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Sinodo e sinodalità
Il Sinodo, nella Chiesa cattolica romana, è stato
storicamente, presentato in modo molto schematico:
-fino al Concilio di Trento (svoltosi nel Cinquecento):
un’assemblea di vescovi, preti, teologi, e nel Primo Millennio anche persone
laiche, in particolare sovrani o loro delegati, per decidere su definizioni
della fede, problemi organizzativi e questioni disciplinari; i sinodi
venivano convocati quando ve n’era la necessità;
-dopo il Concilio di Trento e fino al Concilio Vaticano 2°
(1962-1965): una riunione del vescovo con i preti suoi collaboratori per
diffondere direttive e per controllarne l’attuazione. In questa fase fu
prescritta la celebrazione periodica di questo tipo di sinodo.
-dopo il Concilio Vaticano 2°: un’assemblea di vescovi,
mondiale o regionale, o un’assemblea della diocesi intorno al vescovo per
confrontarsi su questioni relative alla pastorale,
vale a dire quell’attività dedicata alla formazione religiosa, ai sacramenti e
alla liturgia. Qualche volta gli eventi diocesani con questo carattere sono
state denominate anche assemblee
diocesane, convegni diocesani, congressi diocesani. In questa fase non è stata predeterminata la
frequenza dei sinodi, se ne sono tenuti molti ad iniziativa dei vescovi ed
alcuni sono durati addirittura anni. Dal
2018 il sinodo dei vescovi è stato profondamente riformato, prevendendo una
estesa fase preparatoria durante la quale si consultano gli altri fedeli, come si faceva nei sinodi
diocesani, e una collaborazione al magistero del Papa. E’ stato osservato che,
in questa fase, si è pensato ai sinodi come occasioni per ricreare il clima
molto coinvolgente che si era vissuto durante il Concilio Vaticano 2°.
Nei primo caso il
sinodo è un ufficio collegiale della Chiesa, un po’ come ce ne sono anche nelle
istituzioni pubbliche, nel secondo caso è manifestazione del ministero del
vescovo come capo della sua diocesi, nel terzo caso il sinodo diocesano è una
manifestazione della vita della diocesi, quindi della Chiesa locale, e, dal 2018, il sinodo dei vescovi della
Chiesa intera o presente in vaste regioni. Solo nel primo e nel terzo caso di può parlare veramente di sinodalità,
perché tutti i partecipanti hanno modo,
secondo i rispettivi ruoli, di cooperare alla decisione. In nessuno di quei tre
casi di agisce democraticamente perché manca una procedura per
coinvolgere anche il resto della popolazione in modo che non possa essere
ignorato. Ma nel terzo caso ci si avvicina maggiormente. In esso, infatti,
ci si fonda sul riconoscimento di un pari dignità dei fedeli che deriva loro
dal Battesimo. L’esperienza di sinodalità che si fa nel terzo caso è quella che si
vorrebbe estendere a tutte le persone di fede e alla vita ordinaria religiosa,
anche al di fuori del sinodo come evento. Rende presente, visibile, una
Chiesa sinodale, anche se chi partecipa e decide, almeno in linea di
principio, non rappresenta nessun altro e nessun’altra collettività in
forza di una scelta dal basso, come avviene nelle procedure elettorali
pubbliche, anche se è presente a seguito di una scelta dal basso. Questa la
significativa differenza rispetto ai parlamenti contemporanei, nei quali si rendono presenti,
attraverso esponenti eletti, forze collettive che co-decidono determinando la politica
nazionale.
Nel secondo caso e
nei sinodi diocesani le scelte le fa il vescovo, e i vescovi e il Papa nel caso
del sinodo dei vescovi, anche se è possibile che le direttive facciano menzione
che sono il frutto di un più vasto processo sinodale condiviso.
Quel riunirsi ha un valore specificamente religioso, a
prescindere da ciò che viene deliberato. Manifesta una comunione, parola
che traduce il greco neotestamentario antico koinonìa, e che è l’essere compagni
in un’azione comune, condividendo
decisioni, impegno, difficoltà e ogni altra cosa. Si lavora insieme, si fa conto gli uni sugli altri, ci si apprezza, ci si soccorre e sostiene.
Anche al cinema si
sta insieme in sala, ci si raduna, ma non ci si riunisce: ognuno fa per sé,
gente che va, gente che viene, non ci si conosce neppure. Si vivono più o meno
le stesse emozioni, ma non le si condividono. Se segue un cineforum,
nel corso del quale si discute sull’opera a cui si è assistito, allora, sì, si
comincia a fare un’esperienza di carattere sinodale. Ma è più che altro
questione di emozioni. Nella sinodalità propriamente detta sono
implicati aspetti soprannaturali che i teologi sono molto bravi a spiegare,
molto meno a praticare. In effetti, fino al Cinquecento, i sinodi e i concili -
dal punto di vista dello spirito con cui si riunisce non c’è differenza, c’è
solo, ai tempi nostri, dal punto di vista giuridico - sono stati travagliati
spesso da aspre controversie.
Anche in parrocchia,
le volte che non ci si limita ad ascoltare i preti, ma si prende la parola, non
di rado si litiga. Una delle ragioni per cui, in genere, ci si riunisce è quella di cercare di risolvere pacificamente controversie, ma
se non ci sono procedure predeterminate per mettere ordine, pur consentendo a
tutti di partecipare alla decisione, difficilmente ci si riesce, soprattutto
quando si fa questione di cose soprannaturali. Il riferimento soprannaturale
purtroppo non di rado radicalizza le posizioni.
La sinodalità che si vorrebbe indurre nelle nostre comunità
di fede non è legata specificamente a momenti decisionali, in cui si esaminano
le questioni, si propongono argomenti e poi si delibera, ma la si vorrebbe uno stare
insieme conoscendosi e cooperando amichevolmente, senza che nessuno si
senta coartato dagli altri a fare ciò che non vuole o non capisce. Questo, per
così dire, nella quotidianità. E’ chiaro che è qualcosa di molto distante da
quello che c’è ora.
Significa anche, ad
esempio, passare più tempo in parrocchia. Se una persona ci va solo per la
messa e poi se ne va, difficilmente riuscirà ad essere molto sinodale.
Se si vuole essere sinodali, nel
senso che siamo esortati a capire, bisogna cominciare a interrogarci sul modo in cui possiamo portare un nostro contributo
all’opera comune, concordare questo nostro impegno con le altre persone della
parrocchia, in primo luogo con i suoi
preti, e poi cominciare.
Avere a che fare con
gli altri, anche in un ambiente religioso, non è sempre un’esperienza facile.
Dicono i teologi che, se si comincia con lo spirito giusto, poi arriverà un
aiuto dal Cielo, ma, di fatto, i problemi rimangono, per ciò che ho potuto
constatare. Tuttavia, esercitandosi, è possibile trovare le vie giuste per
superarli. Occorre farne un tirocinio, come si fa nell’apprendistato o in un
noviziato.
Quando, anni fa, il
nuovo parroco ci guidò, durante una Quaresima, ad una esperienza sinodale
accostando persone di gruppi diversi della parrocchia, non andò tanto bene. Ognuno rimase sulle sue, tenendo
a ribadire le proprie posizioni, e la cosa non ebbe seguito. Non credo che sia cosa eccezionale nei nostri
ambienti. L’uso imprudente di un gergo para-teologico complica le cose e le
inasprisce.
Una volta che sia
conquistata una certa fiducia reciproca, si potrà poi cominciare a fare dei
progetti da sviluppare insieme, quindi anche a deliberarli insieme. Ma prima, come ho detto, c’è
semplicemente lo stare insieme non da estranei ma da amici. Del resto il
Maestro non disse proprio così, “vi ho chiamato amici”? Ci scelse perché
portassimo frutto e la
sinodalità è appunto uno di questi frutti.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma,
Monte Sacro, Valli