Dialogare nella Chiesa e nella società
Il dialogo è un cammino di perseveranza,
che comprende anche silenzi e sofferenze, ma capace di raccogliere l’esperienza
delle persone e dei popoli. Quali sono i luoghi e le modalità di dialogo all’interno
della nostra Chiesa particolare? Come vengono affrontate le divergenze di
visione, i conflitti, le difficoltà? Come promuoviamo la collaborazione con le
Diocesi vicine, con e tra le comunità religiose presenti sul territorio, con e
tra associazioni e movimenti laicali, ecc.? Quali esperienze di dialogo e di
impegno condiviso portiamo avanti con credenti di altre religioni e con chi non
crede? Come la Chiesa dialoga e impara da altre istanze della società: il mondo
della politica, dell’economia, della cultura, la società civile, i poveri..
Nell’antica filosofia greca il dialogo
era uno dei metodi per conoscere il mondo e la società. La parola italiana ci
viene appunto dal greco antico e significa proprio quello: il discorrere per capire, capire mediante il discorso.
Presuppone almeno due interlocutori che si riconoscano a vicenda la dignità di
partecipare a quel discorrere. Dialogando ci si forma una convinzione e, per i
maestri che scelgono quella via, l’insegnare è vissuto un po’ come l’aiutare a
partorire, per cui dai maestri greci veniva detto maieutica, che faceva riferimento all’arte ostetrica. Gli
si contrappone il metodo di imporre le idee facendo leva sull’autorità e
quindi sulla diversa dignità di chi insegna e di è costretto ad imparare in un
certo modo, senza alternative e senza poter discutere.
Nella nostra Chiesa il dialogo si può
praticare solo nelle associazioni di fedeli che lo ammettono, la più grande
delle quali è la nostra Azione Cattolica,
con i suoi trecentomila aderenti di ogni età. I movimenti fondamentalisti e
integralisti non lo tollerano. Al di fuori dell’associazionismo non c’è alcuno
spazio per il dialogo, perché, statutariamente per così dire, la verità è nelle mani del Papa e dei vescovi e deve
essere semplicemente accettata per obbedienza. Questo è molto umiliante, ma la
gerarchia ritiene che sia necessario, altrimenti la Chiesa si sfascerebbe.
Verità, per la gerarchia, è
tutto quello che riguarda la religione, diciamo il campo del sacro, ad esempio
i dogmi e molto altro. Non vi rientrano le convinzioni e conoscenze desacralizzate,
secolari, profane, vale a
dire quelle che, a sua discrezione, la gerarchia lascia alla società. La loro
area è molto variata nei secoli. L’astronomia, ad esempio, non vi rientra più.
Inutilmente Galileo Galilei, scienziato vissuto tra il Cinquecento e il
Seicento, tentò di dialogarvi sopra. Su di lui prevalse la teologia normativa
del suo tempo, ma, alla lunga, essa poi dovette ritirarsi. Ecco, quello fu
anche un esempio delle sofferenze che nella nostra Chiesa possono affliggere chi
vorrebbe dialogare. Per la gerarchia sarebbero addirittura virtuose, tanto che
poi a volte proclama santi quelli che ha perseguitato e silenziato. In realtà,
con il senno del poi naturalmente, sono solo sofferenze inflitte stupidamente,
che hanno fatto molto danno alla stessa Chiesa. Un altro che soffrì in quel
modo fu Lorenzo Milani. Anche la politica storicamente fu sacralizzata e quindi
incarcerata nella verità canonica: questo costò la scomunica al primo Re
d’Italia, Vittorio Emanuele 2°, e a Camillo Benso Cavour, il presidente del
consiglio dei ministri che fu tra i principali artefici della nostra unità
nazionale, per aver posto fine allo Stato Pontificio, nel 1870. Dopo circa un
secolo, però, il papa Paolo 6° definì provvidenziale quell’evento. Anche a don Romolo Murri, tra
gli ideatori di una democrazia cristiana, la politica costò la
scomunica. Essa si abbatté su Roberto
Ardigò, che era stato prete e addirittura si pensava che avesse buoni numeri
per diventare vescovo di Mantova, uno
dei nostri maggiori filosofi, per aver sostenuto l’autonomia delle scienze,
principio che fu accolto durante il Concilio Vaticano 2°. Non visse nel secolo
giusto.
Il modo in cui la gerarchia ecclesiale
intende ed esercita la propria autorità ci impedisce il dialogo. Questo perché
a nessuno è riconosciuta pari dignità rispetto agli autocrati. Essi ritengono di dover regnare
per diritto divino e vi hanno
costruito sopra una teologia giustificativa. Dicono però che anche noi, persone
laiche, siamo in qualche modo “re”, ma in realtà, al loro cospetto, siamo definiti sempre sudditi e si pretende da noi docilità. Quando oggi si parla di sinodalità
come via di riforma della Chiesa si
mette in questione anche questo modo di governare. Ma non illudiamoci: la
riforma potrà venire solo dal basso, per via sperimentale, piano piano, in un
tempo lungo, e ci vorrà pazienza e perseveranza, perché nessun autocrate fa spazio ad altri nel
suo potere se non vi è costretto dalle circostanze, ad esempio se intorno a lui
la società è tanto cambiata che le
consuetudini del passato appaiono obsolete anche a lui. Però un certo modo di
regnare comincia a sembrare tale anche agli stessi gerarchi. Ci saranno quindi
ancora molte sofferenze per impossibilità di dialogo nella nostra Chiesa. Nella
biografia di una grande anima della nostra Chiesa come Giuseppe Toniolo, che
tanto fece per il nostro associazionismo, è narrato il suo vivo dolore per le
incomprensioni con il Papa del suo tempo: impariamo da lui la perseveranza nel
cercare il dialogo, non cedendo alla tentazione di rompere. La Chiesa, se
paragoniamo la nostra a quella del suo
tempo è molto cambiata. Certo non basta una vita sola per vedere la fine del
processo.
Il principale problema che abbiamo in materia
di dialogo è che nella nostra Chiesa si rifiutano i principi democratici,
perché, si pensa, il potere in materia
di fede può essere solo autocratico e
sacralizzato. Questo ostacola anche i
rapporti tra le varie componenti del laicato, così come tra parrocchie e
Diocesi. Non vi può essere vero dialogo nel popolo senza democrazia.
All’interno dell’autocrazia il dialogo in quel senso, ma con molti limiti, è
ammesso solo quando ci si riunisce tra vescovi. Il vescovo, invece, nella sua
Diocesi, quindi verso i suoi sudditi tra clero, religiosi e persone
laiche è un monarca assoluto, mentre egli stesso è suddito di chi è sopra di
lui e difficilmente può resistergli. Negli anni ’60 una grande anima come il
cardinal Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, fu vittima di questa
condizione e fu spinto alle dimissioni per aver criticato, nell’anno in cui fu
celebrata per la prima volta la Giornata mondiale della pace (!) i
bombardamenti a tappeto statunitensi in Vietnam. Sopra di lui c’era un’altra
grande anima, Giovanni Battista Montini, Paolo 6°, il Papa che l’anno
precedente aveva istituito quella Giornata mondiale della pace con un
magistero ispirato: in quell’occasione egli fu, come si dice, vittima delle
circostanze ed evidentemente non vide altra soluzione che chiedere la testa del
suo confratello nell’episcopato.
Per quell’impossibilità di un vero dialogo,
mi pare che ora ogni parrocchia viva come in un mondo a sé, anche se i rispettivi
preti a volte si sentono, si incontrano, se non altro nelle occasioni create in
Diocesi. Le persone laiche invece ci vivono come confinate e, per un’esperienza
religiosa un po’ più in grande, devono
aderire ad un’associazione e movimento nazionali. Questo poi le disamora alla
vita parrocchiale. Per quelli che scelgono quella via, la vita di fede è
essenzialmente fuori della parrocchia, dove si va solo per sentir messa
o portare i bambini e ragazzi al
catechismo, fin quando non li si può più tenere
e allora non si vedono più. Col tempo, questo modo di fare ha finito per
rendere alcune parrocchie solo come strutture di supporto alle associazioni e
movimenti che la abitano, e questo è stato molto sensibile nella nostra
parrocchia in anni passati. Vi è cominciata ad affluire gente da fuori, non
interessata alla parrocchia, ma ad un movimento che l’abitava. Ciò ha finito
per rendere un po’ estranea la parrocchia al quartiere. Così poi non ci
portavano più bambini e ragazzi per la formazione di base. Ad un certo punto, veramente
molto tardivamente, la Diocesi ha rilevato il problema e ha tentato di porvi
rimedio, mandando preti in supporto. Ma non è bastato, nonostante il valore di
quel clero, che si è fatto rapidamente apprezzare e a cui vogliamo bene. La
Chiesa non è fatta solo di preti. Rimane il fatto che, al di fuori di
associazioni e movimenti, non ci sono occasioni di dialogo per le persone
laiche e quindi la situazione non può
essere veramente corretta. E non ci sono perché, almeno finora, si pensava che
non servissero veramente, e che, a parte preghiere e sacramenti, e un po’ di
attività caritativa, le persone laiche non avessero veri motivi, dopo
l’infanzia e la prima giovinezza, per frequentare la parrocchia. Non certo per dialogare. Questo si
riflette sui metodi e contenuti della formazione per le persone laiche che
appare gravemente insufficiente. Il lavoro che esse devono fare in società non
è quello dei monaci, appunto perché prevalentemente orientato all’azione
sociale, e invece spesso si cerca di
insegnar loro una spiritualità monacale.
Nella società civile le persone laiche vivono
un’esperienza completamente diversa, in cui hanno diritto di parola,
partecipano, influiscono collettivamente in varie maniere e misure, e comunque in qualche modo contano.
Vi si pratica la democrazia, anche se essa è sempre insidiata dalla
prevaricazione violenta. L’Azione Cattolica è stata storicamente una delle
principali scuole di democrazia per gli italiani: questo è stato in massima
parte frutto del pensiero e dell’azione delle persone laiche che l’hanno
animata. Si sono dimostrate capaci di non essere solo esecutrici ma di
poter ragionare anche sui principi e di poterli anche insegnare (anche ai
gerarchi). In questo vi è stato un vero e proprio magistero laicale. In questo
l’Azione Cattolica si è emancipata da esse solo un braccio della gerarchia, secondo
i suoi statuti delle origini, nel 1906. La nostra Repubblica deve molto
all’impegno dei cattolici e questo sin dalla sua fondazione. Un’azione che è
stata molto importante anche nella costruzione dell’unità europea, in tutte le
sue fasi, ma, in particolare, nell’allargamento all’Europa orientale, che si
presentava molto problematico. Tutto questo è poco considerato dalla gerarchia,
che ancora, quando parla di radici cristiane dell’Europa, si riferisce
prevalentemente ai tempi tremendi (per la violenza per motivi religiosi che
espressero e quindi per la sconfessione pratica del vangelo) a cui risalgono le
grandi cattedrali europee, che ora sono più che altro piene di turisti, si
stanno trasformando in musei, e gli stessi gerarchi se ne lamentano. Un’Europa
che ha consentito oltre settant’anni di pace non è molto apprezzata dai nostri
vescovi, ne diffidano per quella democrazia che contiene e che ne è stata il
motore, fattore di concordia tra i popoli, democrazia che, per il ruolo
centrale che nella sua costruzione hanno svolto i cristiani, è stata declinata anche secondo i principi
cristiani, per cui è diventata tanto
diversa da altre bellicose democrazie, come quella statunitense. La democrazia
è vista con sospetto per la libertà che esprime: si pensa che su quella via poi
la gente vorrebbe mettere in questioni i dogmi sui quali storicamente la
gerarchia ha costruito la sua efferata cosiddetta ortodossia, o si darebbe a chissà quali altre fantasie. Non si vorrà mettere ai voti
la Trinità? Non si rende conto, la gerarchia, di quanto la sua teologia
normativa sia diventata estranea alla maggior parte dei fedeli, per cui non
sarebbe certamente quello il problema principale. I più, al di là della formula
dell’antico Credo che si recita a
messa, nemmeno sanno di che si tratta e che cosa comporta. Interesserebbe tanto
poco e a tanti pochi che non arriverebbe nemmeno a discutersene. Ma, ad
esempio, introducendo principi democratici in una parrocchia, si potrebbe
discutere di come usare locali e arredi, di come organizzare un appropriato
progetto formativo per le persone laiche, di come programmare assemblee per
orientarsi dialogando, di quanto debito
fare e per che cosa. Dico discutere non solo nel senso di consultare una limitata accolita di nominati, ma di farne
partecipi tutti, mediante strumenti di pubblicità validi, di poterne discutere
in assemblee, di avere un vero peso nelle decisioni mediante eletti dal
basso, come già prevede del resto la normativa canonica. Questo è il metodo
che pratichiamo nella società civile e chi ci viene vietato quando entriamo in Chiesa, veramente un altro mondo in
questo.
Dialogo con altre religioni e con chi non
crede:
a che punto siamo?, ci chiedono i nostri vescovi. Alle Valli non constato contatti tra fedeli di diverse
religioni e tra noi c’è anche poca consapevolezza di che cosa esse siano,
insieme a molti pregiudizi che ci derivano dal passato. Con chi non crede siamo
in contatto tutti giorni, nella vita in
società, e certamente una qualche influenza abbiamo, se non altro per far
conoscere attraverso noi la dimensione religiosa, ma questo, che è propriamente
apostolato, non ci viene riconosciuto: alcuni ci vorrebbero brutalmente piazzisti del vangelo e, poiché non lo
siamo, questo è un altro elemento di insoddisfazione verso di noi. Nei rapporti
con chi non vive la fede occorre una certa delicatezza e la capacità di mediare
nel suo mondo ciò che intendiamo comunicargli: questo richiede di conoscerlo
bene. Non basta strillargli addosso le parole della fede. Farlo è
controproducente.
Organizzare occasioni di dialogo in
parrocchia: questa la proposta pratica che rivolgo al Consiglio
pastorale parrocchiale per partecipare anche noi al processo sinodale che
tra qualche giorno inizierà.
A proposito: la sinodalità, prima di
essere teoria, è pratica e richiede di farne tirocinio provando a
dialogare riconoscendosi pari dignità: ciò che è risultato tanto difficile
nelle nostra parrocchia, e anche tra
persone che sono sicuramente buone, ma che, essendo state formate alla
religione in un certo clima, quando si incontrano al di fuori dei loro soliti
raggruppamenti, diffidano le una delle altre e pensano che, dialogando, debbano
rinunciare a qualcosa di
importante del loro modo di vivere la fede, di doversi amputare qualcosa,
qualche parte di sé. Ma non è questo il risultato della sinodalità. E’
una paura che deriva da un certo integralismo che ci è entrato dentro e
che non solo non è essenziale in religione, ma è anche dannoso. Ci divide, ci
confina. Dobbiamo invece cercare di aprirci alle altre persone per indurle a
fare altrettanto. In fondo condividiamo molti grandi principi ed è su questo, su quello che ci unisce, che
bisogna fondare il tirocinio di sinodalità.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa
- Roma, Monte Sacro, Valli