Politica di pace e diritto
In una concezione
ingenua, la pace è frutto dei buoni sentimenti. E’ invece un risultato politico
e, in particolare, di un lavoro di tessitura
sociale che si esprime in un sistema giuridico.
Si può essere
animati da buoni sentimenti, il che di solito ci accade in modo discontinuo, ad
esempio durante la messa quando non siamo infastiditi, annoiati o distratti o
nel tempo di ascoltare una bella canzone, ma quando proviamo interesse, o
addirittura necessità, di qualcosa o di qualcuno troviamo sempre buone ragioni
per superarli. Accade anche tra le nazioni. Parte del loro governo si svolge
nel quadro di uno stato di eccezione
in cui i buoni sentimenti vengono tacitati. E’ così che si iniziano le guerre
ed altri tipi di conflitti.
La costruzione del
diritto è un forma di tessitura sociale
e ai tempi nostri è diventata un’attività molto complessa che regola il mondo
intero. Il diritto globale ci è familiare perché lo si è formulato
secondo concezioni che si sono sviluppate tra europei, noi. Da metà Ottocento fino a qualche decennio fa
gli europei, e i popoli frutto della loro colonizzazione, sono stati i padroni
del mondo. Ora la situazione sta velocemente cambiando, ma la cultura
giuridica, che regola anche le relazioni economiche, è ancora di derivazione europea.
Il diritto non è
creato solo e prevalentemente dagli stati, altrimenti non ne sarebbe possibile
uno globale, ma è una produzione sociale. Questo risulta molto
chiaro in quella parte del diritto che regola i contratti, gli accordi che si
prendono per gli scambi e la produzione. Le possibilità della tecnologia e i
loro riflessi sull’economia sono molto importanti per la creazione di nuovo
diritto. La produzione del diritto è un
fatto collettivo, a cui partecipano tutti quelli che hanno relazioni sociali,
che siano persone fisiche o organizzazioni. In un futuro prossimo, che si sta
velocemente avvicinando, vi parteciperanno anche sistemi di intelligenza
artificiale capaci di autodeterminarsi.
Di solito il diritto
cristallizza e formalizza posizioni di forza al termine di fasi di mutamento
sociale, ad esempio di un conflitto. Si sa che, seguendo certe linee di
condotta, non si avranno guai con gli altri e si possono conseguire più
facilmente certi risultati. Sullo sfondo
c’è sempre il timore di subire ritorsioni violente nel caso che non le si
segua.
Ad esempio: c’è un
supermercato con delle merci che servono per la vita quotidiana. Ci si può
andare e comprare, vale a dire scambiando moneta con merce secondo il prezzo
praticato da chi gestisce l’esercizio o lo si può rapinare. In entrambi i casi
si ottiene quello che serve, ma nel secondo bisogna mettere in conto una
reazione che non è solo del rapinato, ma sociale. Questo perché il sistema
giuridico che regola la nostra società l’ha
organizzata, nel caso di rapine. A volte accade che un campo nomadi venga
sgomberato con la forza pubblica e, allora, arrivano le ruspe e distruggono le
case di chi ci abita e le macerie vengono portate in discarica. Un’azione così
ha alcuni connotati della rapina ma non viene punita come tale. Però la nostra
Repubblica, per azioni simili, è stata sanzionata a livello internazionale,
dove la Convenzione europea per i diritti umani
ha creato un sistema giuridico per reprimerle.
Quando pensiamo ad
una riforma sociale, se non vogliamo rimanere sul piano dei buoni sentimenti,
dobbiamo occuparci di costruire un nuovo diritto e questo comporta, non va
dimenticato, anche stabilire nuovi rapporti di forza e quindi rischiare il
conflitto. Lo ripeto: di solito il diritto cristallizza e formalizza posizioni
di forza al termine di fasi di mutamento sociale, ad esempio di un conflitto.
Questo significa che per costruire la pace bisogna anche imparare a gestire i
conflitti per risolverli in situazioni di pace, e quindi, necessariamente,
anche combatterli. Nel secolo scorso però si è teorizzata e praticata la
strategia di combattimento della nonviolenza.
Essa non va confusa con i semplici buoni sentimenti, perché è una forma di lotta. Si
basa sul principio di non collaborazione con l’ingiustizia sociale e si
presenta come una forma di resistenza.
Se non si vuole
lottare, perché non se ne ha l’animo o
la forza o non si sa come farlo, si soccombe. Lasciarsi travolgere dal male non
è considerato etico, sebbene consenta di non subire danni da reazione o ritorsione. Rimanere passivi di
fronte alla forza prevaricatrice, quella che vuole prevalere arbitrariamente,
schiacciando chi resiste per rapinarlo, significa lasciare campo al male
sociale.
Quale atteggiamento
ci insegna la nostra fede? Essa si è storicamente affermata dal Quarto secolo
seguendo le guerre di conquista degli europei, quindi con quantità molto
intense di violenza, in particolare nel Secondo millennio. Questa perché la
nostra Chiesa, in particolare dal Secondo millennio, si è data un’organizzazione simile a quella delle altre potenze, e ne
vediamo un simulacro nella Città del Vaticano, che ha anche un piccolo
esercito, oltre ad una polizia, giudici e via dicendo. Ma che ci dice il
vangelo? La piccola comunità riunita intorno al Maestro non fu permeata, almeno
fino al tradimento dell’apostolo Giuda, da violenza, da veri e propri conflitti
e quindi non appare aver prodotto un proprio diritto. E tuttavia qualche
contrasto al suo interno già si intravede nelle narrazioni evangeliche. Vi si
insegnava però anche a non resistere al male con la violenza e la via della
misericordia. Ma nemmeno a non resistere al male. Il Maestro diede l'esempio. Dopo la morte del Maestro, tuttavia, si seguirono altre strade, e le
prime comunità ci appaiono già piuttosto turbolente, come già si narra negli Atti
degli apostoli. Le nostre attuali comunità ci appaiono più simili a quelle.
Di solito si dice che
il Maestro insegnò la via dell’amore,
ma questa parola in italiano non rende bene il termine del greco antico agàpe che traduce l’espressione da lui usata,
verosimilmente nella lingua semitica che gli era abituale. L’agàpe è costruzione sociale di una collettività
solidale e misericordiosa. La sua caratteristica principale per come è
presentata nelle narrazioni evangeliche è di andare oltre il diritto, di non accontentarsi di esso.
Questo rende assai dinamiche le comunità che vogliono ispirarsi ai valori
evangelici, perché non sono mai soddisfatte dell’agàpe raggiunta e formalizzata
in un certo diritto. Ogni giorno è un nuovo inizio, perché, come scriveva il
filosofo Aldo Capitini, ieri eravamo
violenti. Dinamiche, sì, quelle comunità, ma, in un certo modo, anche instabili, perché aperte a sempre nuove
prospettive di riforma nel senso della misericordia. Del resto il diritto, come
la sapienza giuridica ha scoperto già nell’antichità, evolve seguendo le
società di riferimento, perché è una produzione sociale, e quindi il problema è
che diritto e società evolvano in senso virtuoso, risolvendo i conflitti che
quell’evoluzione genera.
Questi processi
governano i moti sociali su scala globale, li osserviamo nelle relazioni
internazionali, ma se ne può fare esperienza anche in un piccolo gruppo di
prossimità e, in particolare, in una parrocchia, che non proprio una società piccola,
quando come da noi, riguarda la vita di migliaia di persone. Questo significa
che, acquisendo consapevolezza dell’importanza della formazione alla politica
anche come parte della formazione religiosa, di quelle dinamiche si può fare
tirocinio anche in quell’ambito, acquisendo via via l’esperienza che serve per
praticare politiche virtuose su scala maggiore. Questo comporta anche far
pratica, concordandoli con azione politica, di scrittura di statuti e regolamenti e poi di
approvarli con procedure formali democraticamente ordinate, infine di provare
ad attuarli, perché non rimangano, come si dice, lettera morta. Che non ci accada mai che lo diventino i Vangeli!
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.