INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

ON THE WEBSITE www.bibbiaedu.it THE ITALIAN TRANSLATIONS OF THE BIBLE CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONAL IN CURRENT LANGUAGE AND THE BIBLICAL TEXTS IN ANCIENT GREEK AND ANCIENT JEWISH MAY BE CONSULTED. WITH A FUNCTIONALITY OF THE WEBSITE THE VARIOUS TEXTS MAY BE COMPARED.

lunedì 4 ottobre 2021

Autorità e partecipazione

 

    il logo del Sinodo



Autorità e partecipazione

 

Una Chiesa sinodale è una Chiesa partecipativa e corresponsabile. Come si identificano gli obiettivi da perseguire, la strada per raggiungerli e i passi da compiere? Come viene esercitata l’autorità all’interno della nostra Chiesa particolare? Quali sono le pratiche di lavoro in équipe e di corresponsabilità? Come si promuovono i ministeri laicali e l’assunzione di responsabilità da parte dei Fedeli? Come funzionano gli organismi di sinodalità a livello della Chiesa particolare? Sono una esperienza feconda?

 

 

 Questa domanda, su autorità e partecipazione, che troviamo tra quelle elencate nel Documento preparatorio  per il prossimo Sinodo,  riguarda l’aspetto centrale di quest’ultimo, perché si tratta di un sinodo sulla sinodalità, quindi un sinodo che riflette su se stesso.

  Si apre con un enunciato sulla Chiesa e la sinodalità: una Chiesa sinodale è una Chiesa partecipativa e corresponsabile.

  La prima definizione, veramente epocale, è quella di  Chiesa sinodale. In passato solo il Sinodo dei vescovi venne ritenuto capace di sinodalità, quindi di una vera collegialità  sul da farsi.

  Nonostante quello che si è scritto negli ultimi anni in proposito, da quando la sinodalità ecclesiale  è stato oggetto di interesse da parte della gerarchia, una Chiesa veramente sinodale in tutte le sue componenti (sinodalità totale) non c’è mai stata. C’è stata, invece, talvolta, appunto in occasione dei  sinodi dei vescovi, una sinodalità dell’episcopato, vale a dire tra autocrati, i gerarchi (sono essi stessi a definirsi tali). Nella misura in cui essi si riconobbero pari dignità e rinunciarono a conflitti distruttivi, quindi decisero di prendere una decisione di comune accordo, ecco, allora essi furono sinodali. La sinodalità, dunque, cominciò a manifestarsi da quando, tra la fine del Primo secolo e l’inizio del  Secondo, emerse l’autocrazia religiosa, con l’episcopato monarchico. Le assemblee che c’erano prima erano altra cosa, ed anche, ad esempio, il concilio di Gerusalemme, che si data all’anno 49 della nostra era. Il racconto che ne troviamo negli Atti degli apostoli rende molto chiaro che non si trattò di qualcosa come i sinodi  e i concili  del secolo successivo e che, in particolare, l’autorità che in esso si manifestò era intesa in modo molto diverso da come lo fu qualche decennio dopo. E questo anche se si tende a ricoprire di significati che ebbero in epoca più tarda certe esperienze di autorità religiosa delle origini, perché tra noi essere in linea con le tradizioni più antiche rafforza l’autorevolezza delle decisioni. E’ per questa via che certe tradizioni  diventano poi la Tradizione, perché si immagina che ciò che si è deciso di essere in un certo tempo risalga a tempi antichi, molto vicini a quelli della vita da uomo tra noi del Maestro, e che sia rimasto inalterato per lunghissimo tempo, godendo di un vasto consenso.  Del resto l’esperienza di una Tradizione  è molto comune nelle culture umane e, ad esempio, molti dei principali istituti giuridici dell’Europa di oggi originano a tantissimo tempo fa, all’evo antico. La nostra teologia sulla Chiesa ha tuttavia una particolarità, quella di essere in gran parte di molto successiva alle origini e di essere stata, addirittura nei suoi fondamenti, profondamente inculturata dalle culture politiche che ad un certo punto l’adottarono come base ideologica. Della storicità delle nostre Chiese, in quel senso, non si è in genere consapevoli tra i fedeli, perché da un lato non la si insegna e dall’altro si tenta in vario modo di negarla, anche contro l’evidenza, perché si ritiene che il sacro sia eterno in quanto di origine soprannaturale, mentre solo il secolo, cioè le società di cui siamo artefici, sia soggetto a mutamenti. Tuttavia, già durante gli studi scolastici della scuola secondaria di secondo grado essa emerge con chiarezza.

  Merita di leggere quel brano degli Atti degli apostoli  al quale mi sono riferito, che vi propongo nella versione TILC – Traduzione interconfessionale in lingua corrente. Si tratta del passo degli Atti degli apostoli, capitolo 15, versetti da 1 a 32 [At 15, 1-32].

 

In quel tempo, alcuni cristiani della Giudea vennero nella città di Antiòchia, e si misero a diffondere tra gli altri fratelli questo insegnamento: «Voi non potete essere salvati se non vi fate circoncidere come ordina la legge di Mosè». Paolo e Bàrnaba non erano d’accordo, e ci fu una violenta discussione tra loro. Allora si decise che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dai responsabili di quella comunità per presentare tale questione.

  La comunità di Antiòchia diede a Paolo e a Bàrnaba tutto il necessario per questo viaggio. Essi attraversarono le regioni della Fenicia e della Samaria, raccontando che anche i pagani avevano accolto il Signore. Questa notizia procurava una grande gioia a tutti i cristiani. Giunti a Gerusalemme, furono ricevuti dalla comunità, dagli apostoli e dai responsabili di quella chiesa. Ad essi riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo di loro.

  Però, alcuni che erano del gruppo dei farisei, ed erano diventati cristiani, si alzarono per dire: «È necessario circoncidere anche i credenti non ebrei e ordinar loro di osservare la legge di Mosè».

  Allora, gli apostoli e i responsabili della comunità di Gerusalemme si riunirono per esaminare questo problema. Dopo una lunga discussione si alzò Pietro e disse: «Fratelli, come voi ben sapete, è da tanto tempo che Dio mi ha scelto tra di voi e mi ha affidato il compito di annunziare anche ai pagani il messaggio del *Vangelo, perché essi credano.  Ebbene, Dio che conosce il cuore degli uomini ha mostrato di accoglierli volentieri: infatti ha dato anche a loro lo Spirito Santo, proprio come a noi. Egli non ha fatto alcuna differenza fra noi e loro: essi hanno creduto e perciò Dio li ha liberati dai loro peccati. Dunque, perché provocate Dio cercando di imporre ai credenti un peso che, né i nostri padri né noi, siamo stati capaci di sopportare? In realtà, sappiamo che noi siamo salvati per mezzo della grazia del Signore Gesù, esattamente come loro».

 Tutta l’assemblea rimase in silenzio. Poi ascoltarono Paolo e Bàrnaba che raccontavano i miracoli e i prodigi che Dio aveva fatto per mezzo loro tra i pagani.

  Quando essi ebbero finito di parlare, Giacomo disse: «Fratelli, ascoltatemi! Simone ci ha raccontato come fin da principio Dio si è preso cura dei pagani, per accogliere anche loro nel suo popolo. Questo concorda in pieno con le parole dei *profeti. Sta scritto infatti nella Bibbia:

Dopo questi avvenimenti io ritornerò;

ricostruirò la casa di Davide che era caduta.

Riparerò le sue rovine e la rialzerò.

Allora gli altri uomini cercheranno il Signore,

anche tutti i pagani che ho chiamati a essere miei.

Così dice il Signore. Egli fa queste cose,

perché le vuole da sempre.

 Per questo io penso che non si devono creare difficoltà per quei pagani che si convertono a Dio. A loro si deve soltanto chiedere di non mangiare la carne di animali che sono stati sacrificati agli idoli. Devono anche astenersi dai disordini sessuali. Infine non dovranno mangiare il sangue e la carne di animali morti per soffocamento. Queste norme, date da Mosè, fin dai tempi antichi sono conosciute in ogni città. Infatti dappertutto ci sono uomini che, ogni sabato, nelle sinagoghe leggono e predicano la legge di Mosè».

  Allora gli apostoli e i responsabili della Chiesa di Gerusalemme, insieme a tutta l’assemblea, decisero di scegliere alcuni tra di loro e di mandarli ad Antiòchia, insieme con Paolo e Bàrnaba. Furono scelti due: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, che erano tra i primi di quella comunità. Ad essi fu consegnata questa lettera:

«Gli apostoli e i responsabili della comunità di Gerusalemme salutano i fratelli cristiani di origine non ebraica che vivono ad Antiòchia, in Siria e in Cilicia. Abbiamo saputo che alcuni della nostra comunità sono venuti fra voi per turbarvi e creare confusione. Non siamo stati noi a dare loro questo incarico. Perciò, abbiamo deciso, tutti d’accordo, di scegliere alcuni uomini e di mandarli da voi. Essi accompagnano i nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, i quali hanno rischiato la vita per il nostro Signore Gesù Cristo. Noi quindi vi mandiamo Giuda e Sila: essi vi riferiranno a voce le stesse cose che noi vi scriviamo. Abbiamo infatti deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose che sono necessarie: non mangiate la carne di animali che sono stati sacrificati agli idoli; non mangiate sangue o carne di animali morti per soffocamento. Infine astenetevi dai disordini sessuali; tenetevi lontani da tutte queste cose e sarete sulla buona strada. Saluti!».

  Gli incaricati partirono e giunsero ad Antiòchia. Qui riunirono la comunità e consegnarono la lettera. Quando l’ebbero letta, tutti furono pieni di gioia, per l’incoraggiamento che avevano ricevuto. Anche Giuda e Sila erano profeti: perciò parlarono a lungo ai fratelli nella fede, per incoraggiarli e per sostenerli.

 

 Vi invito a ragionarci sopra. Vi informo che, secondo gli esegeti:

-      non si deve pensare che gli apostoli di cui si parla nel brano fossero i Dodici; di essi era sicuramente presente solo Pietro;

-      il Giacomo di cui si parla non era uno dei due apostoli dei Dodici che avevano quel nome, ma la persona detta Giacomo fratello del Signore, parente di Gesù di Nazaret e personaggio eminente nella comunità dei suoi seguaci a Gerusalemme, uno dei suoi responsabili.

 La decisione che fu presa in quella sede, se anche i credenti provenienti dalle nazioni, vale a dire non dal giudaismo, dovessero seguire le prescrizioni rituali giudaiche, fu adottata dagli apostoli, dai responsabili della Chiesa di Gerusalemme, e da tutta l’assemblea, che quindi era composta anche da altre persone. Paolo e Barnaba era stati mandati  a quell’assemblea per dirimere quella delicata questione che stava dividendo la comunità di Antiochia, città della Siria dove, secondo Paolo,  i seguaci di Gesù iniziarono a dirsi e ad essere definiti come cristiani. Paolo, l’apostolo, si mosse su mandato  di quella comunità, nella quale la sua visione non era riuscita a imporsi. Vedete bene che risalta come si praticò un metodo di decisione molto diverso da quello dalla Chiesa in cui oggi viviamo e su una questione prettamente teologica, anche se all’epoca una teologia come disciplina di studio sistematico propria di un ceto di dotti ancora non c’era. Non c’erano neanche i vescovi come noi li intendiamo, vale a dire come capi monarchici e assoluti di una diocesi nominati dal Papa.

  Di solito, quando si pensa a una riforma della Chiesa, si cercano agganci nelle origini e quindi, da quando ci si è interrogati sulla sinodalità si è cominciato quasi sempre da quel brano degli Atti degli apostoli. Il problema è che, da quando si organizzò un clero, il potere ecclesiale passò progressivamente nelle sue mani e, in particolare, in quelle dei vescovi propriamente detti, i quali, ricordano gli storici, venivano nominati con molte diverse procedure, non da un papa, le quali comunque comprendevano un riconoscimento degli altri vescovi e questo, insegnano gli storici della Chiesa, fu senz’altro caratteristico nelle nostre Chiese, fin da quando l’episcopato vi si affermò, quindi molto presto.  Quando poi la nostra religione divenne un affare di stato, dall’inizio del Quarto secolo, tutto prese una diversa piega perché entrò di mezzo la politica civile, non solo ecclesiale, e allora nell’organizzazione del potere ecclesiale influirono moltissimo gli imperatori romani  del Primo Millennio, che risiedettero però a Costantinopoli  - Bisanzio, da Costantino 1° in poi [274-338] e le delibere di sinodi e concili divennero leggi per lo stato. La grandiosa riforma dello stato operata da Costantino 1° si accompagnò ad un‘altrettanto  epocale riforma delle Chiese cristiane che piuttosto rapidamente divennero “la” Chiesa. All’epoca della Riforma protestante, dal Cinquecento, i mali della Chiesa vennero individuati proprio in quel processo di statalizzazione  e accentramento  e si pensò che la via giusta fosse quella di tornare a ciò che c’era prima. La Riforma fu pensata da professori di teologia prima di essere vissuta dal popolo e questo creò vari problemi, diciamo così. Essa sicuramente puntò a dare di nuovo voce al popolo, ma tornare  a ciò che c’era prima non fu veramente possibile e questa è una lezione importante che ci impartisce la storia. Non è mai possibile rivivere la storia del passato, meno che mai una che è così lontana da noi come quella delle origini dei cristianesimi. Se vogliamo riorganizzare una società non dobbiamo cercare nel passato ma capire e valutare  come siamo diventati, e oggi siamo molto, veramente molto, diversi da come furono i primi seguaci del Nazareno e anche dalle prima comunità che si organizzarono propriamente come Chiese. I costumi di queste ultime non  erano poi sempre particolarmente virtuosi: in particolare erano travagliate da continui ed aspri conflitti. Espressero poi un violento antigiudaismo dal quale oggi non possiamo prendere sicuramente esempio e che si spiega storicamente con il fatto che i cristianesimi si formarono per separazione dall’antico giudaismo e non ne volevano essere riassorbiti. Si spiega ma non può essere certo preso a  modello di vita cristiana oggi. Vi fu anche l’esigenza di creare una nuova giustificazione mitologica del nuovo modo di vivere la fede che non lo costringesse in un’etnia e in una certa terra. Proprio la narrazione del concilio di Gerusalemme  rende chiaro di che si trattò. Da essa le nostre prime comunità di fede appaiono come attraversate da polemiche e divisioni e il metodo assembleare una via per fare pace, più che per imporre  rigidamente una certa dottrina. Si capì, allora, alla metà del Primo secolo, che con la gente che non proveniva dal giudaismo bisognava adattare riti e prescrizioni di purità, esercitare dunque quella che oggi diremmo una mediazione culturale.

  Una polemica in  merito si è riaccesa nello scorso settembre per una catechesi del Papa nella quale egli, insegnando sulla base di un brano della Lettera ai Galati  con un occhio alle nostre attuali divisioni, in sostanza definiva inutili  le antiche prescrizioni rituali giudaiche, che l’ebraismo nostro contemporaneo ancora osserva come legge di santità, ma ciò non per criticare gli ebrei di oggi e anche il giudaismo del Primo secolo, quanto per rimproverare coloro che, nelle nostre comunità, sono troppo legati a un certo formalismo religioso e vorrebbero che nulla cambiasse e per questo  disapprovano il magistero dell’attuale Papa. Il problema è, naturalmente, che il Papa è il Papa, un monarca assoluto in religione e nel suo micro-stato romano, e che ciò che dice in religione è legge e, in certi momenti, addirittura legge che non può essere messa in discussione, almeno fino a che un altro suo pari grado infallibile la modifichi, questo perché religiosamente si confida ardentemente che abbia colto nel segno (talvolta anche contro l’evidenza). Ecco dunque che l’assolutismo religioso ci ha creato un problema, e questo pur se il Papa, dicendo quello che ha detto, voleva parlare solo da pastore  e rivolgersi a noi, suo gregge, non rinfocolare da autocrate quell’antica diatriba. Egli con il suo magistero, il suo governo e anche in altro modo nei fatti ha dimostrato di voler essere amico degli ebrei del suo tempo. Dalla fine degli scorsi anni ’30 i cattolici si sono messi per quella via e il Concilio Vaticano 2° ha deliberato importanti principi in merito. Oggi non ci riteniamo più legati all’aspro e violento antigiudaismo dei Padri della Chiesa, lo abbiamo ripudiato dopo averlo praticato per secoli e, in quello, non ci sentiamo più loro figli. Esso storicamente è stato una delle radici culturali della Shoà. Fu soprattutto merito di noi persone laiche se esso, ad un certo punto, fu sentito come obsoleto, dannoso e quindi ripudiato, anche dalla nostra gerarchia, che tuttavia faticò abbastanza ad emanciparsene. Ecco un effetto positivo di un modo nei fatti partecipativo  di manifestare la fede.

  « Come viene esercitata l’autorità all’interno della nostra Chiesa particolare? Quali sono le pratiche di lavoro in équipe e di corresponsabilità? Come si promuovono i ministeri laicali e l’assunzione di responsabilità da parte dei Fedeli?». E’ semplice rispondere. Tutto il potere è del clero che lo esercita in modo autocratico e non solo nelle questioni di fede, ma, ad esempio, nella decisione di dove collocare la statua di un santo in una chiesa parrocchiale. Nel clero ci sono gerarchi che accentrano molto e altri che si avvalgono maggiormente della collaborazione di altri ministri ordinati. Quanto alle persone laiche, esse non contano nulla, non hanno l’ultima parola su nulla, né individualmente né collegialmente, cento  o un milione sono lo stesso di fronte ad un solo gerarca, sono al più ausiliarie  che rimangono tali a discrezione del clero. A mia madre, dopo anni di servizio catechistico nella nostra parrocchia e dopo un completamento della sua formazione catechetica nella vicina università salesiana, fu dato il benservito dal parroco in quattro e quattr’otto, senza formalità e complimenti, in un triste ottobre di ripresa dell’anno catechistico, e né mia madre né le altre mamme catechiste, che mia madre aveva coinvolto nel servizio catechistico, osarono opporsi. Io all’epoca ero piuttosto distratto, e solo molto più tardi ho capito quale dolore fosse stato per lei. Allora trovai quella scelta di escluderla stupida, come anche quella presa dal suo arcivescovo di emarginare duramente mio zio Achille a Bologna, per le critiche che aveva espresso pubblicamente per certe idee dell’alto prelato in materia di immigrazione,  e molte altre del genere. Stupide perché controproducenti: colpirono persone che avrebbero potuto continuare a fare molto bene nella Chiesa. Fu loro impedito d’autorità. Una decisione più partecipata, quindi più meditata, avrebbe potuto essere diversa, meno stupida? Nella Roma di allora, forse; nella Bologna di allora, certamente.

 Posso dire che sicuramente, vista dalla nostra parrocchia,  la nostra Chiesa non è né partecipativa  partecipata, ma solo frequentata. La relazione principale è col prete di riferimento, quello da cui ci si va di solito a confessare, se si è mantenuta questa pia abitudine, o quello al quale fa capo il servizio in cui si è ausiliari. Del Consiglio pastorale parrocchiale  so che c’è e che talora, in passato, parteciparvi, per il rappresentante dell’Azione Cattolica parrocchiale è stata un’esperienza forte, ma non in senso proprio positivo. Alle sue attività e decisioni non viene data pubblicità, per cui i fedeli non sanno che fa e che decide. Per cui, non sapendo, si può pensare anche che non sia al suo massimo, o peggio. Secondo le direttive del Cardinal vicario gli è stata affiancata una equipe pastorale, sempre con funzioni consultive, e, anche qui, delle sue attività non si sa nulla, al di fuori del suo ambito, di chi è stato chiamato a parteciparvi. Le norme vigenti prevedono una componente elettiva del Consiglio pastorale parrocchiale, ma, a mia memoria, e sono in parrocchia da molto (alla mostra fotografica che si sta organizzando manderò una foto del primo parroco, don Vincenzo, con tutti i suoi chierichetti e c’ero anch’io fra loro), l’assemblea parrocchiale non si è mai riunita per eleggerli. Quindi, essendo frequentato più che altro dai rappresentanti dei vari gruppi organizzati della parrocchia,  oltre che dal clero e dagli altri membri di diritto, il Consiglio pastorale parrocchiale mi appare più che altro come una sorta di assemblea condominiale, dove naturalmente si conta in base ai millesimi  rappresentati. Spero di sbagliarmi. In definitiva, in parrocchia certamente la Chiesa non appare sinodale nel senso oggi inteso dai nostri vescovi.

  Ora, la sinodalità  evoca tanti aspetti suscettibili di cambiamento nella nostra Chiesa, ma, secondo l’esortazione del Papa, penso che il metodo giusto sia cominciare ad affrontare quelli più vicino a noi, in basso, perché in alto stanno gli autocrati, che si illudono ancora di bastare a se stessi nelle questioni di potere, forti della loro presuntuosetta teologia e anche dell’ingente flusso di denaro pubblico che affluisce loro in base all’accordo di revisione del Concordato Lateranenese del 1984, che li ha resi economicamente indipendenti da noi,  e più difficilmente e molto più lentamente cambieranno. Poi noi di loro sappiamo poco e, sinceramente, ciò che si sa è piuttosto demoralizzante.

  In alto  spesso sfugge l’importanza della base: in una costruzione fisica, per legge di gravità, la stabilità di ciò che sta in alto dipende da quello che c’è in basso. In basso ci siamo appunto noi, ad esempio noi nella nostra parrocchia. Per tanti motivi sperimentare in basso è più semplice: si tratta di provare a vivere la fede in maniera meno difficoltosa e dolorosa. Non dobbiamo gestire stati, imperi immobiliari, banche ecc., né impegnarci nella complicatissima e paradossale nostra dogmatica, insomma tutto ciò in cui un alto gerarca religioso è incastrato, e più di tutti chi fa il Papa. Si vede come va e si adattano le regole alle circostanze, imparando da ciò che funziona bene. Non si tratta di riformulare dogmi o, comunque, pasticciare da dilettanti con la nostra ingarbugliata e perigliosa teologia. Il Concilio Vaticano 2° ha riformulato la dogmatica in modo da fare spazio a una Chiesa sinodale, vale a dire partecipativa  e realmente partecipata. Tanto basta e avanza. Ma non ha dato le prescrizioni di dettaglio: sarebbe stato del resto poco saggio, trattandosi di un’assemblea che riguardava la Chiesa universale, con gerarchi venuti da tutto il mondo. Partecipare in Cina, ad esempio,  è diverso dal partecipare in Italia, pio e si capisce perché. Non c’è una soluzione sinodale che possa andare bene dovunque e in qualsiasi ambiente umano. Al dettaglio bisogna pensare in sede locale, cercando di imparare dall’esperienza pratica, con una certa duttilità quindi, senza irrigidirsi in schematismi.

  Il primo passo dovrebbe essere proprio quello di  istituire sedi di partecipazione, vale a dire assemblee nelle quali si possa realmente partecipare, discorrendo. Ci si dovrà dividere in varie sezioni, perché, noi 1.000 circa praticanti abituali non c’entriamo tutti in nessun ambiente parrocchiale e, anche stringendoci e strizzandoci, in un numero così vasto non riusciremmo realmente a partecipare, ma solo ad ascoltare  o recitare un copione, come ci accade nei grandi eventi organizzati ciclicamente dalla gerarchia. Sarebbe bene dividersi per età, condizione e prospettive di vita (una persona ventenne non impegnata con la prole non vede le cose nella stessa maniera di un quarantenne sposato e con figli piccoli), ma anche interessi partecipativi (i cosiddetti carismi). Però poi dovrebbe essere previsto un certo rimescolamento in modo da aver modi di frequentarsi e conoscersi anche oltre quelle partizioni. Una cosa complicata senza un Comitato direttivo,  al modo di quelli che in varie diocesi, ad esempio in quella di Milano alla quale sono rimasto molto legato dopo avervi soggiornato per motivi sanitari, sono stati istituiti, con funzioni esecutive,  nei Consigli pastorali parrocchiali  e in quelli delle Comunità pastorali.

  Il secondo passo è quello di stabilire materie e campi in cui negli istituti di partecipazione di base possano essere realmente prese decisioni,  fosse anche solo quella, come detto, di stabilire dove vadano poste le statue dei santi in chiesa, qualcosa comunque in cui non si sia solo come consulenti. L’importante  è che in quei campi il clero, che finora accentra tutte le decisioni, non possa prevalere. E questo anche solo prevedendo che, posti due centri decisionali, ad esempio il Consiglio pastorale parrocchiale e l’ufficio del parroco, nessuna decisione, in quegli ambiti partecipativi,  possa essere esecutiva se non nell’accordo dei due. In sostanza, in caso di disaccordo, ad esempio se il parroco volesse eliminare una cinquantina di posti in chiesa per farvi posto ad una qualche costosa grande istallazione e l’organo partecipativo non approvasse questa decisione, o se analoga decisione fosse presa dall’organo partecipativo e non approvata dal parroco, si finirebbe così per prevedere un potere di veto  della parte dissenziente. Poi si vedrebbe come va. All’esito di un periodo di esperienza se ne potrebbe poi discutere non solo nell’organo partecipativo costituito dal Consiglio pastorale parrocchiale ma anzitutto nell’assemblea parrocchiale, che, a questo punto, si dovrebbe riunire in varie sessioni e sezioni, per dar modo a tutti i praticanti  di partecipare.

  Se la Chiesa, come ora sostengono i vescovi, deve essere partecipativa  e  corresponsabile, e in questo senso sinodale, la partecipazione a quelle attività dovrebbe essere presentata come obbligatoria e il non partecipare come cosa di cui accusarsi in confessione: “Padre, sono stato poco sinodale nell’ultimo mese”. Così il sacerdote potrebbe impartire per penitenza un periodo di sinodalità  accentuata, perché il penitente si emendi di quella sua poca sinodalità, ad esempio, per i giovani, partecipando anche  alle assemblee dei pensionati e viceversa.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli