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Corresponsabili nella missione
La
sinodalità è a servizio della missione della Chiesa, a cui tutti i suoi membri
sono chiamati a partecipare. Poiché siamo tutti discepoli missionari, in che
modo ogni Battezzato è convocato per essere protagonista della missione? Come
la comunità sostiene i propri membri impegnati in un servizio nella società
(impegno sociale e politico, nella ricerca scientifica e nell’insegnamento,
nella promozione della giustizia sociale, nella tutela dei diritti umani e
nella cura della Casa comune, ecc.)? Come li aiuta a vivere questi impegni in
una logica di missione? Come avviene il discernimento sulle scelte relative
alla missione e chi vi partecipa? Come sono state integrate e adattate le
diverse tradizioni in materia di stile sinodale che costituiscono il patrimonio
di molte Chiese, in particolare quelle orientali, in vista di una efficace
testimonianza cristiana? Come funziona la collaborazione nei territori dove
sono presenti Chiese sui iuris diverse?
Di solito,
quando alle persone laiche si parla di missione esse pensano ai
religiosi missionari mandati in terre lontane a parlare di religione e a
insegnarla alle persone che vi si interessano. Se però intendiamo la missione
anche come azione sociale, quindi come un attivarsi per produrre
modifiche sociali, allora è chiaro che questo riguarda anche chi non si muove
da dove vive di solito, e anche le persone laiche. L’Azione Cattolica è stata
costituita proprio per fare quello. E la
domanda che, a quel proposito, ci viene posta dai nostri vescovi, nel processo
sinodale che sta per iniziare, si muove
in quel quadro di idee:
«Come
la comunità sostiene i propri membri impegnati in un servizio nella società
(impegno sociale e politico, nella ricerca scientifica e nell’insegnamento,
nella promozione della giustizia sociale, nella tutela dei diritti umani e
nella cura della Casa comune, ecc.)?»
L’elenco degli impegni sociali che leggiamo lì va considerato
esemplificativo. Lascia fuori i due principali campi di attività sociale delle
persone laiche: il lavoro e la famiglia,
in particolare nell’occuparsi della prole e degli anziani. Essi, che in quel passo del Documento preparatorio rientrano nell' "ecc.", spesso
esauriscono quasi del tutto il tempo di una persona. Il fatto che i vescovi non
li abbiano menzionati espressamente è indicativo del fatto che li ritengono in fondo semplice
routine, alla quale si debba affiancare altro.
Inoltre, parlare di servizio nella società, riflette un po’ la
mentalità del clero e dei religiosi, i quali appunto, una volta assestati nel
loro stato di vita, si mettono alla ricerca di un servizio da svolgere.
Le persone laiche si trovano invece coinvolti nelle loro principali
occupazioni, appunto lavoro e famiglia,
senza tanto doverci pensare sopra: il primo è una necessità di sussistenza, la
seconda di natura e spesso la famiglia
incide sul lavoro, su quale fare, sul tempo che si pensa di dedicargli e anche
sulle proprie ambizioni. E, tuttavia, la
persona laica che si presenta al suo prete di prossimità o, qualche volta nella
vita, addirittura al suo vescovo, si sente un po’ sempre in difetto perché
capisce che, per quegli altri, ciò che fa è semplice routine e si
aspettano sempre dell’altro in più.
Ecco
che, allora, si pensa che quelli che dell’altro riescono a fare, ad
esempio perché non sfiniti dal lavoro e dalla famiglia, i politici per dirne una, debbano
essere sostenuti dalla comunità. E la comunità, chi la sostiene?
Il
clero adotta una mentalità clericale senza neanche rendersene conto, senza voler
far del male od offendere. Certo, una persona che scelga il celibato o il
nubilato, e quindi si cavi fuori dagli
impegni di famiglia, e tutto sommato un certo reddito ce l’ha di routine, per
così dire, senza dover fare un lavoro che sfinisce, allora, ecco, ha il
problema di fare anche dell’altro. E così, in genere, non si riesce a
mettere nei panni di una persona laica, che si trova in una situazione molto
diversa. Del resto è stato formato a pensare così. In passato si pensava che,
tutto sommato, rispetto alla vita di clero e religiosi, il fatto di poter far
sesso fosse un bel privilegio, per le persone laiche, ed esso, in qualche modo,
doveva essere scontato. Fino a qualche decennio fa si aveva qualche remora a
riconoscere canonicamente la santità delle persone laiche, a meno che non
facessero fini atroci, proprio per quella faccenda del sesso, rubricata al
capitolo piacere-peccato-rimedio della concupiscenza. Ma, a ben vedere, il sesso rientra appunto semplicemente
nel capitolo famiglia.
Dagli
anni ’30, per la gerarchia l’attività che una persona svolge in società è
considerata rientrare nel campo religioso: è una forma di carità, si
dice. L’affermazione risale ad un discorso che il papa Pio 11° tenne agli
studenti universitari della FUCI poco dopo il Concordato Lateranense e
l’esortazione al laicato italiano a collaborare alla riforma corporativa del
fascismo mussoliniano. L’affermazione della provvidenzialità del capo del fascismo, ripetuta all’epoca anche da diversi vescovi, raccontano
gli storici, fu comunque un incidente storico dal quale il Papato si emendò
dopo qualche anno. In mezzo però ci fu
la persecuzione degli ebrei italiani e una feroce guerra coloniale nel Corno
d’Africa, anche con sterminio di monaci copti. Da allora, l’idea che l’impegno
sociale avesse una valenza religiosa fu mantenuta e, anzi, estesa.
Secondo
i principi del Concilio Vaticano 2° la Chiesa dovrebbe essere anche il luogo in
cui si ragiona su quegli impegni sociali che i fedeli svolgono, lavoro e
famiglia compresi. Di solito lo si fa, a fini di discernimento, in
associazioni e movimenti, ma non in strutture, come dire, generaliste,
ad esempio in parrocchia. Le Settimane sociali, la 49° inizierà a breve
a Taranto, servono proprio a questo. Stesso discorso per i Convegni
ecclesiali nazionali e i Congressi
eucaristici. Sono tutte occasioni, nazionali, ben lontane dalle
nostre realtà di prossimità, in cui ci si confronta sull’impegno sociale
ispirato dalla fede. Esse hanno in comune l’essere egemonizzate dalla
gerarchia, che ne predetermina il risultato. Dà un tema e indica come deve
andare a finire, con il cosiddetto Instrumentum Laboris (=documento di
base per la riflessione) o con un Documento preparatorio, e poi invita a
sua discrezione relatori, convegnisti o congressisti, e approva la
deliberazione finale. Il problema principale è che l’iniziativa non viene veramente
da chi si impegna in società, che, con quel metodo, viene più che altro consultato.
Così a volte si partecipa, più spesso si assiste, ma mai si
partecipa da protagonisti.
L’impegno sociale è legato all’evangelizzazione: questo significa
il riconoscergli valore anche religioso. Per questo ciò che si fa in società
assume anche il connotato di una missione. Di ciò si acquisì più chiara
consapevolezza negli anni ’70 e il primo Convegno ecclesiale nazionale,
che si svolse a Roma nel 1976, ebbe il titolo Evangelizzazione e promozione
umana. Nell’ultimo, svoltosi a Firenze nel 2015, dal titolo In Gesù
Cristo il nuovo umanesimo, nella gerarchia si manifestò l’idea di
promuovere la sinodalità, perché per il solo clero un nuovo umanesimo
è un obiettivo un po’ troppo grosso.
Siccome c’è bisogno di più forze, è rispuntata appunto la sinodalità diffusa,
non solo degli autocrati, che significa
coinvolgere anche le persone laiche. Negli anni precedenti però si era puntato,
lo ricordano gli storici della Chiesa, sull’evangelizzazione, mettendo
un po’ in second’ordine la promozione umana, vale a dire noi persone
laiche. Si trattò di una evangelizzazione in cui si faceva conto, come agenti sociali,
essenzialmente su preti e religiosi e sul cosiddetto para-clero, le
persone laiche che si facevano ausiliari nelle attività del clero. Si diceva
che la Chiesa evangelizza, non costruisce società (come invece
dovrebbe farsi per il nuovo umanesimo), Così non occorreva granché la sinodalità
totale, che ora si vorrebbe invece indurre tra noi tutti. Questo poi ci
portò alla problematica situazione attuale, sulla quale si è scritto molto e
bene e sulla quale non sto quindi a ritornare, se non per dire che non è una
bella situazione. Dimenticando la sinodalità è poi crollata anche la pratica,
perché nell’Europa di oggi si è insofferenti del ruolo di semplice gregge nelle
mani altrui.
Una volta che si sia accettata l’idea che lavoro e famiglia sono impegno sociale e rientrano nella missione, sia come evangelizzazione che come promozione umana, sarebbe opportuno che nelle parrocchie, le realtà di prossimità che ancora legano più o meno tutti i fedeli, al di là di cammini e spiritualità particolari, si istituissero delle strutture sociali (nuove perché nulla del genere c’è) per dar modo alle persone laiche di incontrarsi, dialogare e discernere su quel loro attivismo in società. Ma non per sentirsi impartire un qualche catechismo: invece proprio per ragionare sulla loro vita, sul suo significato religioso e sulle sue prospettive, in un’ottica di fede, certo. In quei campi la formazione è prima di tutto autoformazione, perché l’esperienza conta molto e, ad esempio, preti e religiosi in genere non ce l’hanno. Questa è, dunque, la proposta che faccio al nostro Consiglio pastorale parrocchiale, in un’ottica di sinodalità totale: infatti, organizzare cose simili rientra proprio nella cosiddetta pastorale. Questo consentirebbe effettivamente, secondo l’auspicio dei vescovi, di sostenere i fedeli impegnati al servizio della società e aiutarli a vivere quegli impegni in una logica di missione. Quei fedeli siamo tutti noi! Noi che siamo Chiesa emarginata, dimenticata, sottovalutata, spesso disprezzata.
Mario Ardigò
- Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli