Scheda di lettura - ANNI Gioele,
LANCELLOTTI Roberta (a cura di), Serve
ancora la politica - Dieci interviste di protagonisti d’oggi - introduzione
di Marco Damilano, Ave, 2020 - parte settima - mie considerazioni.
14. Mie considerazioni.
Nel libro ci vengono presentate
prevalentemente esperienze di amministratori.
Quando si mettono al lavoro gli amministratori, la politica ha fatto già la sua
parte.
L’amministratore è una persona alla quale la politica assegna
un potere pubblico e una missione. Se l’amministratore è una persona di cuore,
può umanizzare l’esercizio del suo potere. Negli ambienti religiosi ci si
accontenta prevalentemente di questo. Del resto è proprio così che funziona l’organizzazione
della nostra Chiesa: quel modo di pensare ci è, e le è, quindi familiare. Plaudiamo quindi all’amministratore
perché ci pare buono, così come
parliamo di un Papa buono.
Sono maggiormente espressione della politica le
esperienze fatte nei consigli degli enti locali e quelle parlamentari. E
tuttavia gli intervistati non ce ne hanno parlato nel dettaglio: è prevalsa la
narrazione biografica.
Michele Nicoletti è andato oltre, parlando della
sua esperienza di elaborazione politica in FUCI.
Politica
è quando si riesce ad aver voce nel governo della società e questo, nelle società molto
complesse dei tempi nostri, richiede la progettazione e attuazione di un sistema. Ci sono tre modi di aver voce
nel governo di una società: con la forza, con la transazione, quando non si ha
la forza per prevalere da soli, con la persuasione. Ogni sistema di potere,
anche quelli autocratici, assolutistici o totalitari, sfrutta quelle tre modalità. Nei sistemi
democratici si fissano dei limiti all’esercizio della forza e alla possibilità
di stipulare transazioni e il limite più importante è quello della dignità delle persone umane, poi vengono
quello della temporaneità del potere delle singole persone, quello della
competenza settoriale, nel senso che
nessun potere deve essere universale,
ma deve trovare bilanciamento in altri poteri pari o sovraordinati, quello
della libertà di critica di ogni
potere e, infine, quello delle procedure mediante le quali ogni persona possa incidere
sull’attribuzione dei poteri pubblici specificamente politici, vale a dire
quelli ai quali compete il governo di una società.
Per la
presenza di un vertice formalmente autocratico, assolutistico e totalitario, non
criticabile e in nessun modo espresso dalla base dei fedeli, collegato con vincoli feudali ai livelli
immediatamente inferiori i quali governano mediante burocrazie, l’organizzazione
della nostra Chiesa non può essere definita democratica, seppure a diversi
livelli, specialmente nell’associazionismo laicale sia dall’Ottocento pervasa da
processi democratici. E’ appunto in
quest’ultima dimensione che si può fare scuola
di politica democratica, intesa come l’insegnarla, l’impararla e il farne
tirocinio. Ma si fa anche esperienza di politica non democratica. I vertici del clero preferiscono quest’ultima, e
questo spiega le resistenze che l’attuale Papa incontra nell’indurre processi
sinodali, che in sé non sono democratici ma che possono comprendere sviluppi
democratici. I vertici del clero diffidano dei processi democratici perché
diffidano del popolo per varie ragioni, in primo luogo per la sua insufficiente
acculturazione sui temi di fede, poi perché temono che, se in un popolo
chiamato a una maggiore corresponsabilità nelle questioni di governo,
prendessero piede i metodi torbidi di cui si narra nei ciclici scandali che
coinvolgono il governo ecclesiastico, il gregge finirebbe per disperdersi.
L’esperienza in un’organizzazione di
universitari come la FUCI è storicamente servita per fare tirocinio di
politica. Anzi la classe politica di estrazione cattolica che collaborò in
misura determinante a scrivere la Costituzione vigente venne in gran parte da
lì. Sono state espressioni di quella scuola la stesura dello statuto di uno dei
maggiori partiti politici italiani e la riforma costituzionale respinta nel referendum
popolare celebrato nel 2016.
Ma sarebbe auspicabile l’estensione di quel
tipo di scuola anche in altre realtà, in particolare nelle parrocchie. La base
di un tirocinio politico democratico non è la scuola di buoni sentimenti, ma l’attribuzione
reale a una collettività di una qualche competenza e
l’istituzione di procedure per formare delle deliberazioni collettive. Dato
queste possibilità, si può poi sviluppare la politica, intesa come confronto di
forze, tentativi di transazione, sforzi di persuasione, in un contesto che sia
caratterizzato da tutti i limiti democratici di cui ho scritto sopra. A
distanza di tempo dovrebbe riflettersi su questa esperienza in una procedura di
tipo sinodale che coinvolga nel dialogo gli altri poteri
pubblici.
Un buon inizio sarebbe già quello di istituire
una scuola di politica in cui i partecipanti non siano
confinati solo nel ruolo di discenti.
Concludo dicendo che il principale problema
politico di oggi è quello di organizzare una buona politica e per questo non è sufficiente formare politici buoni. Un politico buono potrebbe non
essere in grado di fare una buona
politica e, in particolare, un politica democratica.
Spesso è questo il problema dei preti con responsabilità di governo. E questo
nonostante in passato diversi preti siano stati ottimi politici in Italia e cito per tutti Luigi Sturzo. Ma anche l’idea
di una democrazia cristiana ebbe tra i suoi principali teorici un prete,
Romolo Murri.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma,
Monte Sacro, Valli.