Mito e passato
Il mito, si è detto,
è una narrazione sulle origini e sul
destino. Le scienze contemporanee ci danno un’idea ormai piuttosto attendibile
delle nostre origini, come individui, collettività e anche come specie, e della nostra fine personale, ma,
naturalmente, non del destino,
perché, da un punto di vista scientifico, non ha senso parlare di un destino.
L’idea di destino è infatti un elemento culturale, ma non scientifico: il destino è il senso degli eventi che
riguardano l’umanità e, in particolare, la storia, quindi la narrazione di
quegli eventi secondo il senso che attribuiamo loro. Uno dei modi di
parlarne è questo: la natura è determinata da un disegno intelligente. Un altro modo di parlarne è: alla fine della
storia ci scenderà dall’alto una città veramente nuova dove i giusti vivranno
in pace, liberi dai terrori in mezzo ai quali di solito ci capita di trovarci,
ogni lacrima sarà asciugata e la morte non ci sarà più. Di solito, invece, alla
luce delle scienze, in noi e in ciò che ci circonda non c’è il senso che cerchiamo per tirare avanti. In una visione realistica
del mondo esso è privo del senso che ci serve. Il senso ha a che fare con la motivazione dell’agire umano e
quest’ultima si è fatta complessa perché lo sono la nostra mente e le società
che impersoniamo. Il mito serve a semplificare le cose, ad illuderci di vedere chiaro
senza tanto approfondire. L’idea di destino che ci serve deve avere carattere
mitico, o non funziona: deve essere mito perché deve dare senso, a tutti e a tutto e deve avere la parvenza del definitivo, unificando passato, presente
e futuro, fin dalle origini e fino, appunto, ad un destino. Questo è
particolarmente vero nei miti sul popolo: essi per essere veramente miti devono anche avere narrazioni sugli
avi. Per capire chi siamo e il senso
della nostra vita ci sentiamo di indagare il passato dei progenitori, che
però, appunto per il carattere mitico delle narrazioni su di esso, non è
veramente un passato, ma un neo-passato, un passato sognato. Non discendiamo forse dagli
avi? Sembra normale interrogarsi su di loro per capire chi siamo e a che siamo
destinati.
Un esempio di mito sul popolo è quello del primo uomo e della prima donna. Sappiamo
come siamo stati generati e come si fa a generare. Considerando un coppia vediamo che la generazione
produce la moltiplicazione dei discendenti. Si va dai meno ai più, quindi.
Estrapolando nel passato questa dinamica sembra credibile arrivare, appunto, al primo uomo e alla prima donna. Questo
spiega le somiglianze evidenti tra gli esseri umani e induce a pensarli come parenti, perché hanno avi comuni. L’idea
di una fraternità universale si fonda
su idee simili. E certamente anche le scienze naturali ci confermano che discendiamo da avi comuni. Però nel nostro lontano passato
comune, comune a tutta l’umanità, non ci furono mai il primo uomo e la prima donna, ma popolazioni umane e poi,
andando a ritroso nel tempo di oltre
cinquantamila anni circa, popolazioni meno umane e, risalendo ancora nel tempo,
popolazioni non umane, e questo spiega le somiglianze tra noi e con gli altri
primati, con i mammiferi in genere, ma poi con moltissimi altri viventi. Però
pensare una micro-umanità delle origini fatta solo dei progenitori
ci è utile per riuscire a pensarci come
una sola famiglia, dove invece la moltitudine degli umani sfugge ai nostri
limiti cognitivi che ci relegano in scenari di poche decine di individui alla
volta, quelli con i quali la nostra mente, appunto per limiti biologici di
specie, può instaurare relazioni profonde, e capire che c’è che non va, i
problema che abbiamo con il male e la malvagità. Bisogna dire che, tuttavia, immaginare un primo uomo e ad una prima donna come progenitori di tutta l'umanità, se aiuta nel capire le somiglianze tra gli esseri umani, non funziona altrettanto bene nell'accettare le diversità tra di loro, che si finisce per ritenere imperfezioni o addirittura malvagità, mentre l'evoluzione biologica, partendo da un sostrato comune, ci ha fatti anche diversi e ancor più la diversità è stata determinata sotto il profilo delle culture, quindi dei costumi e delle lingue ad esempio.
Un altro mito
è quello del resto. La
malvagità viene punita, i malvagi scompaiono
e rimane solo un resto fedele, dal quale originerà una nuova umanità,
migliore. Nella realtà non accade mai così. Il giusto e l’ingiusto soccombono
insieme e che sopravviva qualcuno dipende dall’intensità della violenza che si
abbatte su una certa società. Ma, se uno si pensa come parte di quel resto, allora in un certo senso può
essere consolato del male che vive in società per la prospettiva che esso finirà
insieme ai malvagi. Nella Bibbia troviamo molti racconti del genere. Parlano di
fare pulizia mediante stragi immani. Non sono stati,
tuttavia, costruiti per insegnare l’ingegneria
sociale mediante sterminio, ma per convincere che nessuna società
sopravvive se i malvagi prevalgono, e questo certamente corrisponde all’esperienza
di sempre. Il destino di una società preda dei malvagi è la rovina.
Quel mito ci è utile per chiarirci le idee su questo punto. Bisogna considerare
che, però, ne può essere data una lettura diversa, a seconda del destino a cui
si mira, e questo spiega perché i razzisti del Ku Klux Klan statunitense
allestiscono croci infuocate nei loro raduni. E certo estremismo che si vede
nella politica israeliana di oggi dipende culturalmente da una lettura
particolare di quel mito, una lettura violenta. Su analoghe letture si basarono
le guerre di religione e i sistemi di polizia politica allestiti in Europa
dalle cosiddette Inquisizioni religiose. L’idea era sempre quella di fare pulizia eradicando i malvagi, individuati di volta in
volta in altri gruppi etnici, in gruppi di altre fedi, nei dissenzienti ecc. Anche
l’ideologia del fascismo mussoliniano di rigenerazione
del popolo mediante la guerra dipende da visioni simili e così il razzismo
antiebraico hitleriano. Ma ora abbiamo capito, ed è stata una importante
conquista culturale, che la felicità di una società dipende dalla sua capacità di
mantenere in vita il giusto e l’ingiusto cercando di persuadere il secondo a
lasciare l’ingiustizia senza sterminarlo se resiste. È la nuova ideologia democratica dei diritti umani fondamentali, che abbiamo sviluppato anche su base biblica, ma che ai tempi biblici non era assolutamente praticata e neppure pensata, almeno come forma di organizzazione sociale. Nella "Gerusalemme celeste" dell'Apocalisse entrano solo i buoni. Le società peró non sono fatte solo per i buoni, depurandole per sterminio, e se si cerca
di farle solo di buoni con quel metodo diventano incubi collettivi.
Ogni mito, quindi, va maneggiato con cura e prudenza, e inoltre richiede un adattamento culturale che segua l'evoluzione delle società di riferimento, salvo che se ne voglia fare un motivo per giustificare i conflitti. L'interpretazione delle Scritture è servita sostanzialmente a questo.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli