamo spendervi.

  Il principale problema della nostra parrocchia, sulla via della sinodalità, è di essere divenuta progressivamente una sorta di condominio  di vari gruppi, con prevalenza di uno di essi, derivata dal vecchio corso. Si è in parrocchia partecipando a quei gruppi. Al di fuori dei gruppi non ci si conosce e si diffida. Nel percorso sinodale l’Azione Cattolica parrocchiale però non ha una propria individualità da preservare. Essa è semplicemente Chiesa. Così accetta pienamente il pluralismo sociale ed ecclesiale, che è uno delle più importanti acquisizioni conciliari, e non si presenta come  esclusiva, per cui, ad esempio, facendone parte non si possa partecipare ad altre esperienze o aggregazioni. Entrando in Azione Cattolica non si è obbligati a rinunciare a nulla di come si è cristiani, non si è obbligati a perdere nulla, ad amputarsi nulla, come se al di fuori dell’Azione Cattolica ci fosse qualcosa di scandaloso, o imperfetto, da cui emendarsi aderendo. Si è accettati e apprezzati come i cristiani che si è. Non si è costretti ad alcuna particolare iniziazione né ad alcuna particolare progressione per livelli di perfezione. L’adesione e la partecipazione sono libere. Per questo ci si avvale del metodo democratico. L’esperienza in Azione Cattolica è infatti definita come popolare  e democratica. Così, partecipando al processo sinodale in una realtà di base come la parrocchia, l’Azione Cattolica si fa evangelicamente lievito, e non è più distinguibile come tale.

 Bisogna infatti aver chiaro questo: non vi è vero processo sinodale dove si rimane confinati nel proprio gruppo di prevalente riferimento e alla sua disciplina, se non si partecipa liberamente.

  Se si accetta  pienamente il pluralismo ecclesiale, bisogna accettare come gli altri vivono da cristiani  e  anche che vi siano coloro che contrastano i moti di riforma del Concilio. Dobbiamo imparare la dura lezione della storia dei cristiani, che è stata caratterizzata nella sua gran parte e fino ad epoca molto recente da violenza, intolleranza, discriminazione, totalitarismo, oppressione delle coscienze. Però non sono accettabili prevaricazioni. Se le organizzazioni che finora hanno dominato in parrocchia, e certamente l’Azione Cattolica parrocchiale non è fra queste, non accettano di far partecipare i propri aderenti al processo sinodale in condizione di libertà di coscienza, non vi sarà reale processo sinodale.

  Poiché però il Papa e i vescovi hanno convocato la Chiesa di Dio in  Sinodo, come si legge nel sito del Sinodo 2021-2023, l’Azione Cattolica deve premere, e anche lottare dove occorra, perché Sinodo sia, e quindi, in particolare, perché sia creata anche nella nostra realtà di base, la parrocchia, una organizzazione che consenta realmente  quella Chiesa sinodale, partecipata liberamente, che si vuole indurre. Dobbiamo insistere perché ogni aggregazione lasci liberi  i propri aderenti di parteciparvi, senza condizionamenti.

  In passato troppe decisioni importanti sono state prese senza la minima consultazione con i fedeli, umiliandoli in una condizione dolorosa, come se non fossero degni del loro nome di cristiani, come se la loro vita da cristiani non contasse nulla senza sottoporsi alle forche caudine di un qualche vaglio speciale di spiritualità.

  Processo sinodale  non può significare lasciare tutto come prima  e continuare a vivere sostanzialmente come separati in casa.

  In un certo senso, la sinodalità  che si vuole realizzare significa anche  ricostruire  una Chiesa locale, fatta di gente che si conosce e si stima,  laddove essa era diventata più che altro una chiesa  intesa come spazio dove la gente è stipata, divisa per appartenenze settoriali, secondo una turnazione condominiale, oggi noi, domani voi.

 

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5. Le dieci domande che ci vengono rivolte dai vescovi nel Cammino  sinodale della Chiesa universale

 

  Nel Documento preparatorio per il Sinodo generale, che è stato diffuso lo scorso settembre, veniamo invitati a confrontarci sinodalmente su alcuni temi, introdotti da alcuni interrogativi. Quello fondamentale  è così formulato:

Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina insieme”: come questo “camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel nostro “camminare insieme”?

 Siamo invitati a:

a) chiederci quali esperienze della nostra Chiesa particolare l’interrogativo fondamentale richiama alla vostra mente;

b) rileggere più in profondità queste esperienze: quali gioie hanno provocato? Quali difficoltà e ostacoli hanno incontrato? Quali ferite hanno fatto emergere? Quali intuizioni hanno suscitato?

c) cogliere i frutti da condividere: dove in queste esperienze risuona la voce dello Spirito? Che cosa ci sta chiedendo? Quali sono i punti da confermare, le prospettive di cambiamento, i passi da compiere? Dove registriamo un consenso? Quali cammini si aprono per la nostra Chiesa particolare?

  Da qui poi discendono alcuni dieci nuclei tematici, introdotti da delle domande. Non dovremmo rispondere con ciò che ciascuno pensa in merito, ma discuterne  per produrre una riflessione collettiva e condivisa, quindi sinodale. In parrocchia lo si dovrebbe fare anzitutto nel Consiglio pastorale parrocchiale, che però ha una rappresentatività limitata. Oltre ai preti, ci sono infatti solo i capi o i presidenti (a seconda del carattere autoritario o democratico della loro organizzazione) dei gruppi laicali che abitano la parrocchia, che comprendono solo una piccola parte delle circa 15.000 persone del quartiere che alla parrocchia fanno riferimento per la loro vita religiosa, ma anche una porzione minoritaria dei circa 1.000 praticanti. Quindi occorrerebbe incontrarci nel quadro di  una nuova organizzazione sinodale  che idealmente comprenda tutti,  anche se ci si dovrebbe dividere in varie sezioni, anzitutto per età, ma anche per condizione e interessi di vita, perché ci sia un vero dialogo, possibile solo in gruppi limitati. Ci dovrebbe però essere una certa circolarità tra queste sezioni in modo da non rimanere confinati in esse e occasioni di incontri con molta più gente, delegati di base e altri interessati. In caso contrario non si avrebbe un vero processo sinodale  ma lo sbrigare un adempimento meramente burocratico, come in genere si è fatto in passato.

  Il nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica, con la sua organizzazione democratica che consente a ciascuna persona di esprimersi liberamente, con l’impegno anche ad ascoltare le altre persone e a raggiungere una sintesi condivisa, è un ambiente ideale per svolgere quel lavoro.

  Per dare qualche idea, ho provato ad articolare qualche riflessione su quei nuclei tematici  di cui dicevo e ve le propongo di seguito. Non ho sviluppato il discorso sui rapporti con altre religioni, perché non ne ho esperienza diretta, e sul celebrare perché mi sento impreparato in merito.

 

5.1 Compagni di viaggio

 

 

Nella Chiesa e nella società siamo sulla stessa strada fianco a fianco. Nella vostra Chiesa locale, chi sono coloro che “camminano insieme”? Quando diciamo “la nostra Chiesa”, chi ne fa parte? Chi ci chiede di camminare insieme? Quali sono i compagni di viaggio, anche al di fuori del perimetro ecclesiale? Quali persone o gruppi sono lasciati ai margini, espressamente o di fatto?

 

 

    Siamo convocati in Sinodo. Siamo stati invitati a interrogarci su chi siano i nostri compagni di viaggio come cristiani. Bisogna discuterne. Questo discuterne è l’embrione di una Chiesa sinodale, che oggi non c’è.

    Gli esseri umani si radunano per mangiare, gioire, progettare e costruire. Un Sinodo è progetto e costruzione. Non ci si va come semplici spettatori o comparse, altrimenti non si partecipa, si assiste.

  Quando ci chiediamo chi sono i nostri compagni di viaggio non vogliamo limitarci a fotografare l’esistente ma immaginare un futuro in cui sia importante averne.

  Non si va in chiesa come quando si entra in  una stazione e, benché si possa essere in molti vicini, si è sempre ciascuno per sé, in un’organizzazione che somministra servizi. Perché?

  Sono tanto importanti le altre persone per il nostro essere cristiani? In fondo non si va in chiesa per stare bene, ad esempio in pace con se stessi, o per essere consolati per come va il mondo, per cui, ottenuto un certo effetto psicologico di benessere, si possa essere soddisfatti?

 Se potessimo confrontarci, in una sede di discussione che ora non c’è, scopriremmo che in merito abbiamo molte idee diverse. Questo dipende dal fatto che ciascuno è confinato nella sua vita, ad esempio nella sua età, e il tempo trascorre rapidamente di età in età, o nella sua condizione sociale, per cui si è diventati qualcuno  tra gli altri. Realmente ognuno è cristiano a modo suo, nonostante che faccia riferimento a una cultura comune. Eppure è proprio dell’essere umano stabilire relazioni con le altre persone e questo fondamentalmente perché per sopravvivere non bastiamo a noi stessi, specialmente poi in società molto complesse come quelle in cui viviamo. E questo a cominciare dall’orientarsi: di solito guardiamo come fanno gli altri per decidere. Anche il vangelo non l’abbiamo inventato da noi stessi, ci è venuto da fuori.

  Guardando come viviamo oggi nella nostra parrocchia, mi pare che, in realtà, ogni persona se ne stia sulle sue. Gli ambienti sociali sono molto limitati e quando ci incontriamo non sappiamo bene che dire e che fare. Spesso del vangelo sappiamo quello che ci hanno raccontato da piccoli e facciamo fatica ad intendere quello che i preti dicono a messa. Del resto non vi sono veri momenti formativi per approfondire sistematicamente. Per molte persone essere cristiani significa principalmente pregare recitando formule tradizionali e ascoltare la Messa. Per tanti è fare riferimento alla fede dell’infanzia. La vita che si fa fuori della chiesa, come spazio liturgico, appare scollegata con quella che si fa in chiesa, più dura, con principi diversi. E la maggior parte della gente del quartiere appartiene a questa vita diversa. Ma anche tra di noi ci sopportiamo a mala pena. Rimaniamo in genere con le poche decine di persone con le quali ci siamo affiatati. Condividiamo i preti, che sono, in questo, il vero elemento di unità della parrocchia. E, naturalmente, condividiamo degli spazi in chiesa, intesa come edificio e arredi liturgici.

  La teologia scrive che si potrebbe essere qualcosa di più insieme, e anzi si dovrebbe. Ma noi di queste cose non parliamo insieme. E, innanzi tutto, non parliamo mai insieme, al più ascoltiamo. Ora che vorrebbero ascoltare noi, siamo sorpresi.  Lo vogliono veramente? Davvero contiamo qualcosa oltre ad essere comparse sulle scene liturgiche? Ma non ci vengono le parole. Scopriamo che per parlare non basta cercare in  noi, ma dovremmo cercare tra  noi. Costruire una cultura dello stare insieme, cominciare ad agire sinodalmente anche prima di aver capito bene di che si tratta.

  La proposta pratica: impegniamoci una volta alla settimana a dialogare insieme, imparando anche qualcosa e innanzi tutto a stare insieme. Il Consiglio  pastorale parrocchiale organizzi sistematicamente queste occasioni di incontro.

 

5.2 Ascoltare

 

L’ascolto è il primo passo, ma richiede di avere mente e cuore aperti, senza pregiudizi. Verso chi la nostra Chiesa particolare è “in debito di ascolto”? Come vengono ascoltati i Laici, in particolare giovani e donne? Come integriamo il contributo di Consacrate e Consacrati? Che spazio ha la voce delle minoranze, degli scartati e degli esclusi? Riusciamo a identificare pregiudizi e stereotipi che ostacolano il nostro ascolto? Come ascoltiamo il contesto sociale e culturale in cui viviamo?

 

 

  Noi persone laiche non siamo mai ascoltate. Quello che diciamo non conta nulla. Noi non contiamo nulla. Dovunque ci è sbarrata la strada. Questa è la mia esperienza. Ci siamo abituati. Lasciamo fare. Tutto sommato è anche più comodo. Fin da piccoli siamo abituati così. Da grandi siamo trattati come se fossimo sempre piccoli.

  Sono i nostri vescovi che ci chiedono se veniamo ascoltati. Non lo sanno che nessuno ci ascolta? O immaginano di vivere in un mondo diverso, immaginano di ascoltarci?

  Noi persone laiche siamo scartate  ed escluse, vittime di pregiudizi e stereotipi, di un immaginifica tradizione teologica che vieta di ascoltarci e ci riduce a semplice gregge.

  Le Consacrate forse stanno ancora peggio. I Consacrati no, se sono preti, perché allora sono inquadrati in quelli che comandano per diritto divino, quelli che quindi hanno anche il diritto di essere ascoltati da noi.

 Questa è la realtà.

  La Chiesa sta forse finendo? E’ possibile. Sopravviverà dove saprà cambiare. Le istituzioni che abbiamo ricevuto dalla tradizione mi paiono invece condannate. Non mi sembrano sono riformabili. A quasi sessant’anni dalla conclusione del Concilio Vaticano 2°, che pose le base del cambiamento, si è sempre quasi agli inizi. E in passato ci sono stati passi indietro.

 La scelta di indurre un processo sinodale, non solo di celebrare  un Sinodo di vescovi, è stata lungimirante. E’ stata preceduta da sperimentazioni, scrivono gli esperti: il Sinodo dell’Amazzonia, quello sulla famiglia, quello sui giovani. E’ il metodo giusto di procedere, per sperimentazioni.

  Questa volta non si tratta di fiancheggiare  il Sinodo dei vescovi, che si terrà nel 2023, ma di essere noi Sinodo, a partire da una realtà di prossimità come la nostra parrocchia.

   Si è aperto uno spazio per noi, ma certamente non siamo stati preparati a questo. Ogni strada ci era sbarrata. E ancora fatichiamo a farci largo nella teologia di corte che ha cercato di dare una giustificazione razionale alla nostra umiliazione.

  Per quella via si è perso molto del vangelo. Molte persone vi hanno perso dimestichezza, da troppo tempo si sono allontanate. Questa è una grave situazione di deprivazione. L’istituzione che ha resistito alla riforma ne è stata l’artefice, non lo spirito dei tempi. Ora non sappiamo nemmeno più da dove cominciare. Non osiamo nemmeno prendere l’iniziativa di occasioni di incontro in parrocchia per discutere delle domande che i nostri vescovi ci fanno. Chi risponderà? Chi ha risposto le altre volte? Quanti di voi hanno potuto parlare? Ma, come è stato giustamente osservato, non basta aprire la bocca e tirar fuori le cose che una persona ha in testa. Bisogna rispondere come comunità, quindi dopo averne parlato. Non è qualcosa come un sondaggio. Sono domande che vogliono suscitare una discussione. Discutere richiede di avvicinarsi e di conoscersi. Di dare ordine al dibattito. Quel fare ordine per poter discutere sarebbe già l’embrione del nuovo.

  E’ bene chiarirlo. Qui non c’è una maggioranza che esclude una minoranza, ma una minoranza che silenzia una maggioranza. Finora la gerarchia, che sostanzialmente come un tempo pensa di poter fare Chiesa  anche senza di noi, come si riteneva prima del Concilio Vaticano 2°,  non ha voluto veramente ascoltarci, forse perché quello che veniva fuori da noi non la soddisfaceva. Noi possiamo parlare solo leggendo la nostra parte sul foglietto  preparato da altri. Quando ci consultano, non sono obbligati a farlo, e possono fare sempre come pare loro, anche contro il nostro parere. Quanti siamo, di persone di fede a Roma? Centinaia di migliaia certamente, ma non contiamo quanto le poche decine di persone che compongono la gerarchia locale. E non solo sulle sofisticate questioni di teologia, ma su ogni altra cosa, anche, ad esempio, sugli arredi delle chiese parrocchiali.

  Criticano chi apprezza certe aperture recenti dicendo che fa sociologia  e che vuole ridurci  come un parlamento. Ma la sociologia, a differenza della teologia, cerca di conoscere veramente le società che studia e organizzarsi in parlamento non è un ridursi, ma un elevarsi, in dignità, in libertà. Nel parlamento si ha voce. Nella nostra Chiesa non viene mai il tempo, per noi persone laiche, di parlare con franchezza. Se lo si fa, poi si viene emarginati. Non c’è più la violenza brutale di un tempo, ma ce n’è una più subdola, che si ammanta di mitezza.

  Non è così? Non è più così?

  Vorrei veramente che non fosse più così. Allora il nostro Consiglio pastorale parrocchiale potrebbe deliberare un programma per crescere  nel processo sinodale, per poterci incontrare sistematicamente, per potere imparare  che cosa è sinodalità. La sinodalità non è innata, appunto si impara. A volte si tira fuori il sensus fidei di noi, Popolo di Dio, e questo significa che noi avremmo una specie di intuito che ci porta verso la verità. Io certamente non me lo sento dentro, e voi? Storicamente ciò che si è voluto affermare come verità è costato molta violenza, non c’è quasi mai stato quella specie di spontaneo convergere di cui parla la teologia. E meno male che non sono un teologo, perché allora avrei un bel problema a far quadrare i conti. Convergere pacificamente richiede fatica   e pazienza e il risultato non è mai assicurato, ma già discutere in pace è, in fondo, un grosso risultato.

 

5.3 Prendere la parola

 

Tutti sono invitati a parlare con coraggio e parresia, cioè integrando libertà, verità e carità. Come promuoviamo all’interno della comunità e dei suoi organismi uno stile comunicativo libero e autentico, senza doppiezze e opportunismi? E nei confronti della società di cui facciamo parte? Quando e come riusciamo a dire quello che ci sta a cuore? Come funziona il rapporto con il sistema dei media (non solo quelli cattolici)? Chi parla a nome della comunità cristiana e come viene scelto?

 

 Noi persone laiche non abbiamo né diritto né libertà di parola  nella nostra Chiesa e questo è tutto sul punto. Questa nostra condizione è ben conosciuta dai vescovi perché è opera loro, della gerarchia. Questa è la verità  su di noi.

  Nella società civile, in Italia, è molto diverso. Viviamo in una Repubblica democratica e vi partecipiamo in vari modi e in varia misura, ma vi partecipiamo. La Costituzione ci dà diritto di parola, all’art.21. Il sistema dei media  è libero e pluralistico e ce ne serviamo per capire che accade  e che fare, confrontando le varie voci che ne emergono.

   Ci  si è serviti della teologia, il linguaggio tipico del clero, per umiliarci e silenziarci. Questa è una tradizione antica, dalla quale non ci si riesce a distanziarsi.  Essa è stata storicamente causa di tante sofferenze e violenze.

   La teologia riguardante la comunione e il Corpo di Cristo è stata paradossalmente  usata per toglierci ogni libertà, dove invece voleva evocare un’unione benevola. Infatti si contrappongono  comunione  e concilio, oggi diremo sinodalità. Ci si vuole imporre l’uniformità dietro la gerarchia, come se fossimo un corpo solo, ma questo modo di considerare la società è disumano. La stessa gerarchia, vista da vicino, si mostra di fatto pluralistica, ma si ritiene sconveniente fare emergere questa realtà, per cui si pratica la doppiezza e l’opportunismo, come gli stessi nostri gerarchi lamentano.

  Noi, in genere, non siamo pratici di teologia, anche se sempre più laici, e molte donne, decidono di studiarla. Ci si lamenta che non esista un percorso formativo a loro dedicato, ma poi si fa poco per rimediarvi.

 I nostri vescovi sembrano attribuire valore quasi solo alla loro teologia e la presidiano con istituzioni disciplinari, proprio perché è strumento di potere. Noi persone laiche raramente riusciamo a parlare in modo accettabile di teologia e, anche quando ci riusciamo, siamo accettati solo se ci facciamo ripetitori di quella normativa. Con il Catechismo della Chiesa cattolica  essa ingabbia addirittura gli stessi teologi qualificati. Ma la teologia disegna in genere un mondo immaginifico molto lontano dalla realtà come noi la viviamo e in quel suo essere così ci è inutile. Mediante la teologia  ci viene tolta la parola e si pretende di ingabbiare la Chiesa negli schemi che vedono sempre prevalere la gerarchia, che finora è apparsa incapace di vera autoriforma. Il diritto canonico è una tipica espressione di questo modo di fare: è un diritto in cui ogni diritto cede al cospetto dell’autocrate. Per nostra buona sorte noi persone laiche ne siamo stati in gran parte affrancati ed esso è rimasto ad opprimere solo preti e religiosi.

 Quando noi persone laiche riusciamo ad esprimere quello che abbiamo nel cuore, in genere veniamo condannate come indisciplinate e presuntuose, se non addirittura cattive e perfino criminali. Così ci capita spesso di essere diffamati dal clero. In genere siamo poco apprezzati. Diffidano di noi. Si è insofferenti delle nostre richieste di compartecipazione alle decisioni, fosse anche solo per decidere di dove piazzare in chiesa la statua di un santo. Questa costante umiliazione che viviamo genera disaffezione.

  Usando la teologia, i nostri vescovi riescono a dire cose tremende, dure, dolorose per noi, come se fosse loro dovere dirle.

 Così noi persone laiche, in genere, rinunciamo a prendere la parola, salvo che si sia tra amici, ad esempio in una associazione o movimento di quelli che non mimano l’autocrazia clericale e, addirittura, spesso ne superano i tristi costumi. D’altra parte la vita di chiesa ci serve, la messa ci serve, i sacramenti ci servono, perché, fatta la tara di tutta questa presuntuosa autocrazia, la fede religiosa è vitale. E, allora, perché guastarsi con il clero di prossimità, esso stesso del resto vessato dall’alto? Quanto ai capi più in alto, chi li vede mai? Passano ogni tanto a dirci le solite cose e allora facciamo loro festa senza tanto pensarci su, non stiamo a guastarla dicendo loro di noi, di come dolorosamente viviamo il rapporto con loro. Loro parlano anche a nostro nome, ma certo non sempre secondo quello che noi sentiamo veramente. Così, in genere, parlano per loro e per una Chiesa che non c’è. Sono gli unici a poterlo fare, così vuole il diritto da loro creato. Intorno al loro potere si sono costruiti una fortezza teologica  e pensano, a volte sinceramente penso, che quello sia l’unico modo per far sopravvivere la Chiesa nel mondo di oggi. La realtà li smentisce. “La Chiesa brucia”, è il titolo dell’ultimo libro di Andrea Riccardi, ed è così. Però si potrebbe anche descrivere la sua situazione dicendo che  si sta spegnendo. Anche le donne, così duramente umiliate eppure così fedeli, hanno iniziato ad allontanarsi: lo dicono i sondaggi statistici più recenti. Erano le ultime irriducibili praticanti.

 L’idea  di promuovere una stile comunicativo libero  e autentico  è buona, se la gerarchia sarà disposta ad ascoltare, dopo aver aperto, fin dalle comunità di prossimità come le parrocchie, degli spazi in cui si possa realmente parlare e dialogare con le altre persone. Di solito ci chiude la bocca con la questione della verità, della quale secondo le regole da essa sancite, è arbitra assoluta. Si illude che la sua teologia possieda la verità. Non sono un teologo e quindi non posso interloquire su questo. Constato che non di rado le idee che la gerarchia ha sulle società del nostro tempo e su come dovrebbero essere governate sono irrealistiche, fantasiose, e quindi irrealizzabili, e se anche si riuscisse a conformarvi la realtà per noi sarebbe un incubo. Quindi è una fortuna per noi che siano irrealizzabili. Il principale problema nella  verità  della gerarchia è che secondo essa non c’è spazio per alcuna vera libertà, dunque neanche per quella di prendere la parola. Questo naturalmente conduce i nostri vescovi ad adottare disinvoltamente, talvolta,  prese di posizione oltraggiose verso la democrazia, i suoi principi, i  suoi metodi, del resto secondo una tradizione  che risale agli albori dei movimenti democratici europei dell'era moderna.

 

 

5.4 Corresponsabili nella missione

 

  La sinodalità è a servizio della missione della Chiesa, a cui tutti i suoi membri sono chiamati a partecipare. Poiché siamo tutti discepoli missionari, in che modo ogni Battezzato è convocato per essere protagonista della missione? Come la comunità sostiene i propri membri impegnati in un servizio nella società (impegno sociale e politico, nella ricerca scientifica e nell’insegnamento, nella promozione della giustizia sociale, nella tutela dei diritti umani e nella cura della Casa comune, ecc.)? Come li aiuta a vivere questi impegni in una logica di missione? Come avviene il discernimento sulle scelte relative alla missione e chi vi partecipa? Come sono state integrate e adattate le diverse tradizioni in materia di stile sinodale che costituiscono il patrimonio di molte Chiese, in particolare quelle orientali, in vista di una efficace testimonianza cristiana? Come funziona la collaborazione nei territori dove sono presenti Chiese sui iuris diverse?

 

  Di solito, quando alle persone laiche si parla di missione esse pensano ai religiosi missionari mandati in terre lontane a parlare di religione e a insegnarla alle persone che vi si interessano. Se però intendiamo la missione  anche come azione sociale,  quindi come un attivarsi per produrre modifiche sociali, allora è chiaro che questo riguarda anche chi non si muove da dove vive di solito, e anche le persone laiche. L’Azione Cattolica è stata costituita proprio per fare quello.  E la domanda che, a quel proposito, ci viene posta dai nostri vescovi, nel processo sinodale che sta  per iniziare, si muove in quel quadro di idee:

«Come la comunità sostiene i propri membri impegnati in un servizio nella società (impegno sociale e politico, nella ricerca scientifica e nell’insegnamento, nella promozione della giustizia sociale, nella tutela dei diritti umani e nella cura della Casa comune, ecc.)?»

  L’elenco degli impegni sociali che leggiamo lì va considerato esemplificativo. Lascia fuori i due principali campi di attività sociale delle persone laiche: il lavoro  e la famiglia, in particolare nell’occuparsi della prole e degli anziani. Essi, che in quel passo del Documento preparatorio  rientrano nell' "ecc.", spesso esauriscono quasi del tutto il tempo di una persona. Il fatto che i vescovi non li abbiano menzionati espressamente è indicativo del fatto che li ritengono in fondo semplice routine, alla quale si debba affiancare altro.

  Inoltre, parlare di servizio nella società, riflette un po’ la mentalità del clero e dei religiosi, i quali appunto, una volta assestati nel loro stato di vita, si mettono alla ricerca di un servizio da svolgere. Le persone laiche si trovano invece coinvolti nelle loro principali occupazioni, appunto lavoro  e famiglia, senza tanto doverci pensare sopra: il primo è una necessità di sussistenza, la seconda di natura  e spesso la famiglia incide sul lavoro, su quale fare, sul tempo che si pensa di dedicargli e anche sulle proprie ambizioni.  E, tuttavia, la persona laica che si presenta al suo prete di prossimità o, qualche volta nella vita, addirittura al suo vescovo, si sente un po’ sempre in difetto perché capisce che, per quegli altri, ciò che fa è semplice routine e si aspettano sempre dell’altro in più.

 Ecco che, allora, si pensa che quelli che dell’altro riescono a fare, ad esempio perché non sfiniti dal lavoro e dalla famiglia,  i politici per dirne una, debbano essere sostenuti dalla comunità. E la comunità, chi la sostiene? 

  Il clero adotta una mentalità clericale  senza neanche rendersene conto, senza voler far del male od offendere. Certo, una persona che scelga il celibato o il nubilato, e quindi si cavi fuori  dagli impegni di famiglia, e tutto sommato un certo reddito ce l’ha di routine, per così dire, senza dover fare un lavoro che sfinisce, allora, ecco, ha il problema di fare anche dell’altro. E così, in genere, non si riesce a mettere nei panni di una persona laica, che si trova in una situazione molto diversa. Del resto è stato formato a pensare così.

  Dagli anni ’30, per la gerarchia l’attività che una persona svolge in società è considerata rientrare nel campo religioso: è una forma di carità, si dice. L’affermazione risale ad un discorso che il papa Pio 11° tenne agli studenti universitari della FUCI poco dopo il Concordato Lateranense e l’esortazione al laicato italiano a collaborare alla riforma corporativa del fascismo mussoliniano. L’affermazione della provvidenzialità  del capo del fascismo, ripetuta  all’epoca anche da diversi vescovi, raccontano gli storici, fu comunque un incidente storico dal quale il Papato si emendò dopo qualche anno.  In mezzo però ci fu la persecuzione degli ebrei italiani e una feroce guerra coloniale nel Corno d’Africa, anche con sterminio di monaci copti. Da allora, l’idea che l’impegno sociale avesse una valenza religiosa fu mantenuta e, anzi, estesa.

  Secondo i principi del Concilio Vaticano 2° la Chiesa dovrebbe essere anche il luogo in cui si ragiona su quegli impegni sociali che i fedeli svolgono, lavoro e famiglia compresi. Di solito lo si fa, a fini di discernimento, in associazioni e movimenti, ma non in strutture, come dire, generaliste, ad esempio in parrocchia. Le Settimane sociali, la 49° inizierà a breve a Taranto, servono proprio a questo. Stesso discorso per i Convegni ecclesiali  nazionali e i Congressi eucaristici. Sono tutte occasioni, nazionali, ben lontane dalle nostre realtà di prossimità, in cui ci si confronta sull’impegno sociale ispirato dalla fede. Esse hanno in comune l’essere egemonizzate dalla gerarchia, che ne predetermina il risultato. Dà un tema e indica come deve andare a finire, con il cosiddetto Instrumentum Laboris (=documento di base per la riflessione) o con un Documento preparatorio, e poi invita a sua discrezione relatori, convegnisti o congressisti, e approva la deliberazione finale. Il problema principale è che l’iniziativa non viene veramente da chi si impegna in società, che, con quel metodo, viene più che altro consultato. Così a volte si partecipa, più spesso si assiste, ma mai si partecipa da protagonisti.

  L’impegno sociale è legato all’evangelizzazione: questo significa il riconoscergli valore anche religioso. Per questo ciò che si fa in società assume anche il connotato di una missione. Di ciò si acquisì più chiara consapevolezza negli anni ’70 e il primo Convegno ecclesiale nazionale, che si svolse a Roma nel 1976, ebbe il titolo Evangelizzazione e promozione umana. Nell’ultimo, svoltosi a Firenze nel 2015, dal titolo In Gesù Cristo il nuovo umanesimo, nella gerarchia si manifestò l’idea di promuovere la sinodalità, perché per il solo clero un nuovo umanesimo  è un obiettivo un po’ troppo grosso. Siccome c’è bisogno di più forze, è rispuntata appunto la sinodalità diffusa, non solo degli autocrati,  che significa coinvolgere anche le persone laiche. Negli anni precedenti però si era puntato, lo ricordano gli storici della Chiesa, sull’evangelizzazione, mettendo un po’ in second’ordine la promozione umana, vale a dire noi persone laiche. Si trattò di una evangelizzazione in cui si faceva conto, come agenti sociali, essenzialmente su preti e religiosi e sul cosiddetto para-clero, le persone laiche che si facevano ausiliari nelle attività del clero. Si diceva che la Chiesa evangelizza, non costruisce società (come invece dovrebbe farsi per il nuovo umanesimo), Così non occorreva granché la sinodalità totale, che ora si vorrebbe invece indurre tra noi tutti. Questo poi ci portò alla problematica situazione attuale, sulla quale si è scritto molto e bene e sulla quale non sto quindi a ritornare, se non per dire che non è una bella situazione. Dimenticando la sinodalità è poi crollata anche la pratica, perché nell’Europa di oggi si è insofferenti del ruolo di semplice gregge nelle mani altrui.

  Una volta che si sia accettata l’idea che lavoro  e famiglia  sono impegno sociale e rientrano nella missione, sia come evangelizzazione che come promozione umana, sarebbe opportuno che nelle parrocchie, le realtà di prossimità che ancora legano più o meno tutti i fedeli, al di là di cammini  e spiritualità  particolari, si istituissero delle strutture sociali (nuove perché nulla del genere c’è) per dar modo alle persone laiche di incontrarsi, dialogare e discernere su quel loro attivismo in società. Ma non per sentirsi impartire un qualche catechismo: invece proprio per ragionare sulla loro vita, sul suo significato religioso e sulle sue prospettive, in un’ottica di fede, certo. In quei campi la formazione è prima di tutto autoformazione, perché l’esperienza conta molto e, ad esempio, preti e religiosi in genere non ce l’hanno. Questa è, dunque,  la proposta che faccio al nostro Consiglio pastorale parrocchiale, in un’ottica di sinodalità totale: infatti, organizzare cose simili rientra proprio nella cosiddetta pastorale. Questo consentirebbe effettivamente, secondo l’auspicio dei vescovi,  di sostenere i fedeli  impegnati al servizio della società e aiutarli a vivere quegli impegni in una logica di missione. Quei fedeli siamo tutti noi! Noi che siamo Chiesa emarginata, dimenticata, sottovalutata, spesso disprezzata.

 

 

5.5 Dialogare nella Chiesa  e nella società

 

   Il dialogo è un cammino di perseveranza, che comprende anche silenzi e sofferenze, ma capace di raccogliere l’esperienza delle persone e dei popoli. Quali sono i luoghi e le modalità di dialogo all’interno della nostra Chiesa particolare? Come vengono affrontate le divergenze di visione, i conflitti, le difficoltà? Come promuoviamo la collaborazione con le Diocesi vicine, con e tra le comunità religiose presenti sul territorio, con e tra associazioni e movimenti laicali, ecc.? Quali esperienze di dialogo e di impegno condiviso portiamo avanti con credenti di altre religioni e con chi non crede? Come la Chiesa dialoga e impara da altre istanze della società: il mondo della politica, dell’economia, della cultura, la società civile, i poveri..

 

  Nell’antica filosofia greca il dialogo era uno dei metodi per conoscere il mondo e la società. La parola italiana ci viene appunto dal greco antico e significa proprio quello: il discorrere  per capire, capire mediante il discorso. Presuppone almeno due interlocutori che si riconoscano a vicenda la dignità di partecipare a quel discorrere. Dialogando ci si forma una convinzione e, per i maestri che scelgono quella via, l’insegnare è vissuto un po’ come l’aiutare a partorire, per cui dai maestri greci veniva detto maieutica,  che faceva riferimento all’arte ostetrica. Gli si contrappone il metodo di imporre le idee facendo leva sull’autorità e quindi sulla diversa dignità di chi insegna e di è costretto ad imparare in un certo modo, senza alternative e senza poter discutere.

  Nella nostra Chiesa il dialogo si può praticare solo nelle associazioni di fedeli che lo ammettono, la più grande delle quali è la  nostra Azione Cattolica, con i suoi trecentomila aderenti di ogni età. I movimenti fondamentalisti e integralisti non lo tollerano. Al di fuori dell’associazionismo non c’è alcuno spazio per il dialogo, perché, statutariamente per così dire, la verità  è nelle mani del Papa e dei vescovi e deve essere semplicemente accettata per obbedienza. Questo è molto umiliante, ma la gerarchia ritiene che sia necessario, altrimenti la Chiesa si sfascerebbe.

  Verità, per la gerarchia,   è tutto quello che riguarda la religione, diciamo il campo del sacro, ad esempio i dogmi e molto altro. Non vi rientrano le convinzioni e conoscenze desacralizzate,  secolari, profane, vale a dire quelle che, a sua discrezione, la gerarchia lascia alla società. La loro area è molto variata nei secoli. L’astronomia, ad esempio, non vi rientra più. Inutilmente Galileo Galilei, scienziato vissuto tra il Cinquecento e il Seicento, tentò di dialogarvi sopra. Su di lui prevalse la teologia normativa del suo tempo, ma, alla lunga, essa poi dovette ritirarsi. Ecco, quello fu anche un esempio delle sofferenze  che nella nostra Chiesa possono affliggere chi vorrebbe dialogare. Per la gerarchia sarebbero addirittura virtuose, tanto che poi a volte proclama santi quelli che ha perseguitato e silenziato. In realtà, con il senno del poi naturalmente, sono solo sofferenze inflitte stupidamente, che hanno fatto molto danno alla stessa Chiesa. Un altro che soffrì in quel modo fu Lorenzo Milani. Anche la politica storicamente fu sacralizzata e quindi incarcerata nella verità canonica: questo costò la scomunica al primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele 2°, e a Camillo Benso Cavour, il presidente del consiglio dei ministri che fu tra i principali artefici della nostra unità nazionale, per aver posto fine allo Stato Pontificio, nel 1870. Dopo circa un secolo, però, il papa Paolo 6° definì provvidenziale  quell’evento. Anche a don Romolo Murri, tra gli ideatori di una democrazia cristiana, la politica costò la scomunica. Essa si abbatté  su Roberto Ardigò, che era stato prete e addirittura si pensava che avesse buoni numeri per diventare vescovo di Mantova,  uno dei nostri maggiori filosofi, per aver sostenuto l’autonomia delle scienze, principio che fu accolto durante il Concilio Vaticano 2°. Non visse nel secolo giusto.

  Il modo in cui la gerarchia ecclesiale intende ed esercita la propria autorità ci impedisce il dialogo. Questo perché a nessuno è riconosciuta pari dignità rispetto  agli autocrati. Essi ritengono di dover regnare  per diritto divino e vi hanno costruito sopra una teologia giustificativa. Dicono però che anche noi, persone laiche, siamo in qualche modo “re”, ma in realtà, al loro cospetto,  siamo definiti sempre sudditi  e si pretende da noi  docilità. Quando oggi si parla di sinodalità  come via di riforma della Chiesa   si mette in questione anche questo modo di governare. Ma non illudiamoci: la riforma potrà venire solo dal basso, per via sperimentale, piano piano, in un tempo lungo, e ci vorrà pazienza e perseveranza,  perché nessun autocrate fa spazio ad altri nel suo potere se non vi è costretto dalle circostanze, ad esempio se intorno a lui la società  è tanto cambiata che le consuetudini del passato appaiono obsolete anche a lui. Però un certo modo di regnare comincia a sembrare tale anche agli stessi gerarchi. Ci saranno quindi ancora molte sofferenze per impossibilità di dialogo nella nostra Chiesa. Nella biografia di una grande anima della nostra Chiesa come Giuseppe Toniolo, che tanto fece per il nostro associazionismo, è narrato il suo vivo dolore per le incomprensioni con il Papa del suo tempo: impariamo da lui la perseveranza nel cercare il dialogo, non cedendo alla tentazione di rompere. La Chiesa, se paragoniamo  la nostra a quella del suo tempo è molto cambiata. Certo non basta una vita sola per vedere la fine del processo.

  Il principale problema che abbiamo in materia di dialogo è che nella nostra Chiesa si rifiutano i principi democratici, perché, si pensa,  il potere in materia di fede può essere solo autocratico  e sacralizzato. Questo ostacola anche  i rapporti tra le varie componenti del laicato, così come tra parrocchie e Diocesi. Non vi può essere vero dialogo nel popolo senza democrazia. All’interno dell’autocrazia il dialogo in quel senso, ma con molti limiti, è ammesso solo quando ci si riunisce tra vescovi. Il vescovo, invece, nella sua Diocesi, nonostante i temperamenti introdotti dopo il Concilio Vaticano 2 verso i suoi sudditi tra clero, religiosi e persone laiche è un monarca assoluto, l’unico legislatore, secondo l’espressione del codice di diritto canonico,  mentre egli stesso è suddito di chi è sopra di lui e difficilmente può resistergli. Negli anni ’60 una grande anima come il cardinal Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, fu vittima di questa condizione e fu spinto alle dimissioni per aver criticato, nell’anno in cui fu celebrata per la prima volta la Giornata mondiale della pace (!) i bombardamenti a tappeto statunitensi in Vietnam. Sopra di lui c’era un’altra grande anima, Giovanni Battista Montini, Paolo 6°, il Papa che l’anno precedente aveva istituito quella Giornata mondiale della pace con un magistero ispirato: in quell’occasione egli fu, come si dice, vittima delle circostanze ed evidentemente non vide altra soluzione che chiedere la testa del suo confratello nell’episcopato.  

  Per quell’impossibilità di un vero dialogo, mi pare che ora ogni parrocchia viva come in un mondo a sé, anche se i rispettivi preti a volte si sentono, si incontrano, se non altro nelle occasioni create in Diocesi. Le persone laiche invece ci vivono come confinate e, per un’esperienza religiosa  un po’ più in grande, devono aderire ad un’associazione e movimento nazionali. Questo poi le disamora alla vita parrocchiale. Per quelli che scelgono quella via, la vita di fede è essenzialmente fuori della parrocchia, dove si va solo per sentir messa o portare i bambini  e ragazzi al catechismo, fin quando non li si può più tenere  e allora non si vedono più. Col tempo, questo modo di fare ha finito per rendere alcune parrocchie solo come strutture di supporto alle associazioni e movimenti che la abitano, e questo è stato molto sensibile nella nostra parrocchia in anni passati. Vi è cominciata ad affluire gente da fuori, non interessata alla parrocchia, ma ad un movimento che l’abitava. Ciò ha finito per rendere un po’ estranea la parrocchia al quartiere. Così poi non ci portavano più bambini e ragazzi per la formazione di base. Ad un certo punto, veramente molto tardivamente, la Diocesi ha rilevato il problema e ha tentato di porvi rimedio, mandando preti in supporto. Ma non è bastato, nonostante il valore di quel clero, che si è fatto rapidamente apprezzare e a cui vogliamo bene. La Chiesa non è fatta solo di preti. Rimane il fatto che, al di fuori di associazioni e movimenti, non ci sono occasioni di dialogo per le persone laiche  e quindi la situazione non può essere veramente corretta. E non ci sono perché, almeno finora, si pensava che non servissero veramente, e che, a parte preghiere e sacramenti, e un po’ di attività caritativa, le persone laiche non avessero veri motivi, dopo l’infanzia e la prima giovinezza, per frequentare la parrocchia.  Non certo per dialogare. Questo si riflette sui metodi e contenuti della formazione per le persone laiche che appare gravemente insufficiente. Il lavoro che esse devono fare in società non è quello dei monaci, appunto perché prevalentemente orientato all’azione sociale,  e invece spesso si cerca di insegnar loro una spiritualità monacale.

  Nella società civile le persone laiche vivono un’esperienza completamente diversa, in cui hanno diritto di parola, partecipano, influiscono collettivamente in varie maniere  e misure, e comunque in qualche modo contano. Vi si pratica la democrazia, anche se essa è sempre insidiata dalla prevaricazione violenta. L’Azione Cattolica è stata storicamente una delle principali scuole di democrazia per gli italiani: questo è stato in massima parte frutto del pensiero e dell’azione delle persone laiche che l’hanno animata. Si sono dimostrate capaci di non essere solo esecutrici ma di poter ragionare anche sui principi e di poterli anche insegnare (anche ai gerarchi). In questo vi è stato un vero e proprio magistero laicale. In questo l’Azione Cattolica si è emancipata da esse solo un braccio della gerarchia, secondo i suoi statuti delle origini, nel 1906. La nostra Repubblica deve molto all’impegno dei cattolici e questo sin dalla sua fondazione. Un’azione che è stata molto importante anche nella costruzione dell’unità europea, in tutte le sue fasi, ma, in particolare, nell’allargamento all’Europa orientale, che si presentava molto problematico. Tutto questo è poco considerato dalla gerarchia, che ancora, quando parla di radici cristiane dell’Europa, si riferisce prevalentemente ai tempi tremendi (per la violenza per motivi religiosi che espressero e quindi per la sconfessione pratica del vangelo) a cui risalgono le grandi cattedrali europee, che ora sono più che altro piene di turisti, si stanno trasformando in musei, e gli stessi gerarchi se ne lamentano. Un’Europa che ha consentito oltre settant’anni di pace non è molto apprezzata dai nostri vescovi, ne diffidano per quella democrazia che contiene e che ne è stata il motore, fattore di concordia tra i popoli, democrazia che, per il ruolo centrale che nella sua costruzione hanno svolto i cristiani,  è stata declinata anche secondo i principi cristiani, per cui  è diventata tanto diversa da altre bellicose democrazie, come quella statunitense. La democrazia è vista con sospetto per la libertà che esprime: si pensa che su quella via poi la gente vorrebbe mettere in questioni i dogmi sui quali storicamente la gerarchia ha costruito la sua efferata cosiddetta ortodossia,  o si darebbe a chissà quali  altre fantasie. Non si vorrà mettere ai voti la Trinità? Non si rende conto, la gerarchia, di quanto la sua teologia normativa sia diventata estranea alla maggior parte dei fedeli, per cui non sarebbe certamente quello il problema principale. I più, al di là della formula dell’antico Credo  che si recita a messa, nemmeno sanno di che si tratta e che cosa comporta. Interesserebbe tanto poco e a tanti pochi che non arriverebbe nemmeno a discutersene. Ma, ad esempio, introducendo principi democratici in una parrocchia, si potrebbe discutere di come usare locali e arredi, di come organizzare un appropriato progetto formativo per le persone laiche, di come programmare assemblee per orientarsi dialogando,  di quanto debito fare e per che cosa. Dico discutere  non solo nel senso di consultare  una limitata accolita di nominati, ma di farne partecipi tutti, mediante strumenti di pubblicità validi, di poterne discutere in assemblee, di avere un vero peso nelle decisioni mediante eletti dal basso, come già prevede del resto la normativa canonica. Questo è il metodo che pratichiamo nella società civile e chi ci viene vietato quando entriamo  in Chiesa, veramente un altro mondo in questo.

 Dialogo con altre religioni e con chi non credea che punto siamo?, ci chiedono i nostri vescovi. Alle Valli  non constato contatti tra fedeli di diverse religioni e tra noi c’è anche poca consapevolezza di che cosa esse siano, insieme a molti pregiudizi che ci derivano dal passato. Con chi non crede siamo in contatto tutti  giorni, nella vita in società, e certamente una qualche influenza abbiamo, se non altro per far conoscere attraverso noi la dimensione religiosa, ma questo, che è propriamente apostolato, non ci viene riconosciuto: alcuni ci vorrebbero brutalmente  piazzisti del vangelo e, poiché non lo siamo, questo è un altro elemento di insoddisfazione verso di noi. Nei rapporti con chi non vive la fede occorre una certa delicatezza e la capacità di mediare nel suo mondo ciò che intendiamo comunicargli: questo richiede di conoscerlo bene. Non basta strillargli addosso le parole della fede. Farlo è controproducente.

  Organizzare occasioni di dialogo in parrocchia: questa la proposta pratica che rivolgo al Consiglio pastorale parrocchiale per partecipare anche noi al processo sinodale che tra qualche giorno inizierà.

 A proposito: la sinodalità, prima di essere teoria, è pratica e richiede di farne tirocinio provando a dialogare riconoscendosi pari dignità: ciò che è risultato tanto difficile nelle nostra parrocchia,  e anche tra persone che sono sicuramente buone, ma che, essendo state formate alla religione in un certo clima, quando si incontrano al di fuori dei loro soliti raggruppamenti, diffidano le una delle altre e pensano che, dialogando, debbano rinunciare  a qualcosa di importante del loro modo di vivere la fede, di doversi amputare qualcosa, qualche parte di sé. Ma non è questo il risultato della sinodalità. E’ una paura che deriva da un certo integralismo che ci è entrato dentro e che non solo non è essenziale in religione, ma è anche dannoso. Ci divide, ci confina. Dobbiamo invece cercare di aprirci alle altre persone per indurle a fare altrettanto. In fondo condividiamo molti grandi principi ed  è su questo, su quello che ci unisce, che bisogna fondare il tirocinio di sinodalità.

 

 

5.6 Autorità e partecipazione

 

Una Chiesa sinodale è una Chiesa partecipativa e corresponsabile. Come si identificano gli obiettivi da perseguire, la strada per raggiungerli e i passi da compiere? Come viene esercitata l’autorità all’interno della nostra Chiesa particolare? Quali sono le pratiche di lavoro in équipe e di corresponsabilità? Come si promuovono i ministeri laicali e l’assunzione di responsabilità da parte dei Fedeli? Come funzionano gli organismi di sinodalità a livello della Chiesa particolare? Sono una esperienza feconda?

  

 Questa domanda, su autorità e partecipazione, che troviamo tra quelle elencate nel Documento preparatorio  per il prossimo Sinodo,  riguarda l’aspetto centrale di quest’ultimo, perché si tratta di un sinodo sulla sinodalità, quindi un sinodo che riflette su se stesso.

  Si apre con un enunciato sulla Chiesa e la sinodalità: una Chiesa sinodale è una Chiesa partecipativa e corresponsabile.

  La prima definizione, veramente epocale, è quella di  Chiesa sinodale. In passato solo il Sinodo dei vescovi venne ritenuto capace di sinodalità, quindi di una vera collegialità  sul da farsi.

  Nonostante quello che si è scritto negli ultimi anni in proposito, da quando la sinodalità ecclesiale  è stato oggetto di interesse da parte della gerarchia, una Chiesa veramente sinodale in tutte le sue componenti (sinodalità totale) non c’è mai stata. C’è stata, invece, talvolta, appunto in occasione dei  sinodi dei vescovi, una sinodalità dell’episcopato, vale a dire tra autocrati, i gerarchi (sono essi stessi a definirsi tali). Nella misura in cui essi si riconobbero pari dignità e rinunciarono a conflitti distruttivi, quindi decisero di prendere una decisione di comune accordo, ecco, allora essi furono sinodali. La sinodalità, dunque, cominciò a manifestarsi da quando, tra la fine del Primo secolo e l’inizio del  Secondo, emerse l’autocrazia religiosa, con l’episcopato monarchico. Le assemblee che c’erano prima erano altra cosa, ed anche, ad esempio, il concilio di Gerusalemme, che si data all’anno 49 della nostra era. Il racconto che ne troviamo negli Atti degli apostoli rende molto chiaro che non si trattò di qualcosa come i sinodi  e i concili  del secolo successivo e che, in particolare, l’autorità che in esso si manifestò era intesa in modo molto diverso da come lo fu qualche decennio dopo. E questo anche se si tende a ricoprire di significati che ebbero in epoca più tarda certe esperienze di autorità religiosa delle origini, perché tra noi essere in linea con le tradizioni più antiche rafforza l’autorevolezza delle decisioni. E’ per questa via che certe tradizioni  diventano poi la Tradizione, perché si immagina che ciò che si è deciso di essere in un certo tempo risalga a tempi antichi, molto vicini a quelli della vita da uomo tra noi del Maestro, e che sia rimasto inalterato per lunghissimo tempo, godendo di un vasto consenso Del resto l’esperienza di una Tradizione  è molto comune nelle culture umane e, ad esempio, molti dei principali istituti giuridici dell’Europa di oggi originano a tantissimo tempo fa, all’evo antico. La nostra teologia sulla Chiesa ha tuttavia una particolarità, quella di essere in gran parte di molto successiva alle origini e di essere stata, addirittura nei suoi fondamenti, profondamente inculturata dalle culture politiche che ad un certo punto l’adottarono come base ideologica. Della storicità delle nostre Chiese, in quel senso, non si è in genere consapevoli tra i fedeli, perché da un lato non la si insegna e dall’altro si tenta in vario modo di negarla, anche contro l’evidenza, perché si ritiene che il sacro sia eterno in quanto di origine soprannaturale, mentre solo il secolo, cioè le società di cui siamo artefici, sia soggetto a mutamenti. Tuttavia, già durante gli studi scolastici della scuola secondaria di secondo grado essa emerge con chiarezza.

  Merita di leggere quel brano degli Atti degli apostoli  al quale mi sono riferito, che vi propongo nella versione TILC – Traduzione interconfessionale in lingua corrente. Si tratta del passo degli Atti degli apostoli, capitolo 15, versetti da 1 a 32 [At 15, 1-32].

 

In quel tempo, alcuni cristiani della Giudea vennero nella città di Antiòchia, e si misero a diffondere tra gli altri fratelli questo insegnamento: «Voi non potete essere salvati se non vi fate circoncidere come ordina la legge di Mosè». Paolo e Bàrnaba non erano d’accordo, e ci fu una violenta discussione tra loro. Allora si decise che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dai responsabili di quella comunità per presentare tale questione.

  La comunità di Antiòchia diede a Paolo e a Bàrnaba tutto il necessario per questo viaggio. Essi attraversarono le regioni della Fenicia e della Samaria, raccontando che anche i pagani avevano accolto il Signore. Questa notizia procurava una grande gioia a tutti i cristiani. Giunti a Gerusalemme, furono ricevuti dalla comunità, dagli apostoli e dai responsabili di quella chiesa. Ad essi riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo di loro.

  Però, alcuni che erano del gruppo dei farisei, ed erano diventati cristiani, si alzarono per dire: «È necessario circoncidere anche i credenti non ebrei e ordinar loro di osservare la legge di Mosè».

  Allora, gli apostoli e i responsabili della comunità di Gerusalemme si riunirono per esaminare questo problema. Dopo una lunga discussione si alzò Pietro e disse: «Fratelli, come voi ben sapete, è da tanto tempo che Dio mi ha scelto tra di voi e mi ha affidato il compito di annunziare anche ai pagani il messaggio del *Vangelo, perché essi credano.  Ebbene, Dio che conosce il cuore degli uomini ha mostrato di accoglierli volentieri: infatti ha dato anche a loro lo Spirito Santo, proprio come a noi. Egli non ha fatto alcuna differenza fra noi e loro: essi hanno creduto e perciò Dio li ha liberati dai loro peccati. Dunque, perché provocate Dio cercando di imporre ai credenti un peso che, né i nostri padri né noi, siamo stati capaci di sopportare? In realtà, sappiamo che noi siamo salvati per mezzo della grazia del Signore Gesù, esattamente come loro».

 Tutta l’assemblea rimase in silenzio. Poi ascoltarono Paolo e Bàrnaba che raccontavano i miracoli e i prodigi che Dio aveva fatto per mezzo loro tra i pagani.

  Quando essi ebbero finito di parlare, Giacomo disse: «Fratelli, ascoltatemi! Simone ci ha raccontato come fin da principio Dio si è preso cura dei pagani, per accogliere anche loro nel suo popolo. Questo concorda in pieno con le parole dei *profeti. Sta scritto infatti nella Bibbia:

Dopo questi avvenimenti io ritornerò;

ricostruirò la casa di Davide che era caduta.

Riparerò le sue rovine e la rialzerò.

Allora gli altri uomini cercheranno il Signore,

anche tutti i pagani che ho chiamati a essere miei.

Così dice il Signore. Egli fa queste cose,

perché le vuole da sempre.

 Per questo io penso che non si devono creare difficoltà per quei pagani che si convertono a Dio. A loro si deve soltanto chiedere di non mangiare la carne di animali che sono stati sacrificati agli idoli. Devono anche astenersi dai disordini sessuali. Infine non dovranno mangiare il sangue e la carne di animali morti per soffocamento. Queste norme, date da Mosè, fin dai tempi antichi sono conosciute in ogni città. Infatti dappertutto ci sono uomini che, ogni sabato, nelle sinagoghe leggono e predicano la legge di Mosè».

  Allora gli apostoli e i responsabili della Chiesa di Gerusalemme, insieme a tutta l’assemblea, decisero di scegliere alcuni tra di loro e di mandarli ad Antiòchia, insieme con Paolo e Bàrnaba. Furono scelti due: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, che erano tra i primi di quella comunità. Ad essi fu consegnata questa lettera:

«Gli apostoli e i responsabili della comunità di Gerusalemme salutano i fratelli cristiani di origine non ebraica che vivono ad Antiòchia, in Siria e in Cilicia. Abbiamo saputo che alcuni della nostra comunità sono venuti fra voi per turbarvi e creare confusione. Non siamo stati noi a dare loro questo incarico. Perciò, abbiamo deciso, tutti d’accordo, di scegliere alcuni uomini e di mandarli da voi. Essi accompagnano i nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, i quali hanno rischiato la vita per il nostro Signore Gesù Cristo. Noi quindi vi mandiamo Giuda e Sila: essi vi riferiranno a voce le stesse cose che noi vi scriviamo. Abbiamo infatti deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose che sono necessarie: non mangiate la carne di animali che sono stati sacrificati agli idoli; non mangiate sangue o carne di animali morti per soffocamento. Infine astenetevi dai disordini sessuali; tenetevi lontani da tutte queste cose e sarete sulla buona strada. Saluti!».

  Gli incaricati partirono e giunsero ad Antiòchia. Qui riunirono la comunità e consegnarono la lettera. Quando l’ebbero letta, tutti furono pieni di gioia, per l’incoraggiamento che avevano ricevuto. Anche Giuda e Sila erano profeti: perciò parlarono a lungo ai fratelli nella fede, per incoraggiarli e per sostenerli.

 

 Vi invito a ragionarci sopra. Vi informo che, secondo gli esegeti:

-      non si deve pensare che gli apostoli di cui si parla nel brano fossero i Dodici; di essi era sicuramente presente solo Pietro;

-      il Giacomo di cui si parla non era uno dei due apostoli dei Dodici che avevano quel nome, ma la persona detta Giacomo fratello del Signore, parente di Gesù di Nazaret e personaggio eminente nella comunità dei suoi seguaci a Gerusalemme, uno dei suoi responsabili.

 La decisione che fu presa in quella sede, se anche i credenti provenienti dalle nazioni, vale a dire non dal giudaismo, dovessero seguire le prescrizioni rituali giudaiche, fu adottata dagli apostoli, dai responsabili della Chiesa di Gerusalemme, e da tutta l’assembleache quindi era composta anche da altre persone. Paolo e Barnaba era stati mandati  a quell’assemblea per dirimere quella delicata questione che stava dividendo la comunità di Antiochia, città della Siria dove, secondo Paolo,  i seguaci di Gesù iniziarono a dirsi e ad essere definiti come cristiani. Paolo, l’apostolo, si mosse su mandato  di quella comunità, nella quale la sua visione non era riuscita a imporsi. Vedete bene che risalta come si praticò un metodo di decisione molto diverso da quello dalla Chiesa in cui oggi viviamo e su una questione prettamente teologica, anche se all’epoca una teologia come disciplina di studio sistematico propria di un ceto di dotti ancora non c’era. Non c’erano neanche i vescovi come noi li intendiamo, vale a dire come capi monarchici e assoluti di una diocesi nominati dal Papa.

  Di solito, quando si pensa a una riforma della Chiesa, si cercano agganci nelle origini e quindi, da quando ci si è interrogati sulla sinodalità si è cominciato quasi sempre da quel brano degli Atti degli apostoli. Il problema è che, da quando si organizzò un clero, il potere ecclesiale passò progressivamente nelle sue mani e, in particolare, in quelle dei vescovi propriamente detti, i quali, ricordano gli storici, venivano nominati con molte diverse procedure, non da un papa, le quali comunque comprendevano un riconoscimento degli altri vescovi e questo, insegnano gli storici della Chiesa, fu senz’altro caratteristico nelle nostre Chiese, fin da quando l’episcopato vi si affermò, quindi molto presto.  Quando poi la nostra religione divenne un affare di stato, dall’inizio del Quarto secolo, tutto prese una diversa piega perché entrò di mezzo la politica civile, non solo ecclesiale, e allora nell’organizzazione del potere ecclesiale influirono moltissimo gli imperatori romani  del Primo Millennio, che risiedettero però a Costantinopoli  - Bisanzio, da Costantino 1° in poi [274-338] e le delibere di sinodi e concili divennero leggi per lo stato. La grandiosa riforma dello stato operata da Costantino 1° si accompagnò ad un‘altrettanto  epocale riforma delle Chiese cristiane che piuttosto rapidamente divennero “la” Chiesa. All’epoca della Riforma protestante, dal Cinquecento, i mali della Chiesa vennero individuati proprio in quel processo di statalizzazione  e accentramento  e si pensò che la via giusta fosse quella di tornare a ciò che c’era prima. La Riforma fu pensata da professori di teologia prima di essere vissuta dal popolo e questo creò vari problemi, diciamo così. Essa sicuramente puntò a dare di nuovo voce al popolo, ma tornare  a ciò che c’era prima non fu veramente possibile e questa è una lezione importante che ci impartisce la storia. Non è mai possibile rivivere la storia del passato, meno che mai una che è così lontana da noi come quella delle origini dei cristianesimi. Se vogliamo riorganizzare una società non dobbiamo cercare nel passato ma capire e valutare  come siamo diventati, e oggi siamo molto, veramente molto, diversi da come furono i primi seguaci del Nazareno e anche dalle prima comunità che si organizzarono propriamente come Chiese. I costumi di queste ultime non  erano poi sempre particolarmente virtuosi: in particolare erano travagliate da continui ed aspri conflitti. Espressero poi un violento antigiudaismo dal quale oggi non possiamo prendere sicuramente esempio e che si spiega storicamente con il fatto che i cristianesimi si formarono per separazione dall’antico giudaismo e non ne volevano essere riassorbiti. Si spiega ma non può essere certo preso a  modello di vita cristiana oggi. Vi fu anche l’esigenza di creare una nuova giustificazione mitologica del nuovo modo di vivere la fede che non lo costringesse in un’etnia e in una certa terra. Proprio la narrazione del concilio di Gerusalemme  rende chiaro di che si trattò. Da essa le nostre prime comunità di fede appaiono come attraversate da polemiche e divisioni e il metodo assembleare una via per fare pace, più che per imporre  rigidamente una certa dottrina. Si capì, allora, alla metà del Primo secolo, che con la gente che non proveniva dal giudaismo bisognava adattare riti e prescrizioni di purità, esercitare dunque quella che oggi diremmo una mediazione culturale.

  Una polemica in  merito si è riaccesa nello scorso settembre per una catechesi del Papa nella quale egli, insegnando sulla base di un brano della Lettera ai Galati  con un occhio alle nostre attuali divisioni, in sostanza definiva inutili  le antiche prescrizioni rituali giudaiche, che l’ebraismo nostro contemporaneo ancora osserva come legge di santità, ma ciò non per criticare gli ebrei di oggi e anche il giudaismo del Primo secolo, quanto per rimproverare coloro che, nelle nostre comunità, sono troppo legati a un certo formalismo religioso e vorrebbero che nulla cambiasse e per questo  disapprovano il magistero dell’attuale Papa. Il problema è, naturalmente, che il Papa è il Papa, un monarca assoluto in religione e nel suo micro-stato romano, e che ciò che dice in religione è legge e, in certi momenti, addirittura legge che non può essere messa in discussione, almeno fino a che un altro suo pari grado infallibile la modifichi, questo perché religiosamente si confida ardentemente che abbia colto nel segno (talvolta anche contro l’evidenza). Ecco dunque che l’assolutismo religioso ci ha creato un problema, e questo pur se il Papa, dicendo quello che ha detto, voleva parlare solo da pastore  e rivolgersi a noi, suo gregge, non rinfocolare da autocrate quell’antica diatriba. Egli con il suo magistero, il suo governo e anche in altro modo nei fatti ha dimostrato di voler essere amico degli ebrei del suo tempo. Dalla fine degli scorsi anni ’30 i cattolici si sono messi per quella via e il Concilio Vaticano 2° ha deliberato importanti principi in merito. Oggi non ci riteniamo più legati all’aspro e violento antigiudaismo dei Padri della Chiesa, lo abbiamo ripudiato dopo averlo praticato per secoli e, in quello, non ci sentiamo più loro figli. Esso storicamente è stato una delle radici culturali della Shoà. Fu soprattutto merito di noi persone laiche se esso, ad un certo punto, fu sentito come obsoleto, dannoso e quindi ripudiato, anche dalla nostra gerarchia, che tuttavia faticò abbastanza ad emanciparsene. Ecco un effetto positivo di un modo nei fatti partecipativo  di manifestare la fede.

  « Come viene esercitata l’autorità all’interno della nostra Chiesa particolare? Quali sono le pratiche di lavoro in équipe e di corresponsabilità? Come si promuovono i ministeri laicali e l’assunzione di responsabilità da parte dei Fedeli?». E’ semplice rispondere. Tutto il potere è del clero che lo esercita in modo autocratico e non solo nelle questioni di fede, ma, ad esempio, nella decisione di dove collocare la statua di un santo in una chiesa parrocchiale. Nel clero ci sono gerarchi che accentrano molto e altri che si avvalgono maggiormente della collaborazione di altri ministri ordinati. Quanto alle persone laiche, esse non contano nulla, non hanno l’ultima parola su nulla, né individualmente né collegialmente, cento  o un milione sono lo stesso di fronte ad un solo gerarca, sono al più ausiliarie  che rimangono tali a discrezione del clero.

 Posso dire che sicuramente, vista dalla nostra parrocchia,  la nostra Chiesa non è abbastanza partecipativa  né sufficientemente partecipata, ma più che altro solo frequentata. La relazione principale è col prete di riferimento, quello da cui ci si va di solito a confessare, se si è mantenuta questa pia abitudine, o quello al quale fa capo il servizio in cui si è ausiliari. Del Consiglio pastorale parrocchiale  so che c’è e che talora, in passato, parteciparvi, per il rappresentante dell’Azione Cattolica parrocchiale è stata un’esperienza forte, ma non in senso proprio positivo. Alle sue attività e decisioni non viene data pubblicità, per cui i fedeli non sanno che fa e che decide. Non sapendone praticamente nulla, al di fuori della ristretta cerchia di chi vi partecipa,  si può pensare anche che non sia al suo massimo, o peggio. Secondo le direttive del Cardinal vicario gli è stata affiancata una equipe pastorale, sempre con funzioni consultive, e, anche qui, delle sue attività non si sa nulla, al di fuori del suo ambito, di chi è stato chiamato a parteciparvi. Le norme vigenti prevedono una componente elettiva del Consiglio pastorale parrocchiale, ma, a mia memoria, e sono in parrocchia da molto (alla mostra fotografica che si sta organizzando manderò una foto del primo parroco, don Vincenzo, con tutti i suoi chierichetti e c’ero anch’io fra loro), l’assemblea parrocchiale non si è mai riunita per eleggerli. Quindi, essendo frequentato più che altro dai rappresentanti dei vari gruppi organizzati della parrocchia,  oltre che dal clero e dagli altri membri di diritto, il Consiglio pastorale parrocchiale mi appare più che altro come una sorta di assemblea condominiale, dove naturalmente si conta in base ai millesimi  rappresentati. Spero di sbagliarmi. In definitiva, in parrocchia certamente la Chiesa non appare sinodale nel senso oggi inteso dai nostri vescovi.

  Ora, la sinodalità  evoca tanti aspetti suscettibili di cambiamento nella nostra Chiesa, ma, secondo l’esortazione del Papa, penso che il metodo giusto sia cominciare ad affrontare quelli più vicino a noi, in basso, nelle realtà di prossimità, di base,  come le parrocchie.

  A chi sta In alto  spesso sfugge l’importanza della base: in una costruzione fisica, per legge di gravità, la stabilità di ciò che sta in alto dipende da quello che c’è in basso. In basso ci siamo appunto noi, ad esempio noi nella nostra parrocchia. Per tanti motivi sperimentare in basso è più semplice: si tratta di provare a vivere la fede in maniera meno difficoltosa e dolorosa. Non dobbiamo gestire stati, imperi immobiliari, banche ecc., né impegnarci nella complicatissima e paradossale nostra dogmatica, insomma tutto ciò in cui un alto gerarca religioso è incastrato, e più di tutti chi fa il Papa. Si vede come va e si adattano le regole alle circostanze, imparando da ciò che funziona bene. Non si tratta di riformulare dogmi o, comunque, pasticciare da dilettanti con la nostra ingarbugliata e perigliosa teologia. Il Concilio Vaticano 2° ha riformulato la dogmatica in modo da fare spazio a una Chiesa sinodale, vale a dire partecipativa  e realmente partecipata. Tanto basta e avanza. Ma non ha dato le prescrizioni di dettaglio: sarebbe stato del resto poco saggio, trattandosi di un’assemblea che riguardava la Chiesa universale, con gerarchi venuti da tutto il mondo. Partecipare in Cina, ad esempio,  è diverso dal partecipare in Italia, pio e si capisce perché. Non c’è una soluzione sinodale che possa andare bene dovunque e in qualsiasi ambiente umano. Al dettaglio bisogna pensare in sede locale, cercando di imparare dall’esperienza pratica, con una certa duttilità quindi, senza irrigidirsi in schematismi.

  Il primo passo dovrebbe essere proprio quello di  istituire sedi di partecipazione, vale a dire assemblee nelle quali si possa realmente partecipare, discorrendo. Ci si dovrà dividere in varie sezioni, perché, noi 1.000 circa praticanti abituali non c’entriamo tutti in nessun ambiente parrocchiale e, anche stringendoci e strizzandoci, in un numero così vasto non riusciremmo realmente a partecipare, ma solo ad ascoltare  o recitare un copione, come ci accade nei grandi eventi organizzati ciclicamente dalla gerarchia. Sarebbe bene dividersi per età, condizione e prospettive di vita (una persona ventenne non impegnata con la prole non vede le cose nella stessa maniera di un quarantenne sposato e con figli piccoli), ma anche interessi partecipativi (i cosiddetti carismi). Però poi dovrebbe essere previsto un certo rimescolamento in modo da aver modi di frequentarsi e conoscersi anche oltre quelle partizioni. Una cosa complicata senza un Comitato direttivo,  al modo di quelli che in varie diocesi, ad esempio in quella di Milano alla quale sono rimasto molto legato dopo avervi soggiornato per motivi sanitari, sono stati istituiti, con funzioni esecutive,  nei Consigli pastorali parrocchiali  e in quelli delle Comunità pastorali.

  Il secondo passo è quello di stabilire materie e campi in cui negli istituti di partecipazione di base possano essere realmente prese decisioni,  fosse anche solo quella, come detto, di stabilire dove vadano poste le statue dei santi in chiesa, qualcosa comunque in cui non si sia solo come consulenti. L’importante  è che in quei campi il clero, che finora accentra tutte le decisioni, non possa prevalere. E questo anche solo prevedendo che, posti due centri decisionali, ad esempio il Consiglio pastorale parrocchiale e l’ufficio del parroco, nessuna decisione, in quegli ambiti partecipativi,  possa essere esecutiva se non nell’accordo dei due. In sostanza, in caso di disaccordo, ad esempio se il parroco volesse eliminare una cinquantina di posti in chiesa per farvi posto ad una qualche costosa grande istallazione e l’organo partecipativo non approvasse questa decisione, o se analoga decisione fosse presa dall’organo partecipativo e non approvata dal parroco, si finirebbe così per prevedere un potere di veto  della parte dissenziente. Poi si vedrebbe come va. All’esito di un periodo di esperienza se ne potrebbe poi discutere non solo nell’organo partecipativo costituito dal Consiglio pastorale parrocchiale ma anzitutto nell’assemblea parrocchiale, che, a questo punto, si dovrebbe riunire in varie sessioni e sezioni, per dar modo a tutti i praticanti  di partecipare.

  Se la Chiesa, come ora sostengono i vescovi, deve essere partecipativa  e  corresponsabile, e in questo senso sinodale, la partecipazione a quelle attività dovrebbe essere presentata come obbligatoria e il non partecipare come cosa di cui accusarsi in confessione: “Padre, sono stato poco sinodale nell’ultimo mese”. Così il sacerdote potrebbe impartire per penitenza un periodo di sinodalità  accentuata, perché il penitente si emendi di quella sua poca sinodalità, ad esempio, per i giovani, partecipando anche  alle assemblee dei pensionati e viceversa.

 

5. 7 Discernere e decidere

 

 

  Che cosa si decide nella Chiesa? Ci sono decisioni che riguardano l’amministrazione dei beni, comprese quelle sulla destinazione delle risorse finanziarie, gli acquisti e le dismissioni; l’amministrazione del personale; la programmazione delle attività di propaganda e formazione; la programmazione delle liturgie; il coordinamento delle varie istituzioni che la compongono; gli orientamenti strategici per l’azione in società; i rapporti politici con altre istituzioni civili o religiose e, infine, l’individuazione della teologia normativa, vale a dire delle concezioni fondamentali sul soprannaturale e sulle sue relazioni con l’umanità in base alle quali distinguere chi è dentro e chi è fuori una certa tradizione che si vuole tramandare inalterata e che, in questo senso, è legge di ecclsialità. La funzione essenziale dell’apostolo, per come emerge dai Vangeli, riguarda formazione, liturgia e tradizione religiosa, vale a dire ciò che viene definito pastorale.

 

Gesù si avvicinò e disse: «A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Perciò andate, fate che tutti diventino miei discepoli; battezzateli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; insegnate loro a ubbidire a tutto ciò che io vi ho comandato. E sappiate che io sarò sempre con voi, tutti i giorni, sino alla fine del mondo».

[testo TILC – Traduzione interconfessionale in lingua corrente – dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 28, versetti da 28 a 30 (Mt 28, 28-30)]

 

 Questa la sua missione.

  La gerarchia ecclesiale fu voluta tale, alle origini, essenzialmente per questioni di tradizione religiosa. Infatti, al tempo in cui le idee cristiane cominciarono ad essere inculturate dalla filosofia ellenistica, prese piede una significativa letteratura religiosa che faceva capo a maestri indipendenti, secondo il modello delle scuole  filosofiche dell’antichità. Gli sviluppi si manifestarono come assai divergenti, e a tratti bizzarri, in particolare sulla missione e sul senso dell’esistenza stessa di Gesù, sulle prospettive del mondo nell’attesa del suo ritorno e sul da farsi nel frattempo, sull’essenza del bene e del male, sui rapporti con il giudaismo. La soluzione che sembrò funzionare meglio fu quella organizzata attorno ad un episcopato monarchico. I sistemi primitivi di potere sono spesso organizzati intorno al maschio dominante, ma anche oggi, quando ci sentiamo a disagio per la complessità della società in cui viviamo e che non riusciamo bene a capere, ci sorprendiamo a sognare un leader, una guida, a cui fare riferimento e la pensiamo al maschile. L’attuale ingenuo papismo massmediatico risponde in fondo a questa esigenza. Questo sistema produsse una tradizione normativa religiosa  e quindi l’idea di eresia, come divergenza da essa, per scelte indisciplinate che mettevano  a rischio l’unità dei credenti, rappresentata come un corpo. Il vescovo, allora, venne visto come pastore  e medico del corpo ecclesiale e, in questo, qualcuno che faceva le veci di Gesù. Il pastore  risana la società, guarendola  dalle eresie. Nel Primo Millennio funzioni vicarie in questo senso, riferite a tutta la Chiesa, furono svolte dall’imperatore romano, dal Secondo Millennio se le arrogò il Papa di Roma in regime, per così dire, di monopolio.

  L’esperienza sinodale nacque per coordinare i vescovi, in particolare quelli che si riconoscevano gli uni gli altri in comunione, vale a dire d’accordo sulle questioni fondamentali riguardanti la fede. Una delle funzioni principali dei vescovi delle origini fu proprio quella di attestare che un credente era in comunione  con loro, rilasciandogli un apposito attestato, una lettera di comunione, quando doveva spostarsi in un’altra diocesi. Quando erano in disaccordo o erano in disaccordo con qualche autore religioso, i vescovi lanciavano invece anatemi. Il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) fu il primo, nella storia della Chiesa, a non averne formulati.

  Nel prosieguo, con l’acquisizione di beni ecclesiatici e con l’organizzazione di una burocrazia ecclesiastica che doveva essere amministrata, nell’ufficio del vescovo furono integrate tutte le funzioni di cui si diceva all’inizio, in particolare quando, dal Quarto secolo, la religione cristiana venne assunta come ideologia dell’Impero romano,  i vescovi iniziarono ad esercitare funzioni pubbliche e le deliberazioni di sinodi e concili furono considerate anche leggi dello stato. Per questo, tutti i concili ecumenici del Primo millennio furono convocati e presieduti, direttamente o o da altri personaggi ma sotto la loro autorità, dagli imperatori romani, che però risiedevano a Bisanzio – Costantinopoli, in Tracia. Per questo essi furono tenuti tutti nei pressi di quella capitale o nella città stessa: appunto, Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia (in Asia minore).

  Con l’istituzione del Papato Imperiale, dal Secondo Millennio, a partire dalla riforma organizzata dal papa Gregorio 7°, regnante al 1073 al 1085, la gerarchia diretta dal Papato riuscì ad emanciparsi in buona misura dai poteri civili e assunse la caratteristica di una istituzione politica al modo degli stati suoi contemporanei, esprimendone tutte le relative funzioni e mantenendo e intensificando quella di polizia religiosa, per tutelare la tradizione normativa. Fino al Concilio Vaticano 2° 1962-1965) essa mantenne quella configurazione, che, sebbene in parte modificata, è ancora piuttosto visibile e ispira la normativ del diritto canonico, il diritto della Chiesa cattolica.

  Durante il  Secondo Millennio, nella  la Chiesa cattolica si produsse un progressivo ma significativo processo di accentramento politico intorno al Papato di Roma. Nei primi secoli del Millennio gli si contrappose un movimento di conciliarismo, che voleva limitarne il potere a favore del metodo sinodale, praticato nei sinodi  e nei  concili dei vescovi. L’accentramento e la forte sacralizzazione del potere del Papato si intensificarono in reazione ai movimenti della Riforma protestante e a quelli democratici di impostazione liberale, dal Settecento. Dalla metà Ottocento il Papato, in reazione a questi ultimi movimenti, che avevano finito per spodestarlo dal suo regno laziale, si organizzò per dirigere moti popolari, per esercitare una pressione politica in Italia sulla nuova democrazia a sostegno delle sue rivendicazioni, in particolare quando, agli inizi del Novecento fu introdotto il suffragio universale maschile. Per reazione verso  i totalitarismi fascisti e comunisti, poi, il Papato diede un’organizzazione totalitaria al suo movimento popolare italiano che aveva riorganizzato, nel 1906, nell’Azione Cattolica, costruita come un vero e proprio partito/sindacato al suo diretto servizio, ma anche come una potente agenzia formativa, che coinvolse in massa anche le donne. Dagli anni Cinquanta, questo accentramento politico e religioso cominciò ad essere messo in questione in teologia e la questione trovò spazio nel Concilio Vaticano 2°.

  Non si trattò solo di recuperare l’antico conciliarismo. La teologia del laicato, affermando che anche le persone laiche erano chiamate all’apostolato non per delega della gerarchia ma in virtù della loro diretta relazione con Cristo, aprì la strada all’idea che tutta la Chiesa dovesse essere sinodale, non solo i vescovi per dirimere pacificamente le controversie tra loro. E, tuttavia, nei documenti normativi deliberati da quel Concilio, di sinodalità non si parla. Si parla invece di collegialità dell’episcopato, sviluppata poi con l’istituzione del Sinodo dei vescovi, nel 1965. Esso è stato profondamente  riformato da papa Francesco nel 2018, con la Costituzione apostolica La comunione episcopale, una legge religiosa. Una delle principali novità è l’organizzazione, nella fase preparatoria del Sinodo, di una Consultazione del popolo di Dio, che, per il Sinodo universale 2021-2023, inizierà il prossimo 9 ottobre, e il 17 ottobre nelle Diocesi. Purtroppo in parrocchia non ne ho sentito parlare.

  In definitiva la teoria e la pratica della sinodalità ecclesiale totale sono una riforma di notevolissima portata, qualcosa che non si è mai vissuto.

  L’inizio del Sinodo universale, coinciderà anche con il processo del Sinodo della Chiesa italiana, che si concluderà nel 2025, anno del Giubileo.

  Il Sinodo ha come oggetto la sinodalità, e nel Sinodo nazionale la esamineremo per quanto più specificamente ci riguarda.

  Sinodalità significa decidere insieme, tra persone che si riconoscono pari dignità. Ma, prima di questo, è puramente e semplicemente stare insieme riconoscendosi pari dignità. E’ il Concilio Vaticano 2° che ha deliberato la teologia dogmatica che l’ha riconosciuta anche alle persone laiche, che quindi non possono più essere trattate come suddite. In questo il diritto canonico vigente appare ancora osboleto, seppure revisionato nel 1983, anno dell’entrata in vigore del nuovo codice di diritto canonico.

  Le fasi della decisione sono quella preparatoria, in cui si raccolgono elementi di valutazione, e quella della deliberazione. Nel Sinodo dei vescovi sono solo i vescovi a deliberare, a maggioranza, perché in quell’organismo ci sono solo loro. Si possono servire di quanto raccolto nella fase preparatoria, in particolare nella consultazione popolare, ma non sono obbligati a farlo. Non vi sono attualmente organismi nei quali la sinodalità  totale, quindi anche partecipata dalla persone laiche, possa esercitarsi fino alla fase di deliberazione di una decisione. Le leggi canoniche non la prevedono. Gli attuali organismi partecipativi nei quali possono lavorare anche persone laiche sono solo consultivi. E questo anche se nella burocrazia religiosa a certi posti, anche con responsabilità dirigenziali, sono state assegnate persone laiche.  La differenza, rispetto al metodo sinodale, sta nella designazione dall’alto e nell’essere gerarchicamente soggetti ad un’autorità burocratica superiore. Tuttavia, in una fase di sperimentazione, organismi del genere possono essere strutturati negli ambienti ecclesiali di base sfruttando i limitatissimi spazi di autonomia degl organismi partecipativi già previsti, ad esempio nei Consigli pastorali parrocchiali, come è stato fatto in diverse parrocchie italiane per organizzare sinodi parrocchiali.

  Il metodo sinodale ha il vantaggio di responsabilizzare chi vi partecipa. E’ ciò che nella domanda dei vescovi che ho sopra trascritto e che si trova nel Documento preparatorio  del Sinodo viene definito, curiosamente), prendendolo dal gergo aziendalistico, accountabìlity [pronuncia əˌkoun(t)əˈbilədē], vale a dire l’assunzione di responsabilità per una decisione, in particolare con riferimento alla regolarità della sua esecuzione e al suo risultato Di solito le persone laiche non si sentono responsabili di nulla, perché non contano nulla e non possono decidere nulla, quindi, semplicemente, quando si stancano di questa loro umiliante condizione, si allontanano e amen. In un processo sinodale, si è invece ammessi a partecipare ad una deliberazione nella misura in cui si accetta di assumersene la responsabilità e quindi di non mollare l’opera a metà.

  La condizione delle persone laiche è stata molto bene riassunta dal teologa Simona Segoloni Ruta, in Chiesa e sinodalità: indagine sulla struttura ecclesiale a partire dal Vaticano II. Fondamenti teologici [in Convivium Assisiense, 14/2 (2012), p.66. Ho trovato il brano citato in Ugo Sartorio, Sinodalità: verso un nuovo stile di Chiesa (saggi), Ancora 2021]

 

[…] una struttura verticistica più facilmente educa alcuni a  comandare e molti ad obbedire, educa pochi ad avere responsabilità e molti a sentirsi marginalmente coinvolti, ma educa tutti a ignorare ciò che l’altro cerca di dire: infatti chi ha responsabilità di governo decide e si carica della responsabilità senza dover dialogare con nessuno  - anche se questo non significa che nella prassi  chi ha responsabilità di governo nella Chiesa  non cerchi un dialogo autentico, ma dal punto di vista della struttura potrebbe non farlo -, mentre la stragrande maggioranza, che non ha responsabilità di governo, subisce ogni decisione, sapendo che non gli compete nemmeno di farsi domande in merito e così non esprime ciò che pensa ma nemmeno ascolta ciò che gli viene proposto, anzi spesso pensa di non esserne il destinatario.

 

 Questa è la condizione della maggior parte delle persone laiche nella Chiesa, al di fuori delle associazioni o movimenti ecclesiali organizzati democraticamente nei quali quindi si può effettivamente partecipare in tutto il processo decisionale, personalmente o mediante propri rappresentanti o delegati.

  Forzare i processi decisionali, per aprire spazi partecipativi, può essere spiacevole, perché il clero resiste a questi tentativi. La situazione del clero di base è particolarmente angosciante perché si trova costretto tra la pressione partecipativa, da un lato, e l’abbandono di massa per disaffezione, dall’altro, dei propri fedeli e le disposizioni dei propri superiori gerarchici. Esso non può aprire spazi di partecipazione, perché non ne ha la facoltà burocratica.

  Il processo sinodale che si sta per aprire potrebbe modificare la situazione, se non si risolverà solo nel rispondere a una specie di sondaggio, ma, promuovendo incontri e dibattiti, stimolerà la sperimentazione sinodale, dandone facoltà lì dove può avvenire senza tanti problemi, ad esempio in una realtà di prossimità come la parrocchia.

  In questa fase bisognerà convincersi che non è possibile cambiare di colpo un’organizzazione millenaria che si è incancrenita nei costumi gerarchici e nell’amministrazione spicciola di un ingente patrimonio e di un  numeroso personale dipendente, oltre ad essere intrappolata nella sua complicata e presuntuosa teologia normativa che costruisce problemi insolubili per poi dichiararli tali, perché tutto rimanga com’è.

  Quindi, nel definire l’area della sinodalità in un processo che coinvolga le realtà di prossimità, in via di sperimentazione, sarebbe bene delimitarla, per ora, alle decisioni che coinvolgono direttamente e da vicino la vita comunitaria di riferimento, evitando accuratamente di toccare l’inferno della dogmatica e il chiacchiericcio a vuoto che spesso è il prevalente oggetto dell’interesse dei media in materia religiosa (ad esempio preti sposati, venalità e corruzione delle curie,  procreazione e affini, matrimoni ecc.). Quindi si dovrebbe tener presente essenzialmente l’area della pastorale,  che ho sopra definito, e poi le questioni su locali e arredi parrocchiali, sulle risorse economiche della parrocchia, sulla divisione dei compiti nei servizi comuni. Se, ad esempio, si deve fare un calendario  delle attività, esso, in un’ottica di sinodalità, dovrebbe essere partecipato in tutte le fasi della sua progettazione e deliberazione. E, naturalmente, si dovrebbe comprendere nella sinodalità anche l’area della riflessione e tirocinio relativi alla  sinodalità pratica, di prossimità, quindi il Consiglio pastorale parrocchiale, da integrare con una componente elettiva e da disciplinare con un nuovo regolamento più aggiornato, che inglobi anche l’organizzazione della sinodalità, e l’Assemblea parrocchiale, da tenere sistematicamente in varie sessioni e sezioni, in modo da dare a tutti la possibiltà di partecipare, organismi nei quali imparare a pensare praticare  la sinodalità. Non dobbiamo presumere di sapere sulla sinodalità ecclesiale tutto ciò che significa, proprio mentre gli studiosi ancora si interrogano sull’argomento. Sul tema, in realtà, siamo tutti neofiti.

 

5.8. Formarsi alla sinodalità

 

 

 Il Sinodo che sta per iniziare è stato convocato per sviluppare una sinodalità ecclesiale come modo ordinario di vivere la fede, per tutti, e, per come è stato pensato e organizzato, ne è esso stesso una sperimentazione, così come avvenuto nei Sinodi sui giovani (ottobre 2018) e per la regione Pan-amazzonica (ottobre 2019), vale a dire quelli successivi alla riforma della struttura e della celebrazione del Sinodo dei  vescovi  attuata nel settembre 2018 con la Costituzione apostolica La comunione episcopale.

 Questa volta l’attività di consultazione dei fedeli sarà particolarmente estesa e, se non si limiterà a ritualismi e formalismi liturgici,  consentirà alla Chiesa, questa volta tutta convocata in sinodo, una penetrante esperienza di sinodalità, che potrebbe lasciare traccia duratura e significativa, anche in una realtà di prossimità come la nostra parrocchia. Ad essa, però, occorre formarsi, perché, come risulta chiaro leggendo il documento  della Comissione teologica internazionale La sinodalità nella vita e missione della Chiesa, pubblicato nel marzo 2018, all’esito di tre anni di lavori,

 

https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20180302_sinodalita_it.html

 

non la si è mai vissuta prima nella nostra Chiesa, a differenza di quanto avvenuto in altre Chiese cristiane.

  I teologi cattolici che da qualche anno si stanno occupando del tema di solito cominciano a precisare ciò che la sinodalità non è. Questo è il metodo da loro seguito in genere anche quando affrontano il tema della libertà. E, in particolare, ci tengono a distinguere sinodalità  e democraticità dimostrando incerta acculturazione a quest’ultima, per come oggi la si intende in Europa, la nostra società di riferimento. In particolare, non tengono conto che non si tratta solo di un metodo  per prendere decisioni collettive, ma che implica molti grandi valori e, innanzi tutto, quello della dignità della persona umana. Ed è proprio da quest’ultimo che, sviluppando idee del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), si è cominciato a ragionare di sinodalità. L’impulso è stato dato da papa Francesco. L’originalità della sua impostazione è appunto quella di presentarla come condizione ordinaria della vita nella Chiesa, non solo come qualcosa che si sviluppa occasionalmente tra vescovi, quando si trovano per decidere insieme nell’istituzione collegiale detta appunto Sinodo dei vescovi. La riforma di quest’ultima, da lui attuata nel 2018, ha come cardini una certa  partecipazione  al magistero del papa e una estesa consultazione  del popolo di Dio nella fase preparatoria. Ha così indicato la via per una più generale riforma del modo di esercitare l’autorità ecclesiale.

  Si è sinodali innanzi tutto riunendosi,  perché sinodalità  significa operare insieme.

  A questo punto di solito si parla di comunione. Bisogna sapere, però, che nella storia dell’attuazione dei principi del Concilio Vaticano 2° si è messa di mezzo la comunione per ostacolare vere esperienze sinodali.

  In un sistema in cui ad alcuni soli spetta di deliberare e a tutti gli altri solo di obbedire, comunione significa mettersi insieme per decidere di obbedire con tutto il cuore  a ciò che è stato deliberato, silenziando ogni obiezione. Si pensa anche che sia lo Spirito a condurre a qualcosa di simile. Come è stato osservato, secondo quest’ordine di idee chi delibera non ascolta veramente gli altri, ma anche chi obbedisce non ascolta, se non per sapere che deve fare. La formazione all’obbedienza, così, è tendenzialmente incolta, perché ai più sapere non serve. Basta essere in grado di capire gli ordini ricevuti.

  Un potente apparato teologico   è pronto per condurre su quella via. Una volta che la si sia imboccata, nulla cambierà. Perché la situazione rimarrà esattamente quella in cui ci troviamo e che, a detta dei più, non è una bella situazione.

 Se non si ha tutti la possibilità di essere ascoltati e di influire in qualche modo sul risultato, allora in questo non c’è pari dignità, nonostante tutte il chiacchiericcio teologico che ci si fa sopra.

 Ma allora tutto finisce in un negoziato? Penso sia un po’ la situazione attuale dei consessi degli autocrati, anche se ammantata di spiritualità e coperta da quello che è stato definito un muro d’incenso. Ritengo  sia per questo, per nascondere un negoziato di cui ci si vergogna, che, in particolare, i cardinali che partecipano al Conclave sono tenuti all’assoluto segreto su quello che si è detto e fatto in quel consesso.

  Certamente, quando si dialoga per deliberare, un negoziato è inevitabile: non ci si illuda di poter raggiungere l’unanimità con fascinazioni spirituali. Ma non è detto che questi discorsi debbano essere condotti con spirito condominiale. In particolare non è questo che accade nei parlamenti, o almeno non dovrebbe accadere se sono veramente tali. Nella Chiesa come nello stato sono coinvolti valori che sovrastano l’interesse spicciolo di ciascuno, in particolare quello relativo alla fetta della torta  sperata.

  Si pensa che, se tutti fossero ammessi a dire la propria, allora la verità,  vale a dire la tradizione teologica normativa, sarebbe in pericolo e che solo l’autocrazia la preservi. L’esperienza storica non conforta in questa idea, che è più che altro un pregiudizio. Perché non è assolutamente detto che, anche in una Chiesa sinodale come nelle democrazie avanzate, i principi supremi possano rimanere nelle mani di maggioranze estemporanee e che in merito non possa essere esercitato un magistero autorevole per porle al riparo da questo. Quei principi si sono storicamente dimostrati in pericolo quando sono finiti nel potere di una sola persona o di ristrette oligarchie, cosa che le regole della democrazia cercano accuratamente di evitare, e anche in un sistema sinodale dovrebbe essere prevenuto. Un magistero simile a quello della nostra gerarchia ecclesiale è poi esercitato, nelle democrazie civili, dalle Corti Costituzionali, dagli altri magistrati e da diverse altre autorità indipendenti. Questo appunto perché la democrazia è venuta a inglobare un sempre più un esteso sistema valoriale che non è mai lasciato alla mercé delle folle.

   E poi democrazia non è solo dire la propria, ma articolare argomentazione ragionevoli.

  Quando si vuole continuare a tenere il popolo fuori delle decisioni ecclesiali è perché lo si diffama ritenendolo incapace di questo. Era lo stesso pregiudizio antidemocratico degli autocrati civili di un tempo e anche la ragione di una certa diffidenza degli antichi filosofi greci, i primi maestri di teoria politica, verso la democrazia come allora la si intendeva.

  Una prima tappa della formazione all’ecclesialità può essere pensata proprio come tirocinio al discorso ragionevole in assemblee di prossimità. Ognuno si deve spiegare, non fare l’invasato o fare violenza.

  Bisogna dire che sulle persone laiche in genere si riversano molti effetti speciali religiosi, il prodigioso, il miracolante, lo stupefacente, e questo purtroppo è stato storicamente un modo di tenerle a bada da parte della gerarchia, aiutandosi con il sacro numinoso. Questo non ha aiutato nello sviluppo della ragionevolezza. L’Azione Cattolica e altre istituzioni analoghe hanno faticato molto per conquistare ai cattolici una credibilità in società.

  Quindi poi, con quelle premesse,  quando si è provato a inscenare la sinodalità, essa, come è stato osservato era  spesso più affettiva  che  effettiva. E dalla parte  degli autocrati si è accettato, talvolta, il dialogo, solo quando sembrava che non si potesse fare altro, non con convinzione.

  In Europa le persone laiche si sono abituate invece ad essere protagoniste in società e a ragionare, prendendo in esame anche le questioni centrali, più importanti. Poi entrano in chiesa e sono ridotte a nulla: tutto passa sulle loro teste, e non parliamo dei dogmi, quindi della cosiddetta verità, ma di cose minime, come la posizione delle statue dei santi in chiesa.

 Leggo in Ugo Sartorio, Sinodalità, Ancora 2021,

 

[…]  I laici, praticamente «l’immensa maggioranza del popolo di Dio»[citazione dall’esortazione apostolica La gioia del vangelo, 102] come ci ricorda papa Francesco, una maggioranza rimasta per secoli silenziosa e per molti motivi inascoltata, non certo inoperosa. Se è vero che in gran parte la historia laicorum [=la storia delle persone laiche]  è in gran parte una historia dolorum [=storia di dolori], per il fatto che il loro sembra un protagonismo che sul piano della storia è di volta in volta rimandato (è scoccata l’ora dei laici, si dice, ma poi non succede molto), bisogna chiarire che la questione posta dalla sinodalità non riguarda propriamente la presa di parola di categoria di categorie fino ad ora trascurate, bensì, più in profondità, il fatto che a tutti è richiesto innanzi tutto di ascoltare. La sinodalità, detta in questa prospettiva e in una sola frase, non è tutti parlano, ma piuttosto tutti devono prima ascoltare.

 

 Il clero, e ancor più i vescovi che la maggior parte delle persone laiche incontrano molto raramente e assai superficialmente, non ascolta se non i propri superiori, quando proprio non può farne a meno. Nella nostra Chiesa mi pare che nessuno ascolti nessuno, quando se lo può risparmiare.

 Quindi un Sinodo come quello che si sta per aprire, che prevede una fase di ampia consultazione della gente di fede, può essere un bel progresso su un via diversa. Purché non scada nel rito, nella pura liturgia, in cui al fedeli laici chiamati a parlare  dal palco viene messo in mano il classico foglietto ed essi devono limitarsi a interpretare la loro parte, e così li si abbia per consultati.

  L’esito della fase del discernimento, vale a dire di preparazione della decisione  su un certo tema, non può solo essere quello di decidere di fare come dice un autocrate, punto e basta. Non c’è nessuna dignità in questo e nessuna sinodalità.

  Ma, si dice, non  è che così si finirà per litigare? Può accadere. Accade anche nei sindodi dei gerarchi, per quello che ne esce fuori. Alcuni furono piuttosto accesi, si racconta. Ecco, però, la sinodalità  significa rimanere pervicacemente insieme nonostate le diversità di vedute e anche le liti, perché il rimanere insieme è un valore più importante dell’ottenere ragione a tutti i costi in una certa occasione. E’ opera dello Spirito, c’entra il soprannaturale? Non sono un teologo e non mi azzardo per quella via. L’esperienza del lavoro in assemblea insegna comunque che c’è più soddisfazione a rimanere insieme e a riuscire a organizzare qualcosa insieme, non ciascuno per sé, a costo di rinunciare a qualcosa dei propri progetti. E si è anche molto più efficaci.

  Alla scoperta della sinodalità si procede per piccoli passi, per gradi, dalle piccole cose, ad esempio affrontando le decisione ordinarie di una parrocchia,  rispettando la capacità di assimilazione di chi rimane indietro.

 Scrive ancora Sartorio, nel tsto che ho citato:

 

 Per quanto riguarda il camminio verso una Chiesa sinodale, sono ancora numerosi gli ostacoli da superare, e vengono soprattutto da una ripetizione irriflessa di modelli clericali di un certo passato, sia da  parte dei chierici che, specularmente, dei laici. La piramide rovesciata, vale a dire una Chiesa che è prima di tutto il popolo di Dio, ha bisogno di realizzazioni concrete, come un modo nuovo di vivere i sinodi, da quello diocesano, ma anche di fare pastorale e quindi di guidare le comunità parrocchiale e di vivere in esse l’autentica fraternità cristiana.

 

  Penso che, nella fase sinodale, che si sta per aprire, il Consiglio pastorale parrocchiale, che sarà chiamato a rispondere alla dieci domande poste a base della consultazione popolare sinodale, potrebbe utilimente aprire una fase di consultazione analoga tra i fedeli della parrocchia, che potrebbe essere anche occasione formativa. Del nostro Consiglio pastorale parrocchiale sappiamo poco, se non che c’è. Fu concepito come organismo partecipativo, che andrebbe rivitalizzato in quel senso. Perdere un’occasione come quella della fase sinodale che si sta aprendo sarebbe veramente avvilente.

  Certo, so che non tutti in parrocchia condividono questa proposta di sinodalità che ci viene ora dall’alto e, tutto sommato, alcuni preferirebbero continuare a fare di testa propria, secondo come s’è sempre fatto, e magari pensano, così facendo, di essere più spirituali. Lo Spirito va dove vuole, si dice, e, come il vento non sai da dove viene né dove va, ma, essendo invisibile, intangibile, non verificabile, appunto spirito, c’è chi lo tira da una parte e chi dall’altra e, quindi, tutto il parlare di Spirito che fanno i teologi non mi coinvolge molto; del resto non sono un teologo. Lo stesso dicasi del sensus fidei [il senso per la fede giusta, la verità], quella capacità di intuire la verità  che il popolo avrebbe, al di là di qualsiasi ragionamento di cui si sia capaci, e che io certamente non sento in me e non vedo particolarmente evidente negli altri. Ma, lo ripeto, non sono un teologo. I teologi, leggo, la vedono diversamente.  Penso però che poter vivere la fede in maniera meno umiliante di ora sarebbe bello per noi persone laiche. Ma per riuscirci bisognerebbe però andare oltre la propria interiorità e l’ambito delle consuete frequentazioni, per fare Chiesa aprendosi, non solo da semplici spettatori o, al più, di comparse, ciascuna con il proprio foglietto  in mano da leggere, ma cercando di sviluppare discorsi ragionevoli da porre alla base del dialogo con le altre persone. Occorre certamente sapere un po di più  di ora. Facciamo un bel parlare di sinodalità, ma se tra noi e i nostri preti rimangono dislivelli abissali di conoscenze, come ora, tutto può riuscire vano. Ripongo molte speranze nei giovani, che sono tra le generazioni di quell’età più acculturate di tutti i tempi, per il lungo corso di studi che seguono. Possono essere importanti agenti di diffusione della formazione.

 

 

 

6. Sinodalità ed ecologia

  La sinodalità è pensata come un modo di vivere insieme la fede diverso da ora, sia nell’esercizio dell’autorità, che si vorrebbe più partecipata sia nell’assunzione di responsabilità, nella quale si vorrebbe coinvolgere le persone laiche. Questo essenzialmente perché, dal punto di vista di chi comanda ora,  i sistemi democratici hanno affrancato la gente dal dominio della gerarchia, per cui si conforma ai precetti da quest'ultima formulati nella misura in cui li ritiene giusti e se non obbedisce non subisce conseguenze gravi. E questa è già una forma di partecipazione alle decisioni comuni. Però senza responsabilità: infatti la Chiesa, come società, sta progressivamente svanendo senza che le persone laiche, la grande maggioranza della gente di fede, se ne dia eccessiva pena. Ma messa così, sarebbe troppo poco per indurre un cambiamento. Quindi questo discorso è stato collegato all’ecologia politica.

  L’ecologia, una scienza, studia i viventi nell’interazione con i loro ambienti. Cerca in questo, come ogni scienza, di avere una visione realistica, affidabile. L’ecologia politica è invece un’ideologia che si è sviluppata nella seconda metà del Novecento e si base sul presupposto che nelle società umane si possa fare qualcosa per costruire  ambienti più favorevoli alla vita, e in particolare a quella umana, e che ciò comporti anche di regolare le attività umane che incidono sulla natura intorno a noi. Questa idea si basa sul presupposto che gli esseri umani possano realmente incidere sull’ecologia ambientale, non solo sulle loro società. Questa convinzione ha preso piede soprattutto dopo che, con l’impiego dell’arma atomica, nel 1945, ci si è resi conto che l’energia nucleare maneggiata dagli umani era effettivamente in grado di distruggere e rendere inabitabili gli ecosistemi in cui le società umane sono integrate. Successivamente, dagli anni ’60 del Novecento, si è acquisita consapevolezza dell’importante incidenza delle attività industriali su quegli ecosistemi.

   In religione si cerca di integrare questi pensieri sull’ecologia con la dottrina formulata su base scritturistica. Si pensa, così, che la natura, quindi diremmo oggi anche gli ecosistemi, sia stata voluta buona e che si sia corrotta per il peccato dell’uomo. Questa visione, dal punto di vista ecologico-scientifico, è irrealistica  e quindi assai problematica nella costruzione sociale. Fino ad epoca recente le società umane non sono state veramente in grado di influire sulla natura; potevano guastare o migliorare solo le relazioni sociali tra gli umani. Innanzi tutto fino alla metà del Novecento l’umanità era molto meno numerosa di oggi e poi la potenza industriale, che fino ad oggi si è basata sullo sfruttamento di risorse naturali non rinnovabili, era molto minore.

  L’idea di una natura buona  è tutta umana. L’equilibrio naturale studiato dall’ecologia come scienza è fondato sulla violenza ed è precario: il fatto che tutti mangino tutti, nelle catene alimentari,  realizza un’economia  di risorse. Di questa realtà si prese coscienza nel corso dell’Ottocento ed essa fu sconvolgente. Per altri versi ci fu chi pensò di accettarla come norma sociale e i fascismi dello scorso secolo furono i movimenti politici che più marcatamente inglobarono questa idea.

  Cambiando modi di organizzazione sociale per ridurre la pressione umana sui sistemi ecologici, probabilmente potremo sostenere più a lungo un’umanità che rapidamente si sta facendo più numerosa, anche se i tassi di crescita della popolazione sembrano diminuire in certe parti del mondo. Altrimenti, probabilmente, abitare il pianeta sarà progressivamente più penoso anche perché, come in natura, si ricorrerà alla violenza per sopravvivere in ambienti fattisi ostili. Cambiare modi di vivere è divenuto quindi una esigenza ecologica, non più solo etica. Questa esigenza di cambiamento è posta in relazione, ora, in religione, con quella che riguarda la Chiesa, e che è basata essenzialmente su altri problemi. Ciò che le accomuna è però l’idea che si debba fare qualcosa per rendere più accogliente l’ambiente in cui si vive, perché ci dobbiamo vivere sempre più numerosi e questo comporta che non possiamo farlo seguendo gli antichi costumi di prevaricazione e violenza, sull’ambiente e sulle persone. Essi sono fondati sullo spreco, di risorse, e anche di persone. Mettere ai margini una persona significa sprecarla.

 Su queste concezioni c’è però ancora molto da riflettere per raccordare meglio ecologia politica e sinodalità, come viene proposto.

 

7. Una stagione importante

 

  Se nella vita ecclesiale il primato spetta all’evangelizzazione, non si potrà essere in prima linea con questa prospettiva fino a quando i laici non saranno nella Chiesa veri protagonisti ai quali  è data la parola, è riconosciuta competenza nelle cose mondane così come in quelle ecclesiali e quindi soggettualità nella missione in prima persona e non per delega. Dobbiamo ammettere che negli anni ’80 e ’90, per timore che non fosse rispettata l’ortodossia, si sono perse delle buone occasioni di coinvolgimento e di crescita della base laicale, per cui gli appelli che oggi si levano a favore di una piena assunzione di responsabilità da parte dei laici nella Chiesa sono spesso rivolti a gruppi di cristiani sempre più esigui e incanutiti. Gli operai hanno abbandonato la Chiesa, si diceva negli anni ’60, poi però è stata la volta dei giovani e da qualche tempo anche le donne sembrano segnare il passo, per una crisi di dissonanza, per la fatica di sentirsi a casa in comunità spesso clericocentriche e perciò asfittiche. Impossibile, in ogni caso, immaginare una Chiesa sinodale senza quella trama di carismi laicali che rendono viva la comunità cristiana e la mantengono in osmosi con il mondo.

 

[da Ugo Sartorio, Sinodalità,  verso un nuovo  stile di Chiesa, Àncora 2021]

 

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   Domani inizierà una stagione importante della nostra vita nella Chiesa, nonostante un certo latente autoritarismo clericale che tenterà, e probabilmente riuscirà, ad egemonizzarla. La normativa ecclesiastica, mediante la quale a lungo  si sono utilizzati teologia e diritto canonico per respingere e tenere ai margini la gran parte della gente di fede, non aiuterà. L’esame di quella obsoleta e irritante letteratura facilmente può far perdere d’animo anche i più i volenterosi. Il rischio che tutto si risolva nell’inscenare delle liturgie è molto alto. E, nondimeno, questa volta vale veramente la pena di impegnarsi.

    La nostra gerarchia si illude di avere il monopolio delle definizioni della fede. In Italia, dove purtroppo dall’Ottocento la teologia è insegnata praticamente solo nelle università ecclesiastiche, la cultura del ramo coopera nel confermarli in quella fantasiosa convinzione. Mettere esplicitamente in dubbio l’effettività dell’autocrazia episcopale in quella materia può costare il lavoro, con il conseguente sconvolgimento di vita, per un teologo professionista. Ad esempio se si cerca di affrancarsi dalla consueta e incolta diffamazione clericale della democrazia come nel mondo di oggi, nell’Occidente avanzato, in Europa, la si concepisce e vive. In particolare, sostenere, contrariamente all’evidenza,  che la democrazia è espressione di individualismo  è una cosa sciocca, e anche inutile: ogni processo politico è sempre collettivo e se, come quello democratico, mira ad includere il più possibile, non può mai essere individualista, perché nasce proprio per far superare alla persona la prigione del proprio io. L’immagine della democrazia che a volte mi pare circolare tra i nostri vescovi e i loro teologi di riferimento è quella dell’assemblea condominiale e ad essa assimilano i parlamenti, fondamento invece della dignità democratica che ancora nella nostra Chiesa è di là da venire, nonostante tutto il chiacchierare a vuoto di dignità  del credente. Che dignità c’è nel non contare nulla, nel sapere che sempre  si può fare a meno di noi? E che, anche ammessi talvolta in alcune delle sedi di discussione a cui la gerarchia sulla carta si impegna a far riferimento, bastano due righe di un vescovo o di un parroco loro per cacciarci fuori senza tanti complimenti? La lettura di due documenti importanti, perché vorrebbero insegnare ai vescovi a fare il loro mestiere, l’Istruzione sui sinodi diocesani (1997) https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cbishops/documents/rc_con_cbishops_doc_20041118_diocesan-synods-1997_it.html  (1997) e il Direttorio sul ministero pastorale dei vescovi Successori degli apostoli – Apostolorum successores https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cbishops/documents/rc_con_cbishops_doc_20040222_apostolorum-successores_it.html (2004), congegnati durante quello che ormai tanti definiscono un lungo inverno ecclesiale, è veramente demoralizzante sotto quel profilo.

  La realtà è, tuttavia, che da metà Ottocento la gerarchia, tutta, sta andando a rimorchio di noi persone laiche, anche se in certi periodi tirarcela dietro è stato particolarmente difficile. I nuovi principi che i saggi del Concilio Vaticano 2° credettero di aver trovato nella loro teologia e nel deposito  di fede  loro affidato, in primo luogo quello della dignità del credente, glieli abbiamo insegnati noi persone laiche. Lo stesso dicasi, oggi, dell’ecologia politica. In religione si è usata la teologia per ammantarli di sacro in modo da renderli assimilabili a capi religiosi che solo la teologia intendono e solo della teologia si fidano, perché storicamente l’hanno sfruttata per legittimare la propria autocrazia, ma, come dicono espressamente e giustamente i reazionari, la loro origine non è teologica.

  Dobbiamo intenderci: al centro del Sinodo sulla sinodalità, dietro e dentro il quale si annida poco evidente (per ora) anche il Sinodo della Chiesa italiana, cruciale anche per la Chiesa  universale perché dentro la Chiesa italiana c’è il Papa quale vescovo di Roma, non ci sono tanto questioni di potere con la gerarchia, ma il rapporto con il mondo di oggi, le vie di evangelizzazione e, quindi, c’è molto di più. L’obsoleto sistema clericale di potere autocratico non funziona più, è un ostacolo molto serio sulla via dell’evangelizzazione, non è un dono, come si suole scrivere nella fantasiosa letteratura di genere,  ma un peso grave e, nella sua capacità di emarginare, la causa di sprechi  di preziose potenzialità. Da solo, però, non riesce a cambiare, ecco perché, per salvare ciò che di sé è ancora utile, deve aprirsi e ascoltare. L’ascolto che si è programmato di fare nella fase preparatoria  del Sinodo è quindi molto importante, proprio nella decisione di ascoltare. Noi persone laiche, però, dobbiamo farci animo, superare una certa comoda ignavia, e parlare.

  Quindi, bene, nelle liturgie sinodali che si terranno staremo ancora al nostro posto con il foglietto in mano a leggere quello che ci viene detto e consentito di leggere, ma nelle sessioni di ascolto sinodale cerchiamo di parlare chiaro, con parrèsia, cerchiamo di dare un’immagine realistica della società in cui  si deve operare e di ciò che occorre fare.

  Purtroppo, a differenza di ciò che sta avvenendo nel Sinodo della Chiesa tedesca, la democraticità dell’evento sarà assai scarsa e quindi gli spazi di parola non sono aperti di principio, ma andranno conquistati e, alla fine, sarà comunque gente del clero a decidere tutto. Se ne parla come di comunione, che consisterebbe nel fatto che uno solo vale milioni di noi, per diritto divino, e che si parla, si parla, ma solo per farsi ascoltare da uno solo, che poi, per un qualche prodigio spirituale,  riuscirebbe a superare le limitazioni fisiologiche e psicologiche individuali che condizionano moltissimo il decidere umano, come ci insegnano gli scienziati cognitivi,  e trovare la via giusta, ciò che in nessun altro campo riesce agli umani.  Dobbiamo trovare la forza di dire che questa è una favola  e per di più una favola che ha fatto tanto soffrire. Solo dalla reale cooperazione degli intelletti può uscire la migliore soluzione in un certo tempo, sempre però soggetta a revisione, perché i tempi e le società sempre sorprendono e richiedono aggiustamenti. Sinodo  non può voler dire solo riunirsi intorno  ad un autocrate, discutere al suo cospetto, come si faceva con gli antichi imperatori romani  cristianizzati che insegnarono la pompa e la sovranità alla gerarchia, e poi attendere il suo responso e ad esso fare liturgicamente festa liturgica. Così, come è stato osservato, condotti secondo quei principi i sinodi dal Terzo secolo al Concilio Vaticano 2° furono assai poco sinodali,  nel senso che oggi diamo a questa parola. E realmente la sinodalità  a cui oggi si far riferimento per discuterne nel Sinodo 2021-2013 [>2025 per la Chiesa italiana] è qualcosa di nuovo, di mai visto e sperimentato. Non c’è vera sinodalità senza possibilità di reale partecipazione, senza riconoscere dignità ai partecipanti al processo, senza vietare che possano essere esclusi a discrezione di un capo con un tratto di penna o due parole, senza una loro qualche effettiva compartecipazione nella decisione.

  Non è facile avere vere relazioni con il clero, a qualsiasi livello, perché, se non può dirigere, comincia a inquietarsi e a lanciare anatemi. Così, in genere, per quieto vivere si tralascia quello che sarebbe un nostro dovere religioso, quello di partecipare realmente. E questo, in particolare, dove, a dispetto di processi di apertura al vertice, nulla del genere sia organizzato nella base, nelle nostre realtà di prossimità. In quante parrocchie arriverà l’eco di un Sinodo che, come quello che si aprirà domani, vorrebbe addirittura fare della sinodalità un modo ordinario di vivere la fede?

  Un gruppo parrocchiale di Azione Cattolica come il nostro in questi frangenti ha ora  l’occasione di fare ciò per cui è stato istituito. La sinodalità  è uno sviluppo del Concilio Vaticano 2° e dagli anni Sessanta l’attuazione dei principio conciliari è uno dei principali campi di impegno della nostra associazione.