INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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lunedì 11 ottobre 2021

Sinodo come processo

 

Sinodo come processo

(11-10-21)




 

    Nel Documento preparatorio diffuso nello scorso settembre in vista del Sinodo generale dei vescovi che si terrà nell’ottobre 2023, la fase preparatoria, che prevede un coinvolgimento di tutte le persone di fede, descritta come consultazione e che richiede  un loro ruolo attivo come collettività, viene presentata come un Cammino. Nel pensiero di papa Francesco, che è colui dalla quale ci viene la convocazione in Sinodo – questa volta è tutta la Chiesa ad essere convocata – quella parte viene invece indicata come un processo, e la differenza non è di poco conto.

  Il Cammino può richiamare la tradizionale metafora del gregge, guidato da pastori. Nel logo  del Sinodo c’è l’immagine di ciò a cui si pensa. Si vede un vescovo con i paramenti liturgici, in particolare con il bastone rituale detto pastorale,  che, appunto, cammina, in mezzo a gente di tutte le età, uomini e donne. Nella realtà della pastorizia, il pastore, in genere, non cammina davanti  al gregge, ma dietro o in mezzo, per guardare dove esso va e individuare i capi che si allontanano. Ma è lui a dirigere il gregge. Nella prassi europea di questo tipo di mestiere, viene aiutato da cani, dai quali sa come farsi intendere [nei Vangeli, nelle metafore basate sulla pastorizia, i cani, come aiuto del pastore, non compaiono. Ipotizzo che sia perché erano considerati religiosamente impuri, perché camminano sulle proprie mani]. Ma comunica anche con gli individui del gregge, che lo conoscono e dipendono da lui. Sono stati addomesticati, non saprebbero più, come gli animali selvaggi, individuare il posto migliore per pascolare. Sono erbivori: la loro vita trascorrere nella massima parte ad alimentarsi, perché ciò che mangiano è poco nutriente rispetto alla carne. Il pastore, però, sa dove condurli.

  Un processo può essere considerato come una sequenza di atti preordinata ad un fine, ed è in questo senso che lo si considera nel diritto. La profonda compenetrazione tra religione e diritto nel nostro modo di organizzare le Chiese, ha costruito delle procedure  in quel significato anche nell’organizzazione ecclesiastica, tra le quali vi sono anche quelle sinodali. Il Sinodo dei vescovi ha una propria legge procedurale, che è stata profondamente riformata nel 2018. Anche nell’industria si parla di processi: di processi produttivi. Sono quelli che comportano l’organizzazione di una collettività per costruire il risultato a cui si punta. Una persona singola, nel lavoro da lei organizzato, pensiamo ad un artigiano, ma anche ad uno scrittore, ha un metodo, ma non ne parliamo come di un processo. Il  processo è uno schema di azione sociale organizzata da noi all’inizio e serve a dare ordine a una collettività.

  Quando si studia la natura e si cerca di descrivere realisticamente come funziona, individuiamo anche qui dei processi, che sono delle  serie di trasformazioni, metamorfosi che le cose e gli organismi subiscono. Diamo loro una scansione temporale. Quando stimiamo la speranza di vita di una persona, ad esempio,  cerchiamo di riassumere le conseguenze di complessi processi biologici: a seguito dell’epidemia di Covid 19, la stima è passata da 82 anni a 79,7. Questi processi, in genere,  non sono da noi organizzati, anche se possiamo servircene. Li osserviamo, li studiamo e li descriviamo. Questo vale specialmente nel campo dell’ecologia, molto rilevante nel pensiero di papa Francesco. Si tratta, in tutti i casi, di capire fenomeni complessi che, nella gran parte dei casi, non sono stati da noi attivati e sui quali, lo capiamo sempre meglio, possiamo però incidere. Anche ai nostri tempi non abbiamo la possibilità di controllarli se non in parte molto piccola. Nell’antichità le forze della natura coinvolte in questo tipo di processi vennero deificate e sacralizzate: le religioni primitive erano e sono fatte di questo. Nelle dottrine cristiane esse si ritengono solo soggette alla volontà divina e quindi sue espressioni, vengono divinizzate. Nel pensiero di Francesco d’Assisi questo è molto evidente e corrisponde al modo di pensare dell’uomo medievale, circondato da forze della natura potentissime e sconosciute, vissute come comandi divini, una specie di rivelazione come scrisse Galilei. Ancora oggi, la teologia del disegno intelligente  si muove in quell’ordine di idee.

  Quando parliamo di fatti sociali, osserviamo una evoluzione nel tempo delle caratteristiche delle collettività umane di volta in volta considerate: ciò viene considerato un processo. Di che tipo di processo si tratta? E’ vero, noi siamo organismi e quindi sistemi complessi che manifestano processi biologici, e le società sono fatte di noi. La natura ci limita moltissimo, anzitutto nella durata della vita, con la prospettiva della fine. Capiamo bene che siamo inseriti in un succedersi di generazione, e il generare è un processo naturale. Tuttavia l’evoluzione delle nostre società dipende molto anche da fattori culturali, ad esempio dal diritto e dalla religione. Anche la politica, la costruzione e il governo della società, è uno di essi. Ma, per quanto una società possa essere governata, non ci è mai riuscito di ordinarne tutte  le sue manifestazioni, come invece ci sembra accadere negli organismi viventi, e anche nel nostro corpo, per una sorta di virtù naturale che, nell’ottica medievale, si riconduce alla volontà divina. E’ per il fatto che, oltre che dalla natura, sono plasmate anche dalla nostra volontà? Certo: l’evoluzione delle società umane, quel processo per cui cambiano nella loro storia, in particolare nel succedersi delle generazioni e nelle loro interazioni, dipende anche da noi, dalle nostre relazioni, nella massima parte non pienamente consapevoli della loro incidenza sull’insieme ma solo del loro risultato in una particolare transazione, ma in un modo che noi stessi non riusciamo pienamente a controllare. Questo accade anche in quella particolare società che è una Chiesa cristiana.

 Ma come è possibile che una realtà umana voluta dal Cielo e così ad esso connessa, come i tralci con la vite (ecco una metafora basata su un processo biologico), sia ancora preda di processi  assimilabili a quelli della natura? Ciò è stato vissuto storicamente, in religione, come una imperfezione. La Chiesa, è stato argomentato, va vista come un corpo biologico del quale costituisce le membra, mentre il capo è Cristo. Il problema è quindi quello di rimanere uniti a lui. Questa concezione si basa fondamentalmente sul pensiero di Paolo di Tarso, in particolare nel brano del capitolo 12 della Prima lettera ai Corinzi versetti da 12 a 31 [1Cor 12, 12-31] che di seguito trascrivo nella versione TILC - Traduzione interconfessionale in lingua corrente.

 

 Cristo è come un corpo che ha molte parti. Tutte le parti, anche se sono molte, formano un unico corpo. E tutti noi credenti, schiavi o liberi, di origine ebraica o pagana, siamo stati battezzati con lo stesso Spirito per formare un solo corpo, e tutti siamo stati dissetati dallo stesso Spirito. Il corpo infatti non è composto da una sola parte, ma da molte. Se il piede dicesse: «Io non sono una mano, perciò non faccio parte del corpo», non cesserebbe per questo di fare parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Io non sono un occhio, perciò non faccio parte del corpo», non cesserebbe per questo di essere parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? O se tutto il corpo fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ma Dio ha dato a ciascuna parte del corpo il proprio posto secondo la sua volontà. Se tutto l’insieme fosse una parte sola, dove sarebbe il corpo? Invece le parti sono molte, ma il corpo è uno solo.

 Quindi l’occhio non può dire alla mano: «Non ho bisogno di te», o la testa non può dire ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi, proprio le parti del corpo che ci sembrano più deboli, sono quelle più necessarie. E le parti che consideriamo meno nobili e decenti, le circondiamo di maggior premura. Le altre parti considerate più nobili non ne hanno bisogno. Dio ha disposto il corpo in modo che venga dato più onore alle parti che non ne hanno. Così non ci sono divisioni nel corpo: tutte le parti si preoccupano le une delle altre. Se una parte soffre, tutte le altre soffrono con lei; e se una parte è onorata, tutte le altre si rallegrano con lei.

 Voi siete il corpo di Cristo, e ciascuno di voi ne fa parte. Dio ha assegnato a ciascuno il proprio posto nella chiesa: anzitutto gli apostoli, poi i profeti, quindi i catechisti. Poi ancora quelli che fanno miracoli, quelli che guariscono i malati o li assistono, quelli che hanno capacità organizzative e quelli che hanno il dono di parlare in lingue sconosciute. Non tutti sono apostoli o profeti o catechisti. Non tutti hanno il dono di fare miracoli, di compiere guarigioni, di parlare in lingue sconosciute o di saperle interpretare. Cercate di avere i doni migliori.

 

 Descrivere la società come unico organismo è una metafora organicista, ed era piuttosto diffusa nell’antichità.

 Insegnò in merito Giovanni Paolo 2° (udienza generale 20 novembre 1991):

 

1. Per raffigurare la Chiesa, San Paolo usa la similitudine del corpo. “Noi tutti - egli dice - siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito” (1 Cor 12, 13). È una immagine nuova. Mentre il concetto di “Popolo di Dio”, che abbiamo spiegato nelle ultime catechesi, appartiene all’Antico Testamento, e viene ripreso e arricchito nel Nuovo, l’immagine di “Corpo di Cristo”, impiegata anche dal Concilio Vaticano II nel parlare della Chiesa, non ha precedenti nell’Antico Testamento. Si trova nelle lettere paoline, alle quali soprattutto faremo ricorso nella presente catechesi. Essa è stata studiata da esegeti e teologi del nostro secolo nella sua origine paolina, nella tradizione patristica e teologica, che ne è derivata, e nella validità che possiede anche per presentare la Chiesa odierna. È stata assunta anche dal Magistero pontificio: e il Papa Pio XII vi dedicò una memorabile Enciclica, intitolata appunto Mystici Corporis Christi [=del Corpo mistico di Cisto (la dottrina) -1943].

Dobbiamo ancora notare che nelle lettere paoline non troviamo la qualifica di mistico, che spunta solo più tardi; nelle lettere si parla del “Corpo di Cristo”, semplicemente e con una realistica comparazione col corpo umano. Infatti scrive l’Apostolo che “come il corpo, pur essendo uno, ha molte membra, e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo” (1 Cor 12, 12).

2. L’Apostolo con queste parole intende mettere in risalto l’unità e nello stesso tempo la molteplicità che è propria della Chiesa. “Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri” (Rm 12, 4-5). Si direbbe che mentre il concetto di “Popolo di Dio” mette in risalto la molteplicità, quello di “Corpo di Cristo” sottolinea l’unità in questa molteplicità, indicando soprattutto il principio e la fonte di questa unità: Cristo. “Voi siete corpo di Cristo e sue membra” (1 Cor 12, 27). “Pur essendo molti, siamo un corpo solo in Cristo” (Rm 12, 5). Mette dunque in rilievo l’unità di Cristo-Chiesa, e l’unità dei molti membri della Chiesa tra loro, in virtù della unità di tutto il corpo con Cristo.

3. Il corpo è l’organismo che, proprio come organismo, esprime il bisogno di cooperazione tra i singoli organi e membri nell’unità dell’insieme, così composto e ordinato, secondo San Paolo, “perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra del corpo avessero cura le une delle altre” (1 Cor 12, 25). “Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie” (1 Cor 12, 22). Siamo infatti, giunge a dire l’Apostolo, “membra gli uni degli altri” (Rm 12, 5) nel Corpo di Cristo, la Chiesa. La molteplicità delle membra, la varietà delle funzioni non possono danneggiare l’unità, così come d’altra parte l’unità non può annullare o distruggere la molteplicità e la varietà delle membra e delle funzioni.

 

  Su queste basi scritturistiche, dal Quarto al Nono secolo, e poi dall’Undicesimo, si riorganizzarono le Chiese primitive, facendone la  Chiesa, coordinata con il potere supremo civile.

 Dialogando in questi giorni con gli amici del mio gruppo romano del Movimento ecclesiale di impegno culturale ho cercato di rendere l’idea di questo processo:

 

 La democrazia, come oggi la concepiamo, e la intendiamo in maniera molto diversa dai secoli passati, ha  fondamentalmente come modello la città di luce donata dall'alto che chiude le grandi visioni dell'Apocalisse.  E' chiaramente anche una costruzione cristiana.

  La Chiesa, invece, è ancora affascinata dall'idea di impero di Cristo (non: cristiano) immaginata dal Quarto secolo durante la grande riforma delle istituzioni pubbliche dell'impero romano (con il suo centro in Tracia, però), dal quale ricevette anche il modello di magnificenza sacrale che ancora pratica nelle sue liturgie solenni. All'epoca una cosa straordinariamente nuova. Le nostre conoscenze dei cristianesimi delle origini fu a lungo dipendente dal pensiero di uno dei più grandi protagonisti di quella storia, il vescovo palestinese di cultura ellenistica, Eusebio di Cesarea, vissuto tra il Terzo e il Quarto secolo.

 Quando fui un ragazzo del liceo, un'estate, durante una vacanza sulle Dolomiti, a Serrada di Folgaria, conobbi don Gianni Baget Bozzo, un amico di mio zio Achille e di mio padre, mentre stava scrivendo la prima parte della sua grande opera sulla storia del partito cristiano. Lui e lo zio Achille discutevano dei problemi che don Gianni stava affrontando. Dal Quinto secolo, mi spiegarono, le Chiese cristiane evolsero secondo due schemi, quello di Eusebio di Cesarea, fondato sull'idea di un imperatore vescovo e vicario di Cristo, e quello riconducibile all'africano Gelasio, papa a Roma nel Quinto secolo, fondato sull'accentramento dei poteri religiosi nella gerarchia del clero e sulla sottoposizione ad essa dei poteri  civili. Nel Primo Millennio fu il primo a dominare, nel Secondo Millennio il secondo fu alla base della costruzione del Papato imperiale a partire dalla riforma ordinata e attuata dal toscano papa Gregorio 7° (Undicesimo secolo): di questa riforma fu parte la teologia del Papa come Vicario di Cristo. L'idea di regalità, nel primo e nel secondo modello, dipendeva dalla costruzione di quella di Cristo, re dell'Universo, Pantocratore nella concezione bizantina, fatta dal Quarto al Nono secolo. Questa immagine di Cristo è molto diversa da quella riconducibile al magistero terreno di Gesù di Nazaret, anche se ne può essere considerata uno sviluppo, nel senso che alcuni detti del Maestro che troviamo nei Vangeli canonici possono avvalorarla. Tuttavia va considerato che l'idea di Cristo  che troviamo in quegli scritti è ancora molto dipendente da quella di Messia che si aveva nell'ebraismo del Primo secolo, che nel greco antico si rese appunto con Cristo. L'ideologia dossettiana, secondo Baget Bozzo (che era stato dossettiano), richiamava il modello eusebiano. Quella di De Gasperi il modello gelasiano. Tutti questi discorsi sono posti all'inizio del libro di Baget-Bozzo Il partito cristiano al potere: la Dc di De Gasperi e Dossetti, 1945-1954. 

  Tuttavia, mi spiegò mio zio Achille, c'era sempre stato un terzo modello di Chiesa:  appunto quello della città di luce del cap. 21 dell'Apocalisse. E' proprio ad esso che pensava Giuseppe Dossetti, era  questo che aveva affascinato anche i primi teorici e pratici della democrazia, in nord America, ed era anche quello a cui aspiravano i cristiano democratici europei, e la ragione della loro scomunica durante la persecuzione antimodernista. E' tratteggiato in una raccolta di scritti di Dossetti pubblicato con il titolo Per la vita della città [disponibile anche in ebook per Zikkaron, 2017]. In questa visione, la manifestazione della gloria della Chiesa non sarà opera umana, ma sarà interamente opera di Dio, verrà in un battito di ciglia, secondo la suggestiva espressione di Paolo. Mio zio Achille, nelle sue periodiche conversazioni che mi teneva, essendo egli il mio padrino di Cresima, mi iniziò a questa visione, che ancora ho nel cuore. Nell'ordine di idee basato sul modello Gelasiano, la Chiesa è invece una specie di macchina organica divisa per organi e funzioni, che ingloba sacralità e regalità, impersonando  sulla Terra la presenza del Maestro ed esercitandone la regalità in modo vicario. Nel modello, diciamo così, apocalittico non vi sono invece vicari, perché Dio abita fra gli uomini, e il mondo di prima non c'è più, e non ci sono più neanche diseguaglianze per funzioni diverse esercitate, costrizioni determinate dalla ragion di stato nel governo, né inimicizie. Uguaglianza, libertà, fraternità. Questa visione è alla base della  costruzione europea, nella quale i cristiani democratici furono protagonisti. Una suggestione: la bandiera dell'Unione richiama l'Apocalisse, contiene la corona di dodici stelle  sul capo della donna vestita di sole del capitolo 12 dell'Apocalisse. L'autore del bozzetto, il francese Arséne Heitz, era un cristiano, e spiegò così il senso della sua opera; la risoluzione del Consiglio dei ministri dell'allora Comunità economica Europea per approvare quella bandiera è dell'8 dicembre 1955, solennità dell'Immacolata Concezione, introdotta cinque anni prima.

 

  Sia il modello eusebiano  che quello gelasiano  si basano sulla metafora sociale del  corpo: differiscono nel considerare chi debba esserne il capo vicario.

  Nel Secondo millennio, con l’approfondire la riflessione sulla natura della Chiesa corpo si perse un po’, in teologia, la chiara consapevolezza che si trattava di una metafora, per tentare di descrivere una realtà ineffabile, come tutte quelle in cui l’umano è connesso con il divino.

  Ciò comportò delle conseguenze sociali e politiche. In particolare le differenze di costumi e concezioni furono viste come malattie del Corpo, tali da metterne in pericolo la sopravvivenza, e la via per risanarlo fu in genere quella che potremmo definire chirurgica. E voi capite bene che cosa significò. La bella metafora contenuta nella parabola del grano e della zizzania, che rimanda alla fine dei tempi e all’azione divina la resa dei conti, non fu presa a modello di polizia religiosa, soprattutto quando si riteneva che fossero in questione i fondamenti, e in genere vennero considerati tali le definizioni  della fede, come quelle che troviamo nel Credo  che ogni domenica recitiamo insieme a messa.

 Va detto che, come mi ha spiegato un amico del MEIC che sa di biologia e anche di filosofia, l’antica metafora organicista del capo (individuato, con funzione solo vicaria del capo celeste, nella gerarchia del clero, nella costruzione della struttura della nostra Chiesa) non regge più tanto, alla luce delle conoscenze contemporanee, proprio dove individua nel capo  il centro della comprensione e della volontà. Mi ha scritto:

 

[…] uno dei motivi che remano contro la democrazia ecclesiale è il modello organicistico della chiesa: la chiesa è come un organismo, e più particolarmente, come un organismo umano. Dunque c'è un organo che comanda - l'encefalo - e tutti gli altri obbediscono. Quando ciò non accade insorge una patologia, il cui modello potrebbe essere il tumore: una parte del corpo smette di obbedire, inizia a crescere per conto suo fino a minacciare o uccidere il corpo. La soluzione è allora l'escissione del tumore (scisma, scomunica) o la sua distruzione fisica (rogo, strage).

  Come se ne esce, se se ne vuole uscire? Risponderei: con la biologia generale, e più particolarmente, con la biologia umana. Infatti, un organismo in generale, e l'organismo umano in particolare, non funzionano così.

  L'encefalo non è il centro di comando; piuttosto, comanda ed è comandato. Gli organi si comandano tutti gli uni gli altri: ad esempio, nella seconda fase del ciclo mestruale l'ipofisi encefalica controlla (stimolandolo) l'ovaio, che poi a sua volta controlla (inibendo) l'ipofisi e l'ipotalamo; dunque encefalo e ovaio si controllano e governano a vicenda; è per questo che oggi si parla di sistema neuro-endocrino-immunitario. Vi sono poi casi in cui l'encefalo non entra per nulla nella catena di comando; ad esempio, il pancreas controlla sostanzialmente per conto suo la glicemia, essendo provvisto di recettori propri e producendo alternativamente insulina o glucagone a seconda della concentrazione del glucosio nel sangue. Infine, in molti casi l'organismo è controllato dall'esterno; ad esempio, la temperatura ambientale provoca reazioni diverse come la sudorazione o i brividi; il feto induce le contrazioni del parto; i nostri batteri intestinali possono indurci a mangiare zuccheri perché loro ne hanno bisogno. Ovviamente, se passiamo ad altre specie, l'assenza di un centro unico di comando è ancora più evidente: qual è il cervello delle margherite? La ricerca del centro di comando è tanto improduttiva che, storicamente, esso è stato localizzato in organi diversi: ad esempio, secondo Aristotele il cervello serve a raffreddare il sangue.

  Se si riesce a far capire come funziona effettivamente un organismo si può conservare la metafora paolina dell'organismo (1 Cor 12), senza farne la giustificazione dell'assetto gerarchico comando/obbedienza. Tra l'altro, in Paolo non compare una decisa gerarchia, se non nel dire che prima (proton) vengono gli apostoli, poi via via gli altri; e se afferma che alcuni carismi sono più grandi (meizona), subito dopo attacca con l'inno alla carità, e non certo con l'inno al papato; inoltre, il capo è comunque Cristo. Al contrario, la Mystici corporis Christi [ del corpo mistico di Cristo (la dottrina) - enciclica del papa Pio 12° - 1943]afferma senza mezzi termini che "Omnino utique retinendum est, qui sacra potestate in eiusmodi Corpore fruantur, primaria eos ac principalia membra exsistere"[= Si deve, sì, ritenere in ogni modo che quanti usufruiscono della sacra potestà, sono in un tal corpo membri primari e principali, poiché per loro mezzo, in virtù del mandato stesso del Redentore, i doni di dottore, di re, di sacerdote, diventano perenni.] perché c'è sì pluralità di organi reciprocamente dipendenti, ma "apto ordine" [nell’ordine appropriato]. Non stupisce che segua l'eulogia  [=elogio] del papa.

 

  Nel pensiero di papa Francesco troviamo, a fini di costruzione ecclesiale, una descrizione più realistica dei processi sociali, intesi per ciò che veramente sono: la risultante di una interazione delle persone che non può essere completamente controllata da un centro decisionale, anche se sacralizzato secondo la dottrina del Corpo di Cristo.  Questi movimenti e metamorfosi della società hanno la natura di processo  perché si sviluppano nel tempo in una evoluzione nella quale ciò che ne risulta deriva  da ciò che c’era prima. Su di essi è possibile influire sviluppando un’azione sociale, in particolare di inculturazione. Tuttavia, poiché non si ha a che fare con impersonali forze della natura  ma con esseri umani, dotati di coscienza e intelletto, essa richiede di accostare la società cercando prima di capirla bene, perché proprio per la profonda connessione dell’umano e del divino, essa può esprimere significati religiosi, nelle sue culture, anche prima che essa stessa ne divenga consapevole. Essi vanno scoperti.  In questo contesto, allora, la diversità non è più considerata, in quanto appunto  diversa, non uniforme, rispetto a un certo schema preordinato, un male, una malattia, dalla quale guarire  il corpo sociale, cambiando la testa dei diversi o, se non ci si riesce, tagliandogliela. In questa concezione, il corpo sociale è visto come un poliedro.

  Di seguito trascrivo alcuni brani di documenti pubblicati sotto l’autorità di papa Francesco, dai quali emerge quanto ho osservato in merito al suo pensiero.

 

Dall’esortazione apostolica La gioia del vangelo [2013]

220. In ogni nazione, gli abitanti sviluppano la dimensione sociale della loro vita configurandosi come cittadini responsabili in seno ad un popolo, non come massa trascinata dalle forze dominanti. Ricordiamo che «l’essere fedele cittadino è una virtù e la partecipazione alla vita politica è un’obbligazione morale».  Ma diventare un popolo è qualcosa di più, e richiede un costante processo nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta. È un lavoro lento e arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia.

[…]

222. Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il “tempo”, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio.

 

Dall’enciclica Laudato si’ [2015]

144. La visione consumistica dell’essere umano, favorita dagli ingranaggi dell’attuale economia globalizzata, tende a rendere omogenee le culture e a indebolire l’immensa varietà culturale, che è un tesoro dell’umanità. Per tale ragione, pretendere di risolvere tutte le difficoltà mediante normative uniformi o con interventi tecnici, porta a trascurare la complessità delle problematiche locali, che richiedono la partecipazione attiva degli abitanti. I nuovi processi in gestazione non possono sempre essere integrati entro modelli stabiliti dall’esterno ma provenienti dalla stessa cultura locale. Così come la vita e il mondo sono dinamici, la cura del mondo dev’essere flessibile e dinamica. Le soluzioni meramente tecniche corrono il rischio di prendere in considerazione sintomi che non corrispondono alle problematiche più profonde. È necessario assumere la prospettiva dei diritti dei popoli e delle culture, e in tal modo comprendere che lo sviluppo di un gruppo sociale suppone un processo storico all’interno di un contesto culturale e richiede il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura. Neppure la nozione di qualità della vita si può imporre, ma dev’essere compresa all’interno del mondo di simboli e consuetudini propri di ciascun gruppo umano.

 

Dall’enciclica Fratelli tutti [2018]

158. Esiste infatti un malinteso. «Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune».

 

Dall’esortazione apostolica post-sinodale Cara Amazzonia [2020]

66. La Chiesa, mentre annuncia sempre di nuovo il kerygma, deve crescere in Amazzonia. Per questo, riconfigura sempre la propria identità nell’ascolto e nel dialogo con le persone, le realtà e le storie del suo territorio. In tal modo, potrà svilupparsi sempre di più un necessario processo di inculturazione, che non disprezza nulla di quanto di buono già esiste nelle culture amazzoniche, ma lo raccoglie e lo porta a pienezza alla luce del Vangelo. E nemmeno disprezza la ricchezza di sapienza cristiana trasmessa lungo i secoli, come se si pretendesse di ignorare la storia in cui Dio ha operato in molti modi, perché la Chiesa ha un volto pluriforme «non solo da una prospettiva spaziale [...], ma anche dalla sua realtà temporale». Si tratta dell’autentica Tradizione della Chiesa, che non è un deposito statico né un pezzo da museo, ma la radice di un albero che cresce. È la millenaria Tradizione che testimonia l’azione divina nel suo Popolo e «ha la missione di mantenere vivo il fuoco più che di conservare le ceneri».

[…]

72.[…]  Gli abitanti delle città hanno bisogno di apprezzare questa saggezza e lasciarsi “rieducare” di fronte al consumismo ansioso e all’isolamento urbano. La Chiesa stessa può essere un veicolo in grado di aiutare questo recupero culturale in una valida sintesi con l’annuncio del Vangelo. Inoltre, essa diventa strumento di carità nella misura in cui le comunità urbane sono non solo missionarie nel loro ambiente, ma anche accoglienti verso i poveri che arrivano dall’interno spinti dalla miseria. E ugualmente lo è nella misura in cui le comunità sono vicine ai giovani migranti per aiutarli a integrarsi nella città senza cadere nelle sue reti di degrado. Tali azioni ecclesiali, che nascono dall’amore, sono percorsi preziosi all’interno di un processo di inculturazione.

[…]

93. Dunque, non si tratta solo di favorire una maggiore presenza di ministri ordinati che possano celebrare l’Eucaristia. Questo sarebbe un obiettivo molto limitato se non cercassimo anche di suscitare una nuova vita nelle comunità. Abbiamo bisogno di promuovere l’incontro con la Parola e la maturazione nella santità attraverso vari servizi laicali, che presuppongono un processo di maturazione – biblica, dottrinale, spirituale e pratica – e vari percorsi di formazione permanente.

 

  Ecco, dunque, per finire il discorso, che quando  il Papa parla di processo  a proposito della fase preparatoria del Sinodo generale di consultazione  del Popolo di Dio,  sul quale si richiama la tradizionale dottrina sul suo sensus fidei, vale a dire la sua capacità di intuire  la via giusta ancor prima di saperla dire in un discorso organizzato, pensa ad una evoluzione molto diversa da quella evocata con la parola Cammino, che rimanda alla metafora pastorale del gregge  che va dove il pastore  vuole, e il pastore sa dove andare. Il processo così immaginato rimane aperto, anche per i pastori. Il risultato a cui si punta non è tanto un andare  da qualche parte, ma un cambiare. E cambiare nel senso del vangelo. Si pensa che l’esercizio dell’autorità ecclesiastica come  è stato condotto fin qui abbia ostacolato questo processo, e che  tale autorità, benché costituisca il capo,  possa giovarsi, nel capire e decidere, di tutto il corpo, che così non è solo una macchina  a cui inviare comandi, ma, come effettivamente  accade negli organismi viventi, in un modo che la biologia contemporanea viene scoprendo e che non corrisponde alle conoscenze secondo le quali vennero ideate le metafore organiciste, un centro complesso di formazione del pensiero e della volontà a cui tutti gli organi cooperano in quanto tutti connessi.

  Vivere la fede è sorprendersi, un po’ come i discepoli al momento dell’Ascensione del Signore.

 

Detto questo Gesù incominciò a salire in alto, mentre gli apostoli stavano a guardare. Poi venne una nube, ed essi non lo videro più. Mentre avevano ancora gli occhi fissi verso il cielo, dove Gesù era salito, due uomini, vestiti di bianco, si avvicinarono loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché ve ne state lì a guardare il cielo? Questo Gesù che vi ha lasciato per salire in cielo, ritornerà come lo avete visto partire».

[dagli Atti degli apostoli, capitolo 1, versetti da 12 a 14 - At 1, 12-14 - Versione TILC]

 

o come nella grandiosa visione dell’Apocalisse:

 

 Allora io vidi un nuovo cielo e una nuova terra, — il primo cielo e la prima terra erano spariti, e il mare non c’era più, — e vidi venire dal cielo, da parte di Dio, la santa città, la nuova Gerusalemme, ornata come una sposa pronta per andare incontro allo sposo. Una voce forte che veniva dal trono esclamò: «Ecco l’abitazione di Dio fra gli uomini; essi saranno suo popolo ed egli sarà Dio con loro. Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non ci sarà più né lutto né pianto né dolore. Il mondo di prima è scomparso per sempre».

[dal libro dell’Apocalisse, capitolo 21, versetti da 1 a 4 - Ap 21, 1-4- Versione TILC]

 

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli