Noi, il corpo e il male
Affronto il tema dell’incontro
in Meet di oggi dal punto di vista esperienziale, senza scrupoli dogmatici.
Trattando di corpo e di abbracci
il Progetto formativo di AC “A corpo a corpo” in questa tappa ci
invita a concentrarci sulla resistenza al male fisico, proponendo il brano del Vangelo secondo Marco
tratto dal capitolo 15, versetti da 21 a 37, sintetizzato come “Gesù sulla croce”. Quindi l’abbraccio viene proposto essenzialmente come
consolazione interpersonale, aggiungendo il motto “Il corpo è dono”.
“Il corpo è dono” o “Noi siamo (anche) il nostro corpo”? Il
sofferente di solito fa esperienza di quest’ultima massima.
Naturalmente non esiste solo il male fisico, ma anche quello morale e
quello sociale. E il male fisico ha due aspetti: quello del sofferente e quello
di chi è legato al sofferente da relazioni che implicano l’obbligo sociale di
cura. Secondo le narrazioni neotestamentarie, il Maestro subì e sperimentò il
male in tutte queste forme, nel corso di una sua azione sociale con motivazioni
religiose per promuovere ciò che con termine del greco antico venne definito agàpe.
Ecco come il teologo
biblico Gerhard Lohfink, nella raccolta di scritti pubblicata sotto il titolo Il Padre nostro. Una nuova spiegazione,
Queriniana 2009, €9,50, anche in e-book ad €6,00, definisce l’agàpe:
Gesù conduce una
vita itinerante instabile attraverso Israele. E’ sempre in cammino per poter
proclamare dappertutto l’inizio del regno di Dio, accompagnato dai Dodici e da
un più largo gruppo di discepoli. La “sequela”
ha quindi inizialmente un
significato letterale consiste nel muoversi con Gesù attraverso Israele, senza
sapere il più delle volte dove si pernotterà la sera.
[…]
Esistono altri che
non si muovono con Gesù attraverso il paese e che pure sono molto importanti
per la sua predicazione, esistono cioè i sostenitori di Gesù legati ai posti: persone
da lui guarite, amici, promotori, simpatizzanti, nonché tutti coloro che
possiamo denominare in un senso buono persone curiose. Il nuovo, cui Gesù ha
dato vita in Israele, ha bisogno di simili seguaci sedentari. Ha bisogno di
simili amici e cooperatori, perché Gesù e i suoi discepoli girano
volontariamente il paese senza mezzi e indifesi.
[…]
Hanno bisogno di persone che diano
loro da mangiare e procurino loro un riparo per la notte.
[…]
Nell’Israele,
che Gesù intende radunare e porre sotto la sovranità di Dio, non ci deve essere
alcuna violenza e alcun guerriero di Dio. L’Israele escatologico deve essere un
luogo di pace. Perciò i discepoli, quando proclamano il regno di Dio, non
devono avere con sé provviste e armi. Gesù vieta espressamente loro anche un
bastone, con cui potrebbero difendersi. Essi non devono portare neppure i
sandali per poter eventualmente fuggire su un terreno ghiaioso. Pure in questo
modo essi dimostrano la loro impossibilità di difendersi.
[…]
A ciò si aggiunge dell’altro: i discepoli
hanno abbandonato tutto - la loro casa, la famiglia, la professione. E con la
famiglia, che era un’autentica grande entità, hanno abbandonato anche il padre
che pianificava e provvedeva per essa. […] Ma coloro che l’hanno abbandonata non hanno più in questo senso alcun
padre, per cui Gesù insegna a essi nel Padre nostro a invocare Dio come loro “Abbà”,
come il loro padre amoroso e pieno di premure.
[…]
La
fiducia in dio come nel reale loro nuovo “Abbà” poggia su un terreno reale. I
discepoli di Gesù possono contare sul fatto che alla sera, quando hanno bisogno
di un tetto sopra il capo, troveranno sempre case pronte ad accoglierli.
Essi vivono
realmente in seno a una “nuova famiglia”.
[…]
“A ciascun giorno basta la sua pena” (Mc 6,34) […] questa
orma di noncuranza non ha niente a che fare con un comportamento miope e
ingenuamente irrealistico, fatto di fuga dal mondo. E, precisamente, perché non
solo esiste il gruppo dei discepoli, bensì perché esistono, sparsi per il
paese, simpatizzanti pronti a mettere a disposizione le loro case. I discepoli
di Gesù non sono soli. Hanno amici. Possono contare su molti altri nel paese.
[…]
La
richiesta del pane del Padre nostro è pertanto tutt’altro che una domanda
inoffensiva. Essa non chiede che sia garantita una sazietà borghese, non
domanda neppure “il pane per il mondo”. In essa i seguaci chiedono di avere
giornalmente il minimo necessario, che
fornisce loro sufficiente energia e
permette loro di dedicarsi alla predicazione.
Indirettamente in
questa domanda si tratta quindi di una nuova forma di società, di una nuova
famiglia, in cui tutti si aiutano a vicenda per rendere possibile la
predicazione del regno di Dio. Le comunità postpasquali denominarono questa
nuova forma di solidarietà “agàpe”. Il termine “agàpe” significa che ciascuno pensa a partire dall’altro,
che ciascuno cerca di scoprire quello di cui l’altro ha bisogno e di aiutarlo
in maniera corrispondente. Il fine di questa convivenza nell’agàpe è quello di
rendere possibile il lavoro apostolico: permettere alla comunità di Gesù di
predicare il vangelo attraverso i suoi messaggeri”.
[…]
Neppure la domanda apparentemente così ovvia
del pane quotidiano è inoffensiva. Essa presuppone infatti che si voglia la
nuova famiglia di Gesù, che si voglia la
convivenza quotidiana di molti fratelli e sorelle e l’impegno reso così
possibile per il vangelo.
[…]
la precisa questione della forma e
della situazione storica di un testo biblico non è un lusso, ma aiuta piuttosto
a comprendere meglio il testo. Solo dopo possiamo poi trasporlo nella nostra situazione.
Solo dopo possiamo domandarci: viviamo questo testo e quanto vuole dirci?
Questa
precisazione è molto importante, perché, solo
in quella prospettiva la nostra fede è un fattore di resistenza al male, non
invece come risorsa per così dire individuale,
centrata sulla psicologia personale.
Anzi, di solito nelle esperienze che vengono definite estreme, perché profondamente destabilizzanti, sotto
quel profilo la fede potrebbe risultare addirittura controproducente. La
persona religiosa, di solito, all’inizio cerca di rimanere coerente con l’inquadramento
dottrinale che ha ricevuto, ma spesso scopre che le è penoso, e comunque
inutile. In quel tipo di situazione è meglio liberarsi di ciò che è
controproducente, ad esempio dell’onere di spiegare agli altri il senso di ciò che ci accade e quindi poi di giustificare dal punto di vista religioso
la propria sofferenza, sotto il profilo esclusivamente personale, individuale.
L’abbraccio, nelle sue dimensioni di cura, amore e amicizia, è il
gesto che sana effettivamente il male in tutte le sue conseguenze, liberando in particolare da quella prospettiva individuale
in cui di solito il male confina chi
colpisce, per la quale il sofferente si percepisce prigioniero del male che l'affligge. E’ il miracolo della consolazione che assolutamente non può
prodursi, mai, con le sole proprie risorse personali, ma richiede gesti altrui,
anche solo immaginati. Nel consolare, chi
consola dà alla persona consolata qualcosa che non potrebbe produrre da solo e a vantaggio proprio. Sembra quindi che si dia più di quello che si possiede.
Una lettura suggestiva che esemplifica ciò che intendo è questa:
dal romanzo "Il seme
sotto la neve" di Ignazio Silone (1900-1978)
Lungo il corso abitano i proprietari gl'impiegati gli
artigiani; nei vicoli laterali i cafoni. A metà del corso c'è un'immensa
chiesa, forse del tre o quattrocento, ma visibilmente restaurata ingrandita
abbruttita da ogni successiva generazione di credenti ... Faustina prende
Pietro per un braccio e l'allontana in fretta infilando il primo vicolo che
capita. E' meno un vicolo che un seguito di pozzanghere; a destra e a sinistra
sono casupole fetide, mura imputridite, tuguri piccoli neri che sembrano
immondezzai, sulla porta donne come oscure larve. S'incontra poca gente, qualche
cafone curvo silenzioso, facce ispide ossute, col passo lento dei contadini
d'inverno, passo di letargo, gente pallida triste ostile. Sembrano profughi,
eppure da migliaia d'anni abitano questa collina, sono essi che hanno edificato
la chiesa i palazzi patrizi del corso.
"E' il ghetto dei cristiani" spiega
Pietro per rassicurare Faustina inorridita "però non temere è gente
rassegnata".
Sulla soglia d'una casuccia una madre asciuga
le lagrime della figlia e ripete "Non piangere, cara, a che serve
piangere?". La madre stessa però piange, e nessuno le asciuga le lagrime,
nessuno le dice di non piangere...
Questo rende poi l’idea del senso del volontariato, un’esperienza che in Occidente è divenuta di massa, da quando le masse hanno
conquistato un tempo sufficiente libero dal lavoro, mentre in precedenza era
esperienza prevalentemente borghese. E’ dall’Ottocento che si è manifestata. In
precedenza in Occidente si viveva come esperienza di solidarietà popolare
quella delle confraternite, che però erano altra cosa. Il volontariato
viene vissuto come seme di una diversa società e la prefigura, la rende
effettivamente visibile nel suo principiare. Anche l’esperienza ecclesiale è
qualcosa di analogo.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli