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Far nuove tutte le cose
1. Allora
io vidi un nuovo cielo e una nuova terra, — il primo cielo e la prima terra
erano spariti, e il mare non c’era più, — e vidi venire dal cielo, da
parte di Dio, la santa città, la nuova Gerusalemme, ornata come una sposa
pronta per andare incontro allo sposo. Una voce forte che veniva dal trono
esclamò: «Ecco l’abitazione di Dio fra gli uomini; essi saranno suo popolo ed
egli sarà Dio con loro. Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. La
morte non ci sarà più. Non ci sarà più né lutto né pianto né dolore. Il mondo
di prima è scomparso per sempre».
Allora Dio dal suo trono disse: «Ora faccio
nuova ogni cosa». Poi mi disse: «Scrivi, perché ciò che dico è vero e degno di
essere creduto». E aggiunse: «È fatto. Io sono l’inizio e la Fine, il
Primo e l’Ultimo. A chi ha sete io darò gratuitamente l’acqua della vita.
[dal libro dell’Apocalisse, capitolo 21,
versetti da 1 a 6 – Ap 21, 1-6 – versione TILC – Traduzione interconfessionale
in lingua corrente]
Negli
anni ’70, ai tempi entusiasmanti delle trasformazioni che si vivevano dopo il
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), ricevetti in famiglia la formazione religiosa
di livello avanzato, quella per intenderci che ora segue a quella per la Cresima,
quindi al catechismo propriamente detto, e che prepara alla vita in
società nello spirito della fede. Utilizzarono anche quel brano dell’Apocalisse
– Ap 21,1-6 – che ho sopra riportato. Non bisogna temere il rinnovamento, mi fu
spiegato, perché tutto è
destinato ad essere fatto nuovo.
Questo del rinnovamento
è un tema difficile tra noi
cattolici. Si teme infatti di perdere qualcosa di essenziale, in questo
rinnovarsi. E c’è l’idea, che si affermò fondamentalmente nel clero quando si
strutturò e cercò di mettere ordine alle tante concezioni del soprannaturale che
giravano nelle comunità cristiane, che ci sia un deposito di fede, vale
a dire un insieme di definizioni da tramandare integre di generazione in
generazione e che servono anche a
discriminare chi è in comunione e
chi non lo è e quindi deve essere allontanato.
Il papa Giovanni
Paolo 2° ne spiegò il senso in un discorso tenuto nel 1985, anno cruciale nell’attuazione
dei principi del Concilio Vaticano 2°, con queste parole
1. Dove
possiamo trovare ciò che Dio ha rivelato per aderirvi con la nostra fede
convinta e libera? Vi è un “sacro deposito”, al quale la Chiesa attinge
comunicandocene i contenuti. Come dice il Concilio Vaticano II: “Questa sacra
tradizione dunque e la Scrittura Sacra dell’uno e dell’altro Testamento sono
come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal
quale tutto riceve, finché giunga a vederlo a faccia a faccia, com’egli è
(cf. 1 Gv 3, 2)” (dalla Costituzione La
parola di Dio, n.7, del Concilio Vaticano 2°).
Con queste parole la costituzione conciliare sintetizza il problema
della trasmissione della divina rivelazione, importante per la fede d’ogni cristiano.
Il nostro “credo”, che deve preparare l’uomo sulla terra a vedere Dio a faccia
a faccia nell’eternità, dipende, in ogni tappa della storia, dalla
fedele e inviolabile trasmissione ai questa autorivelazione di Dio, che in Gesù
Cristo ha raggiunto il suo apice e la sua pienezza.
2. Cristo stesso “ordinò agli
apostoli di predicare a tutti, comunicando loro i doni divini, come la fonte di
ogni verità salutare e di ogni regola morale” (Ivi). Essi seguirono la
missione loro affidata prima di tutto nella predicazione orale, e
al tempo stesso alcuni di loro “sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, misero
per iscritto l’annuncio della salvezza” (dalla Costituzione La
parola di Dio, n.7, del Concilio Vaticano 2°). Il che fecero anche alcuni
della cerchia degli apostoli (Marco, Luca).
Così si formò la trasmissione della divina rivelazione nella prima
generazione dei cristiani. “Gli apostoli poi, affinché il Vangelo si
conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro
successori i vescovi, ad essi «affidando il proprio posto di magistero»”
(secondo l’espressione di Sant’Ireneo) (cf. S. Ireneo, Contro gli
eretici Adversus haereses, III, 3, 1; (dalla Costituzione La parola
di Dio, n.7, del Concilio Vaticano 2°).
3. Come si vede, secondo il Concilio, nella
trasmissione della divina rivelazione nella Chiesa si sostengono reciprocamente
e si completano la tradizione e la Sacra Scrittura, con le quali le
nuove generazioni dei discepoli e dei testimoni di Gesù Cristo alimentano la
loro fede, perché “ciò che fu trasmesso dagli apostoli . . . comprende tutto
quanto contribuisce alla condotta santa e all’incremento della fede del popolo
di Dio” (Dei Verbum, 8).
Questa tradizione che trae origine dagli
apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito
Santo: infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole
trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei
credenti, i quali le meditano in cuor loro (cf. Lc 2, 19. 51),
sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose
spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione
episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità. La Chiesa, cioè, nel
corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità
divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio” ((dalla
Costituzione La parola di Dio, n.8, del Concilio Vaticano 2°).
Ma in questa tensione verso la pienezza della verità divina la Chiesa
attinge costantemente all’unico “deposito” originario, costituito dalla
tradizione apostolica e dalla Sacra Scrittura, le quali “poiché ambedue
scaturiscono dalla stessa divina sorgente, formano in certo qual senso una cosa
sola e tendono allo stesso fine” (Ivi, 9).
4. A questo proposito conviene
precisare e sottolineare, sempre col Concilio, che “…la Chiesa attinge la sua
certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura”
(dalla Costituzione La parola di Dio, n.9, del Concilio Vaticano 2°).
Questa Scrittura “è parola di Dio in quanto essa è messa per iscritto sotto
l’ispirazione dello Spirito divino”. Ma “la parola di Dio, affidata da Cristo
Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, viene trasmessa integralmente
dalla sacra tradizione ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo
Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la
espongano e la diffondano” (Ivi). “La stessa tradizione fa conoscere
alla Chiesa il canone integrale dei libri sacri, e in essa fa più profondamente
comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre lettere” ((dalla
Costituzione La parola di Dio, n.8, del Concilio Vaticano 2°).
“La sacra tradizione e la Sacra
Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio
affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai
suoi pastori, persevera costantemente nell’insegnamento degli apostoli . . .” (dalla
Costituzione La parola di Dio, n.10, del Concilio Vaticano 2°). Perciò
ambedue, la tradizione e la Sacra Scrittura, devono essere circondate dalla
stessa venerazione e dello stesso rispetto religioso.
Messa così la questione, si pose il problema
di chi dovesse decidere quali definizioni fossero ortodosse, vale
a dire normative per stabilire chi
è dentro e chi fuori o, anche, in comunione.
Ha continuato quel Papa nel
medesimo discorso:
5. Qui
nasce il problema dell’interpretazione autentica della parola di Dio,
scritta o trasmessa dalla tradizione. Questo compito è stato affidato “al
solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di
Gesù Cristo” (dalla Costituzione La parola di Dio, n.10, del Concilio Vaticano
2°). Questo magistero “non è al di sopra della parola di Dio, ma la serve,
insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e
con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la ascolta, santamente
la custodisce e fedelmente la espone, e da questo unico deposito della fede
attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio” (dalla Costituzione
La parola di Dio, n.10, del Concilio Vaticano 2°).
6. Ecco dunque una nuova
caratteristica della fede: credere in modo cristiano significa
anche: accettare la verità rivelata da Dio, così come
la insegna la Chiesa. Ma nello stesso tempo il Concilio Vaticano II ricorda
che “la totalità dei fedeli . . . non può sbagliarsi nel credere, e
manifesta questa proprietà che gli è particolare mediante il senso
soprannaturale della fede in tutto il popolo, quando dai vescovi fino agli
ultimi fedeli laici esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di
costumi. Infatti, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo
Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero . . .
aderisce indefettibilmente “alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi” (Gd 1,
3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica
nella vita” (dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti, 12,
del Concilio Vaticano 2°).
7. La tradizione, la Sacra
Scrittura, il magistero della Chiesa e il senso soprannaturale della fede
dell’intero popolo di Dio formano quel processo vivificante, nel quale
la divina rivelazione viene trasmessa alle nuove generazioni. “Così
Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con
la Sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del
quale la viva voce del Vangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel
mondo, introduce i credenti in tutta intera la verità e fa
risiedere in essi abbondantemente la parola di Cristo (cf. Col 3,
16)” (dalla Costituzione La parola di Dio, n.8, del Concilio Vaticano 2°).Credere
in modo cristiano significa accettare di essere introdotti e condotti dallo
Spirito alla pienezza della verità in modo consapevole e volontario.
In questo modo la legittimazione del potere
ecclesiastico che si venne accentrando nell’episcopato e, dal Secondo Millennio,
per i cattolici, nel Papato romano, fu fondata non solo sul pascere, ma
anche sul definire e sull’allontanare coloro che non accettavano le definizioni
normative e quindi non erano in comunione
con la gerarchia.
La base scritturistica di questo ordine di idee la si indica in questo
brano del Vangelo secondo Matteo:
Gli
undici discepoli andarono in Galilea, su quella collina che Gesù
aveva indicato. Quando lo videro, lo adorarono. Alcuni, però, avevano dei
dubbi.
Gesù si
avvicinò e disse: «A me è stato dato ogni potere in cielo e in
terra. Perciò andate, fate che tutti diventino miei discepoli;
battezzateli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo; insegnate loro a ubbidire a tutto ciò che io vi ho comandato. E
sappiate che io sarò sempre con voi, tutti i giorni, sino alla fine del mondo».
[Dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 28, versetti da 16 a 20 - Mt 28,16-20]
2. Con lo sviluppo della
teologia come disciplina universitaria, dal Dodicesimo secolo, le questioni
relative alle definizioni della
fede divennero molto complicate, tanto da sfuggire alla capacità di
comprensione della gran parte dei fedeli. Ciò che non poteva essere capito,
doveva comunque essere obbedito. La religione cristiana, in Europa, era stata
integrata nelle ideologie politiche di governo
e sacralizzava il potere
delle dinastie sovrane. L’ortodossia, nel senso che ho sopra indicato,
divenne quindi questione politica e vi si fecero rientrare temi che ai tempi
nostri non ne fanno più parte, ad esempio la cosmologia. Nel Secondo millennio
il Papato pretese di esercitare una supremazia propriamente politica, che
presidiò con un efferato sistema di polizia ideologica, il quale durò fino all’Ottocento,
venendo demolito dai processi democratici europei che si produssero dal secolo
precedente. Mettere in questione quella pretesa venne considerata eresia e passibile di un procedimento giudiziario che
poteva comportare gravi pene e anche la morte, che gli stati sacralizzati secondo
la religione papale si incaricavano di eseguire, e nel regno del Papa in centro
Italia venivano eseguite dalle stesse istituzioni del Papato. In merito ricordo
spesso che il primo Re d’italia, Vittorio Emanuele 2°, e il Presidente del Consiglio
dei ministri che fu uno dei principali artefici dell’unità nazionale, Camillo
Benso Cavour, entrambi devoti cristiani, in un Regno che riconobbe quella cattolica
romana come unica religione
dello Stato, furono entrambi scomunicati dal papa Pio 9° per aver soppresso
lo Stato Pontificio, il piccolo regno territoriale con capitale Roma che il
Papa aveva in centro Italia, quindi per una questione prettamente politica.
Nel testo del papa Giovanni Paolo 2° che ho sopra
trascritto si fa però riferimento al paragrafo 7 al «il senso
soprannaturale della fede dell’intero popolo di Dio», detto con il latino del gergo ecclesiastico il «sensus
fidei».
Questa espressione, di
significato teologico fondamentale, è
alla base del rinnovamento attuato con il Concilio Vaticano 2° e anche dell’attuale
processo sinodale, che ne segna una ripresa. Venne spiegata da papa
Francesco nel documento che venne considerato il programma del suo ministero, l’esortazione apostolica La
Gioia del Vangelo:
Tutti siamo discepoli missionari
119. In tutti i battezzati, dal
primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad
evangelizzare. Il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo
rende infallibile “in credendo”. Questo significa che quando crede
non si sbaglia, anche se non trova parole per esprimere la sua fede. Lo Spirito
lo guida nella verità e lo conduce alla salvezza.[dalla
Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti, n.12, del Concilio Vaticano 2°] Come
parte del suo mistero d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli
di un istinto della fede – il sensus fidei –
che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza dello
Spirito concede ai cristiani una certa connaturalità con le realtà divine e una
saggezza che permette loro di coglierle intuitivamente, benché non dispongano
degli strumenti adeguati per esprimerle con precisione.
120. In virtù del Battesimo
ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario
(cfr Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua
funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto
attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di
evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del
popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova
evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei
battezzati. Questa convinzione si trasforma in un appello diretto ad ogni
cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione, dal
momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo
salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo,
non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni.
Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di
Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo “discepoli” e “missionari”, ma
che siamo sempre “discepoli-missionari”. Se non siamo convinti, guardiamo ai
primi discepoli, che immediatamente dopo aver conosciuto lo sguardo di Gesù,
andavano a proclamarlo pieni di gioia: «Abbiamo incontrato il Messia» (Gv 1,41).
La samaritana, non appena terminato il suo dialogo con Gesù, divenne
missionaria, e molti samaritani credettero in Gesù «per la parola della donna»
(Gv 4,39). Anche san Paolo, a partire dal suo incontro con Gesù
Cristo, «subito annunciava che Gesù è il figlio di Dio» (At 9,20).
E noi che cosa aspettiamo?
E’ la ragione per la quale, all’inizio di
questo processo sinodale si vuole
ascoltare i fedeli, ma non come
singoli individui, come si farebbe in un sondaggio, ma suscitandoli come corpo
collettivo, in dialogo, di modo che, rispondendo, essi siano già Chiesa
sinodale, che significa Chiesa degna di essere ascoltata.
Nella Carta d’intenti per il Sinodo
delle Chiese italiane, approvata dalla Conferenza episcopale italiana
nel corso della sua 74° Assemblea generale tenutasi dal 24 al 27 maggio 2021, è spiegato molto bene il senso di questa
iniziativa:
Su questo
sfondo è possibile intravedere la prospettiva sintetica del Cammino. Forse
possiamo formularla così: l’itinerario del “Cammino sinodale” comporta la
necessità di passare dal modello pastorale in cui le Chiese in Italia erano chiamate
a recepire gli Orientamenti CEI a un modello pastorale che introduce un
percorso sinodale, con cui la Chiesa italiana si mette in ascolto e in ricerca
per individuare proposte e azioni pastorali comuni. Ci è chiesto di passare
da un modo di procedere deduttivo e applicativo a un metodo di ricerca e di
sperimentazione che costruisce l’agire pastorale a partire dal basso e in
ascolto dei territori. Finora gli Orientamenti CEI (per il decennio)
erano approvati dall’Assemblea Generale e proposti alle diocesi che li
recepivano attraverso iniziative, percorsi e azioni pastorali. Spesso hanno
attuato anche percorsi e proposte assai stimolanti ed efficaci. La prospettiva
del “Cammino sinodale”, che emerge per il prossimo quinquennio, dovrebbe
sviluppare insieme riflessione e pratica pastorale: ascolto, ricerca e proposte
dal basso (e dalla periferia) convergeranno in un momento unitario per poi
tornare ad arricchire la vita delle diocesi e delle comunità ecclesiali.
“Ascolto”, “ricerca” e “proposta”: questi sono i tre momenti perché la lettura
della situazione attuale e l’immaginazione del futuro possa smuovere il corpo
ecclesiale e la sua presenza nella società. È il vivo desiderio che ci ha
trasmesso Papa Francesco, per ripensare il presente e il futuro della fede e
della Chiesa in Italia: la prospettiva teologica e spirituale di La Gioia del Vangelo Evangelii Gaudium e
del Discorso di Firenze [2015] predispone la trama dei “contenuti”
essenziali del percorso.
Si intravede la promessa di un percorso circolare: il processo
sinodale propone una conversione pastorale già per il modo con cui viene
elaborato e vissuto nelle parrocchie, nelle diocesi e nelle realtà ecclesiali
e sociali. Le Chiese che sono in Italia ne potranno uscire arricchite nella
misura in cui i variegati soggetti ecclesiali del Paese si lasceranno
coinvolgere. Forse emergeranno anche istanze di rinnovamento o di riforma delle
strutture che dovranno essere tenute in debito conto, per snellire la macchina
degli Uffici e dei Servizi pastorali, sia al centro sia alla periferia.
In questo
lavoro non si parte da un nucleo di definizioni che si vuole utilizzare per correggere ciò che c’è in basso, e nemmeno si prescinde
da esse naturalmente, ma si vuole capire come la fede possa essere vissuta nelle
società di oggi, come esse realmente sono non come si immagina che siano,
e per questo, per conoscerle veramente, ci si mette in ascolto del Popolo di Dio,
noi tutti, persone laiche, clero, religiosi, non considerandolo solo materia
inerte da plasmare, ma soggetto collettivo capace di quell’apostolato che rientra nel mandato che il Signore, mediante
i primi apostoli, ha fatto tramandare di generazione in generazione alla sua Chiesa.
Tramandare non significa,
nella concezione dei cristiani, mantenere sempre uguali le nostre società,
perché la nostra è una fede in cui si confida che ogni cosa sia fatta nuova.
Questo comprende anche la nostra Chiesa, che, infatti, nei due millenni della
sua storia non è stata mai sempre uguale a se stessa, anche se alcuni tratti
caratteristici sono stati mantenuti.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli