Autorità
e partecipazione
Una
Chiesa sinodale è una Chiesa partecipativa e corresponsabile. Come si
identificano gli obiettivi da perseguire, la strada per raggiungerli e i passi
da compiere? Come viene esercitata l’autorità all’interno della nostra Chiesa
particolare? Quali sono le pratiche di lavoro in équipe e di corresponsabilità?
Come si promuovono i ministeri laicali e l’assunzione di responsabilità da
parte dei Fedeli? Come funzionano gli organismi di sinodalità a livello della
Chiesa particolare? Sono una esperienza feconda?
Questa domanda, su autorità e
partecipazione, che troviamo tra quelle elencate nel Documento
preparatorio per il prossimo Sinodo,
riguarda l’aspetto centrale di
quest’ultimo, perché si tratta di un sinodo sulla sinodalità, quindi un
sinodo che riflette su se stesso.
Si apre con un enunciato sulla Chiesa e la
sinodalità: una Chiesa sinodale è una Chiesa partecipativa e
corresponsabile.
La prima definizione, veramente epocale, è
quella di Chiesa sinodale. In
passato solo il Sinodo dei vescovi venne ritenuto capace di sinodalità,
quindi di una vera collegialità sul da farsi.
Nonostante quello che si è scritto negli
ultimi anni in proposito, da quando la sinodalità ecclesiale è stato oggetto di interesse da parte della
gerarchia, una Chiesa veramente sinodale in tutte le sue componenti
(sinodalità totale) non c’è mai stata. C’è stata, invece, talvolta, appunto
in occasione dei sinodi dei vescovi, una
sinodalità dell’episcopato, vale a dire tra autocrati, i gerarchi (sono essi
stessi a definirsi tali). Nella misura in cui essi si riconobbero pari dignità
e rinunciarono a conflitti distruttivi, quindi decisero di prendere una
decisione di comune accordo, ecco, allora essi furono sinodali. La sinodalità,
dunque, cominciò a manifestarsi da quando, tra la fine del Primo secolo e
l’inizio del Secondo, emerse
l’autocrazia religiosa, con l’episcopato monarchico. Le assemblee che c’erano
prima erano altra cosa, ed anche, ad esempio, il concilio di Gerusalemme,
che si data all’anno 49 della nostra era. Il racconto che ne troviamo negli
Atti degli apostoli rende molto chiaro che non si trattò di qualcosa come i sinodi
e i concili del secolo successivo e che, in particolare,
l’autorità che in esso si manifestò era intesa in modo molto diverso da
come lo fu qualche decennio dopo. E questo anche se si tende a ricoprire di
significati che ebbero in epoca più tarda certe esperienze di autorità
religiosa delle origini, perché tra noi essere in linea con le tradizioni più
antiche rafforza l’autorevolezza delle decisioni. E’ per questa via che certe tradizioni
diventano poi la Tradizione, perché
si immagina che ciò che si è deciso di essere in un certo tempo risalga a tempi
antichi, molto vicini a quelli della vita da uomo tra noi del Maestro, e che
sia rimasto inalterato per lunghissimo tempo, godendo di un vasto consenso. Del resto l’esperienza di una Tradizione è molto comune nelle culture umane e, ad
esempio, molti dei principali istituti giuridici dell’Europa di oggi originano
a tantissimo tempo fa, all’evo antico. La nostra teologia sulla Chiesa ha
tuttavia una particolarità, quella di essere in gran parte di molto successiva
alle origini e di essere stata, addirittura nei suoi fondamenti, profondamente
inculturata dalle culture politiche che ad un certo punto l’adottarono come base
ideologica. Della storicità delle nostre Chiese, in quel senso, non si è
in genere consapevoli tra i fedeli, perché da un lato non la si insegna e
dall’altro si tenta in vario modo di negarla, anche contro l’evidenza, perché
si ritiene che il sacro sia eterno in quanto di origine soprannaturale,
mentre solo il secolo, cioè le società di cui siamo artefici, sia
soggetto a mutamenti. Tuttavia, già durante gli studi scolastici della scuola
secondaria di secondo grado essa emerge con chiarezza.
Merita di leggere quel brano degli Atti degli
apostoli al quale mi sono riferito, che
vi propongo nella versione TILC – Traduzione interconfessionale in lingua
corrente. Si tratta del passo degli Atti degli apostoli, capitolo 15, versetti
da 1 a 32 [At 15, 1-32].
In quel tempo, alcuni cristiani della Giudea
vennero nella città di Antiòchia, e si misero a diffondere tra gli altri
fratelli questo insegnamento: «Voi non potete essere salvati se non vi
fate circoncidere come ordina la legge di Mosè». Paolo
e Bàrnaba non erano d’accordo, e ci fu una violenta discussione tra loro.
Allora si decise che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri andassero a Gerusalemme
dagli apostoli e dai responsabili di quella comunità per presentare
tale questione.
La
comunità di Antiòchia diede a Paolo e a Bàrnaba tutto il necessario per questo
viaggio. Essi attraversarono le regioni della Fenicia e della Samaria,
raccontando che anche i pagani avevano accolto il Signore. Questa notizia
procurava una grande gioia a tutti i cristiani. Giunti a Gerusalemme,
furono ricevuti dalla comunità, dagli apostoli e dai responsabili di quella
chiesa. Ad essi riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo di
loro.
Però,
alcuni che erano del gruppo dei farisei, ed erano diventati cristiani, si
alzarono per dire: «È necessario circoncidere anche i credenti non ebrei e
ordinar loro di osservare la legge di Mosè».
Allora,
gli apostoli e i responsabili della comunità di Gerusalemme si riunirono per
esaminare questo problema. Dopo una lunga discussione si alzò Pietro e
disse: «Fratelli, come voi ben sapete, è da tanto tempo che Dio mi ha scelto
tra di voi e mi ha affidato il compito di annunziare anche ai pagani il
messaggio del *Vangelo, perché essi credano. Ebbene, Dio che conosce
il cuore degli uomini ha mostrato di accoglierli volentieri: infatti ha dato
anche a loro lo Spirito Santo, proprio come a noi. Egli non ha fatto
alcuna differenza fra noi e loro: essi hanno creduto e perciò Dio li ha
liberati dai loro peccati. Dunque, perché provocate Dio cercando di
imporre ai credenti un peso che, né i nostri padri né noi, siamo stati capaci
di sopportare? In realtà, sappiamo che noi siamo salvati per mezzo della
grazia del Signore Gesù, esattamente come loro».
Tutta
l’assemblea rimase in silenzio. Poi ascoltarono Paolo e Bàrnaba che
raccontavano i miracoli e i prodigi che Dio aveva fatto per mezzo loro tra i
pagani.
Quando
essi ebbero finito di parlare, Giacomo disse: «Fratelli,
ascoltatemi! Simone ci ha raccontato come fin da principio Dio si è
preso cura dei pagani, per accogliere anche loro nel suo popolo. Questo
concorda in pieno con le parole dei *profeti. Sta scritto infatti
nella Bibbia:
Dopo
questi avvenimenti io ritornerò;
ricostruirò
la casa di Davide che era caduta.
Riparerò
le sue rovine e la rialzerò.
Allora
gli altri uomini cercheranno il Signore,
anche
tutti i pagani che ho chiamati a essere miei.
Così
dice il Signore. Egli fa queste cose,
perché
le vuole da sempre.
Per
questo io penso che non si devono creare difficoltà per quei pagani che si
convertono a Dio. A loro si deve soltanto chiedere di non mangiare la
carne di animali che sono stati sacrificati agli idoli. Devono anche astenersi
dai disordini sessuali. Infine non dovranno mangiare il sangue e la carne
di animali morti per soffocamento. Queste norme, date da Mosè, fin
dai tempi antichi sono conosciute in ogni città. Infatti dappertutto ci sono
uomini che, ogni sabato, nelle sinagoghe leggono e predicano la legge di
Mosè».
Allora gli apostoli e i responsabili della Chiesa di Gerusalemme,
insieme a tutta l’assemblea, decisero di scegliere alcuni tra di loro e di
mandarli ad Antiòchia, insieme con Paolo e Bàrnaba. Furono scelti due:
Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, che erano tra i primi di quella
comunità. Ad essi fu consegnata questa lettera:
«Gli apostoli e i responsabili della comunità
di Gerusalemme salutano i fratelli cristiani di origine non ebraica che vivono
ad Antiòchia, in Siria e in Cilicia. Abbiamo saputo che alcuni della
nostra comunità sono venuti fra voi per turbarvi e creare confusione. Non siamo
stati noi a dare loro questo incarico. Perciò, abbiamo deciso, tutti
d’accordo, di scegliere alcuni uomini e di mandarli da voi. Essi accompagnano i
nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, i quali hanno rischiato la vita per il
nostro Signore Gesù Cristo. Noi quindi vi mandiamo Giuda e Sila: essi vi
riferiranno a voce le stesse cose che noi vi scriviamo. Abbiamo infatti
deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo
al di fuori di queste cose che sono necessarie: non mangiate la carne di
animali che sono stati sacrificati agli idoli; non mangiate sangue o carne di
animali morti per soffocamento. Infine astenetevi dai disordini sessuali;
tenetevi lontani da tutte queste cose e sarete sulla buona strada. Saluti!».
Gli
incaricati partirono e giunsero ad Antiòchia. Qui riunirono la comunità e
consegnarono la lettera. Quando l’ebbero letta, tutti furono pieni di
gioia, per l’incoraggiamento che avevano ricevuto. Anche Giuda e Sila
erano profeti: perciò parlarono a lungo ai fratelli nella fede, per
incoraggiarli e per sostenerli.
Vi invito a ragionarci sopra. Vi informo che,
secondo gli esegeti:
-
non
si deve pensare che gli apostoli di cui si parla nel brano fossero i
Dodici; di essi era sicuramente presente solo Pietro;
-
il
Giacomo di cui si parla non era uno dei due apostoli dei Dodici che
avevano quel nome, ma la persona detta Giacomo fratello del Signore, parente
di Gesù di Nazaret e personaggio eminente nella comunità dei suoi seguaci a
Gerusalemme, uno dei suoi responsabili.
La
decisione che fu presa in quella sede, se anche i credenti provenienti dalle nazioni,
vale a dire non dal giudaismo, dovessero seguire le prescrizioni rituali
giudaiche, fu adottata dagli apostoli, dai responsabili della Chiesa di
Gerusalemme, e da tutta l’assemblea, che quindi era composta
anche da altre persone. Paolo e Barnaba era stati mandati a quell’assemblea per dirimere quella delicata
questione che stava dividendo la comunità di Antiochia, città della Siria dove,
secondo Paolo, i seguaci di Gesù
iniziarono a dirsi e ad essere definiti come cristiani. Paolo,
l’apostolo, si mosse su mandato di
quella comunità, nella quale la sua visione non era riuscita a imporsi. Vedete
bene che risalta come si praticò un metodo di decisione molto diverso da quello
dalla Chiesa in cui oggi viviamo e su una questione prettamente teologica,
anche se all’epoca una teologia come disciplina di studio sistematico propria
di un ceto di dotti ancora non c’era. Non c’erano neanche i vescovi come noi li
intendiamo, vale a dire come capi monarchici e assoluti di una diocesi nominati
dal Papa.
Di
solito, quando si pensa a una riforma della Chiesa, si cercano agganci nelle
origini e quindi, da quando ci si è interrogati sulla sinodalità si è
cominciato quasi sempre da quel brano degli Atti degli apostoli. Il problema è
che, da quando si organizzò un clero, il potere ecclesiale passò progressivamente
nelle sue mani e, in particolare, in quelle dei vescovi propriamente detti, i
quali, ricordano gli storici, venivano nominati con molte diverse procedure, non
da un papa, le quali comunque comprendevano un riconoscimento degli
altri vescovi e questo, insegnano gli storici della Chiesa, fu senz’altro caratteristico
nelle nostre Chiese, fin da quando l’episcopato vi si affermò, quindi molto
presto. Quando poi la nostra religione
divenne un affare di stato, dall’inizio del Quarto secolo, tutto prese una
diversa piega perché entrò di mezzo la politica civile, non solo ecclesiale, e
allora nell’organizzazione del potere ecclesiale influirono moltissimo gli
imperatori romani del Primo
Millennio, che risiedettero però a Costantinopoli - Bisanzio, da Costantino 1° in poi [274-338]
e le delibere di sinodi e concili divennero leggi per lo stato. La grandiosa
riforma dello stato operata da Costantino 1° si accompagnò ad un‘altrettanto epocale riforma delle Chiese cristiane che piuttosto
rapidamente divennero “la” Chiesa. All’epoca della Riforma protestante,
dal Cinquecento, i mali della Chiesa vennero individuati proprio in quel
processo di statalizzazione e accentramento
e si pensò che la via giusta fosse
quella di tornare a ciò che c’era prima. La Riforma fu pensata da professori di
teologia prima di essere vissuta dal popolo e questo creò vari problemi,
diciamo così. Essa sicuramente puntò a dare di nuovo voce al popolo, ma
tornare a ciò che c’era prima non fu
veramente possibile e questa è una lezione importante che ci impartisce la
storia. Non è mai possibile rivivere la storia del passato, meno che mai
una che è così lontana da noi come quella delle origini dei cristianesimi. Se
vogliamo riorganizzare una società non dobbiamo cercare nel passato ma capire e
valutare come siamo diventati, e oggi
siamo molto, veramente molto, diversi da come furono i primi seguaci del
Nazareno e anche dalle prima comunità che si organizzarono propriamente come
Chiese. I costumi di queste ultime non erano poi sempre particolarmente virtuosi: in
particolare erano travagliate da continui ed aspri conflitti. Espressero poi un
violento antigiudaismo dal quale oggi non possiamo prendere sicuramente esempio
e che si spiega storicamente con il fatto che i cristianesimi si formarono per
separazione dall’antico giudaismo e non ne volevano essere riassorbiti. Si
spiega ma non può essere certo preso a
modello di vita cristiana oggi. Vi fu anche l’esigenza di creare una
nuova giustificazione mitologica del nuovo modo di vivere la fede che non lo
costringesse in un’etnia e in una certa terra. Proprio la narrazione del concilio
di Gerusalemme rende chiaro di che
si trattò. Da essa le nostre prime comunità di fede appaiono come attraversate
da polemiche e divisioni e il metodo assembleare una via per fare pace,
più che per imporre rigidamente
una certa dottrina. Si capì, allora, alla metà del Primo secolo, che con la
gente che non proveniva dal giudaismo bisognava adattare riti e prescrizioni di
purità, esercitare dunque quella che oggi diremmo una mediazione culturale.
Una
polemica in merito si è riaccesa nello
scorso settembre per una catechesi del Papa nella quale egli, insegnando sulla
base di un brano della Lettera ai Galati con un occhio alle nostre attuali divisioni,
in sostanza definiva inutili le
antiche prescrizioni rituali giudaiche, che l’ebraismo nostro contemporaneo
ancora osserva come legge di santità, ma ciò non per criticare gli ebrei
di oggi e anche il giudaismo del Primo secolo, quanto per rimproverare coloro
che, nelle nostre comunità, sono troppo legati a un certo formalismo religioso
e vorrebbero che nulla cambiasse e per questo
disapprovano il magistero dell’attuale Papa. Il problema è,
naturalmente, che il Papa è il Papa, un monarca assoluto in religione e nel suo
micro-stato romano, e che ciò che dice in religione è legge e, in certi
momenti, addirittura legge che non può essere messa in discussione, almeno fino
a che un altro suo pari grado infallibile la modifichi, questo perché
religiosamente si confida ardentemente che abbia colto nel segno (talvolta
anche contro l’evidenza). Ecco dunque che l’assolutismo religioso ci ha creato
un problema, e questo pur se il Papa, dicendo quello che ha detto, voleva
parlare solo da pastore e
rivolgersi a noi, suo gregge, non rinfocolare da autocrate quell’antica
diatriba. Egli con il suo magistero, il suo governo e anche in altro modo nei
fatti ha dimostrato di voler essere amico degli ebrei del suo tempo. Dalla fine
degli scorsi anni ’30 i cattolici si sono messi per quella via e il Concilio
Vaticano 2° ha deliberato importanti principi in merito. Oggi non ci riteniamo
più legati all’aspro e violento antigiudaismo dei Padri della Chiesa, lo
abbiamo ripudiato dopo averlo praticato per secoli e, in quello, non ci
sentiamo più loro figli. Esso storicamente è stato una delle radici
culturali della Shoà. Fu soprattutto merito di noi persone laiche se
esso, ad un certo punto, fu sentito come obsoleto, dannoso e quindi ripudiato,
anche dalla nostra gerarchia, che tuttavia faticò abbastanza ad emanciparsene.
Ecco un effetto positivo di un modo nei fatti partecipativo di manifestare la fede.
« Come viene esercitata l’autorità
all’interno della nostra Chiesa particolare? Quali sono le pratiche di lavoro
in équipe e di corresponsabilità? Come si promuovono i ministeri laicali e
l’assunzione di responsabilità da parte dei Fedeli?». E’ semplice
rispondere. Tutto il potere è del clero che lo esercita in modo autocratico e
non solo nelle questioni di fede, ma, ad esempio, nella decisione di dove
collocare la statua di un santo in una chiesa parrocchiale. Nel clero ci sono
gerarchi che accentrano molto e altri che si avvalgono maggiormente della
collaborazione di altri ministri ordinati. Quanto alle persone laiche, esse non
contano nulla, non hanno l’ultima parola su nulla, né individualmente né collegialmente,
cento o un milione sono lo stesso di
fronte ad un solo gerarca, sono al più ausiliarie che rimangono tali a discrezione del clero. A
mia madre, dopo anni di servizio catechistico nella nostra parrocchia e dopo un
completamento della sua formazione catechetica nella vicina università
salesiana, fu dato il benservito dal parroco in quattro e quattr’otto, senza
formalità e complimenti, in un triste ottobre di ripresa dell’anno
catechistico, e né mia madre né le altre mamme catechiste, che mia madre
aveva coinvolto nel servizio catechistico, osarono opporsi. Io all’epoca ero
piuttosto distratto, e solo molto più tardi ho capito quale dolore fosse stato
per lei. Allora trovai quella scelta di escluderla stupida, come anche quella
presa dal suo arcivescovo di emarginare duramente mio zio Achille a Bologna,
per le critiche che aveva espresso pubblicamente per certe idee dell’alto
prelato in materia di immigrazione, e
molte altre del genere. Stupide perché controproducenti: colpirono
persone che avrebbero potuto continuare a fare molto bene nella Chiesa. Fu loro
impedito d’autorità. Una decisione più partecipata, quindi più meditata,
avrebbe potuto essere diversa, meno stupida? Nella Roma di allora, forse; nella
Bologna di allora, certamente.
Posso dire che sicuramente, vista dalla nostra
parrocchia, la nostra Chiesa non è né partecipativa
né partecipata, ma solo frequentata.
La relazione principale è col prete di riferimento, quello da cui ci si va di
solito a confessare, se si è mantenuta questa pia abitudine, o quello al quale
fa capo il servizio in cui si è ausiliari. Del Consiglio pastorale
parrocchiale so che c’è e che
talora, in passato, parteciparvi, per il rappresentante dell’Azione Cattolica
parrocchiale è stata un’esperienza forte, ma non in senso proprio positivo.
Alle sue attività e decisioni non viene data pubblicità, per cui i fedeli non
sanno che fa e che decide. Per cui, non sapendo, si può pensare anche che non
sia al suo massimo, o peggio. Secondo le direttive del Cardinal vicario gli è
stata affiancata una equipe pastorale, sempre con funzioni consultive,
e, anche qui, delle sue attività non si sa nulla, al di fuori del suo ambito,
di chi è stato chiamato a parteciparvi. Le norme vigenti prevedono una
componente elettiva del Consiglio pastorale parrocchiale, ma, a mia
memoria, e sono in parrocchia da molto (alla mostra fotografica che si sta
organizzando manderò una foto del primo parroco, don Vincenzo, con tutti i suoi
chierichetti e c’ero anch’io fra loro), l’assemblea parrocchiale non si
è mai riunita per eleggerli. Quindi, essendo frequentato più che altro dai
rappresentanti dei vari gruppi organizzati della parrocchia, oltre che dal clero e dagli altri membri di
diritto, il Consiglio pastorale parrocchiale mi appare più che altro
come una sorta di assemblea condominiale, dove naturalmente si conta in base ai
millesimi rappresentati. Spero di
sbagliarmi. In definitiva, in parrocchia certamente la Chiesa non appare sinodale
nel senso oggi inteso dai nostri vescovi.
Ora, la sinodalità
evoca tanti aspetti suscettibili di
cambiamento nella nostra Chiesa, ma, secondo l’esortazione del Papa, penso che
il metodo giusto sia cominciare ad affrontare quelli più vicino a noi, in
basso, perché in alto stanno gli autocrati, che si illudono ancora di
bastare a se stessi nelle questioni di potere, forti della loro presuntuosetta
teologia e anche dell’ingente flusso di denaro pubblico che affluisce loro in
base all’accordo di revisione del Concordato Lateranenese del 1984, che li ha
resi economicamente indipendenti da noi, e più difficilmente e molto più lentamente
cambieranno. Poi noi di loro sappiamo poco e, sinceramente, ciò che si sa è
piuttosto demoralizzante.
In alto spesso sfugge l’importanza della base:
in una costruzione fisica, per legge di gravità, la stabilità di ciò che sta in
alto dipende da quello che c’è in basso. In basso ci siamo appunto noi, ad
esempio noi nella nostra parrocchia. Per tanti motivi sperimentare in basso è
più semplice: si tratta di provare a vivere la fede in maniera meno
difficoltosa e dolorosa. Non dobbiamo gestire stati, imperi immobiliari, banche
ecc., né impegnarci nella complicatissima e paradossale nostra dogmatica,
insomma tutto ciò in cui un alto gerarca religioso è incastrato, e più di tutti
chi fa il Papa. Si vede come va e si adattano le regole alle circostanze,
imparando da ciò che funziona bene. Non si tratta di riformulare dogmi o,
comunque, pasticciare da dilettanti con la nostra ingarbugliata e perigliosa
teologia. Il Concilio Vaticano 2° ha riformulato la dogmatica in modo da fare
spazio a una Chiesa sinodale, vale a dire partecipativa e realmente partecipata. Tanto basta e
avanza. Ma non ha dato le prescrizioni di dettaglio: sarebbe stato del
resto poco saggio, trattandosi di un’assemblea che riguardava la Chiesa
universale, con gerarchi venuti da tutto il mondo. Partecipare in Cina,
ad esempio, è diverso dal partecipare in
Italia, pio e si capisce perché. Non c’è una soluzione sinodale che possa
andare bene dovunque e in qualsiasi ambiente umano. Al dettaglio bisogna
pensare in sede locale, cercando di imparare dall’esperienza pratica, con una
certa duttilità quindi, senza irrigidirsi in schematismi.
Il primo passo dovrebbe essere proprio quello
di istituire sedi di partecipazione,
vale a dire assemblee nelle quali si possa realmente partecipare, discorrendo.
Ci si dovrà dividere in varie sezioni, perché, noi 1.000 circa praticanti abituali
non c’entriamo tutti in nessun ambiente parrocchiale e, anche stringendoci e
strizzandoci, in un numero così vasto non riusciremmo realmente a partecipare,
ma solo ad ascoltare o recitare
un copione, come ci accade nei grandi eventi organizzati ciclicamente dalla
gerarchia. Sarebbe bene dividersi per età, condizione e prospettive di vita
(una persona ventenne non impegnata con la prole non vede le cose nella stessa
maniera di un quarantenne sposato e con figli piccoli), ma anche interessi
partecipativi (i cosiddetti carismi). Però poi dovrebbe essere previsto
un certo rimescolamento in modo da aver modi di frequentarsi e conoscersi anche
oltre quelle partizioni. Una cosa complicata senza un Comitato direttivo, al modo di quelli che in varie diocesi, ad
esempio in quella di Milano alla quale sono rimasto molto legato dopo avervi
soggiornato per motivi sanitari, sono stati istituiti, con funzioni
esecutive, nei Consigli pastorali
parrocchiali e in quelli delle Comunità
pastorali.
Il
secondo passo è quello di stabilire materie e campi in cui negli istituti di
partecipazione di base possano essere realmente prese decisioni, fosse anche solo quella, come detto, di
stabilire dove vadano poste le statue dei santi in chiesa, qualcosa comunque in
cui non si sia solo come consulenti. L’importante è che in quei campi il clero, che finora
accentra tutte le decisioni, non possa prevalere. E questo anche solo
prevedendo che, posti due centri decisionali, ad esempio il Consiglio
pastorale parrocchiale e l’ufficio del parroco, nessuna decisione,
in quegli ambiti partecipativi, possa
essere esecutiva se non nell’accordo dei due. In sostanza, in caso di
disaccordo, ad esempio se il parroco volesse eliminare una cinquantina di posti
in chiesa per farvi posto ad una qualche costosa grande istallazione e l’organo
partecipativo non approvasse questa decisione, o se analoga decisione fosse
presa dall’organo partecipativo e non approvata dal parroco, si finirebbe così
per prevedere un potere di veto della parte dissenziente. Poi si vedrebbe come
va. All’esito di un periodo di esperienza se ne potrebbe poi discutere non solo
nell’organo partecipativo costituito dal Consiglio pastorale parrocchiale
ma anzitutto nell’assemblea parrocchiale, che, a questo punto, si
dovrebbe riunire in varie sessioni e sezioni, per dar modo a tutti i praticanti
di partecipare.
Se la Chiesa, come ora sostengono i vescovi,
deve essere partecipativa e corresponsabile, e in questo senso sinodale,
la partecipazione a quelle attività dovrebbe essere presentata come obbligatoria
e il non partecipare come cosa di cui accusarsi in confessione: “Padre, sono
stato poco sinodale nell’ultimo mese”. Così il sacerdote potrebbe impartire
per penitenza un periodo di sinodalità accentuata, perché il penitente si emendi di
quella sua poca sinodalità, ad esempio, per i giovani, partecipando anche alle assemblee dei pensionati e viceversa.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli