Ripubblico
Riflessioni sulla base della
lettura del libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., collana Le
Tessere e il Mosaico, 2011, euro 8,00, pagine 131, con prefazione di
Giorgio Campanini (si tratta
del testo di un intervento che Dossetti, ormai prete e monaco dopo essere stato
molti anni prima professore universitario e politico, fece il 1 ottobre 1987
durante il Congresso eucaristico della diocesi di Bologna).
Riunisco qui alcune riflessioni che ho pubblicato sparse nel 2012 dopo
la lettura del testo di Giuseppe Dossetti.
1. Non posso vivere la mia fede
nell’interiorità, nella relazione che ho saputo costruire con il
soprannaturale, secondo la mia personale concezione? Anche così poi posso
manifestare con la mia vita la fede nell’ambiente in cui vivo e opero.
Da universitario ho partecipato
alle settimane di riflessione che la FUCI – l’organizzazione degli universitari
cattolici – svolgeva ogni anno a Camaldoli, sede di un celebre monastero di
monaci di una congregazione appartenente alla famiglia benedettina. Lì c’erano
alcuni monaci che conducevano vita eremitica da decenni, vivevano da soli nelle
loro casette in cima a un monte e si ritrovavano insieme di quando in quando di
giorno e nella notte solo per la vita liturgica. Erano persone di fede,
indubbiamente, e vivevano la loro religiosità in quel modo. Bisogna dire però
che si sentivano e volevano essere in unione spirituale con la Chiesa e
l’intera umanità. Il loro isolamento era quindi solo esteriore.
La fede cristiana in realtà ci
spinge gli uni verso gli altri. Questo movimento emerge chiaramente negli
scritti del Nuovo Testamento. In un libretto di Giuseppe Dossetti che ho
utilizzato nelle vacanze per le mia meditazione personale (Giuseppe Dossetti, Eucarestia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8) ho trovato questa citazione da un’opera di San
Basilio, una preghiera:
…noi
tutti che partecipiamo all’unico pane e all’unico calice, unisci fra noi nella
comunione dell’unico Spirito Santo”.
Essa richiama le parole di S.
Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 10,17):
Vi è
un solo pane e quindi formiamo un solo corpo, anche se siamo molti, perché
tutti insieme mangiamo dell’unico pane (trad.interconfess. Elle Di Ci / Alleanza Biblica interconfes. 1976).
Al tempo del precedente
parroco, In parrocchia, prima della Comunione, recitavamo una preghiera
formulata su quelle parole:
Poiché c’è un solo pane per noi tutti, uno
solo è il corpo formato da noi che partecipiamo
al pane unico.
Insomma, mi pare di aver capito
che questa spinta a stare insieme abbia un fondamento teologico e non sia
qualcosa di accidentale ed episodico. Essa ha coinvolto anche me, che per
temperamento non sono particolarmente socievole. Mi sono sempre sentito
arricchito dalle esperienze di fede vissute con gli altri.
In un libro dello psicoterapeuta
Bruno Bettelheim pubblicato nel 1967 ho letto questa osservazione che ho
sentito convalidare la mia esperienza di vita:
La
vita interiore, e con essa la personalità, non si sviluppa allo scopo di ottenere
una sempre maggiore ricchezza di sensazioni e di esperienze interne, ma
sostanzialmente per un’altra ragione: per entrare in rapporto con il mondo
esterno nella speranza di poter agire su di esso. Se la personalità non arriva
a questo, non vi è alcuna ragione di sviluppare le strutture interne.
Esattamente come il linguaggio si sviluppa solo se desideriamo comunicare con
qualcuno o comprendere quello che egli ci dice, così la personalità si
struttura solo se desideriamo fare qualcosa a un’altra persona o con essa o per essa.
[da Bruno Bettelheim, La fortezza vuota, Garzanti editore spa, 1976, pag.64].
Gli studi scientifici di
Bettelheim, in particolare quelli sull’autismo, oggi sono generalmente ritenuti
superati da più recenti acquisizioni e scoperte, ma la sua esperienza umana,
prima di recluso in un campo di
concentramento nazista e poi di medico nel campo della terapia per i bambini
autistici, rimane importante e, per
molti aspetti della vita, illuminante. Tra ciò che si muove dentro di noi e ciò che si muove e che facciamo fuori di noi c’è un continuo e vitale
rimando.
Ma, come ho osservato prima, non
è detto che questo movimento verso gli altri si debba esprimere necessariamente
nell’aderire a un movimento, ad una associazione, ad una fraternità. Esso può
manifestarsi in altre forme, sebbene si ritenga che in qualche modo debba
essere presente, anche, ad esempio, in quelle spiritualità eremitiche di cui ho
detto.
Molte volte una fede religiosa è
produttiva e non si risolve solo nell’interiorità, quella cristiana stimola poi
alla generosità: ognuno sente quindi, ad un certo punto, di avere qualcosa in
sé che può essere non scambiato ma dato gratuitamente ad altri.
A volte si concepisce, un po’
superficialmente, la Chiesa come una dispensatrice di beni spirituali, uno “ci
entra” (nella Chiesa intesa come popolo)
o “ci va” (nella chiesa intesa come edificio)
e prende. A volte c’è anche l’idea di una sorta di scambio: vado a Messa e
deposito la mia offerta nell’apposito contenitore che gira al tempo
dell’Offertorio, poi partecipo alla mensa comune.
Ecco, riunendoci insieme
potremmo ad esempio riflettere se quell’impressione sia corretta e completa.
Non credete che ci sia ancora qualcosa da imparare?
Anticipo la mia opinione. Nell’esperienza
religiosa siamo tutti noi, gente di fede, dispensatori, perché è come se quello che ci arriva poi rifluisca
intorno e verso gli altri, al modo di un irraggiamento. Quindi nella Chiesa non si va solo per ricevere, ma
anche per dare, per portare qualcosa, che è importante per gli altri e li
conforta nella loro fede. Un teologo lo saprebbe dire meglio. Chi vuole può
approfondire o chiedere spiegazioni. In parrocchia può farlo. Ci sono i
sacerdoti e catechisti per ogni età della vita. Abbiamo anche una biblioteca
piuttosto fornita (aperta lunedì e mercoledì, ore 16-18). Ne può discutere
anche in Azione Cattolica, nel nostro gruppo, che è sostenuto dal prezioso
apporto dell’assistente ecclesiastico.
Nell’Azione Cattolica, che è
un’associazione che si propone di
diffondere e promuovere valori
cristiani nella società civile, è importante l’esperienza di vita degli
aderenti. E’ questo il materiale prezioso che chi ci viene porta. Non si
aderisce infatti per ricevere dall’alto le soluzioni ai vari problemi e direttive
su che cosa fare fuori, o peggio (solo) moniti e rimbrotti su ciò che è male,
come se ci fossero “istruzioni” precise per ogni situazione, ma per riflettere
insieme, alla luce della comune esperienza civile e religiosa, su ciò che accade e per illuminare vie
praticabili, che poi ognuno proverà a percorrere lì dove concretamente opera,
tornando a riferire ciò che gli è riuscito di fare e di scoprire. In una poesia
che ho trascritto in uno dei passati post,
padre David Turoldo scrisse:
Ancora un'alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
Effettivamente il futuro è nostra particolare
e attuale responsabilità, ci avventuriamo in esso al modo di esploratori.
2. Non possiamo ragionevolmente confidare del
tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che possiamo produrre
nella società. La storia ci insegna che il progredire dei tempi non significa
sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile che si torni
indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene consigliato di
prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra speranza non sta in
noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve inculcare
al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo la misura dei doni ricevuti e le opportunità
pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva il nostro
atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe
essere più che altro quello di una pervicace
e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda
sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non
siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di
questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le
potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a
quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di
aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di
influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto
limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica
globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle
cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini
umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una
interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno
provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato,
quindi compreso con precisione, va
piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del
teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende buona la vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare
tutto il suo presente ed avere
gioia non solo nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La speranza religiosa vive
nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli
insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei successi, che
pure sa essere sempre minacciati e
caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla
fine della storia.
Proporre alla gente intorno a
noi e a noi stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza
valida (così Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene
all’Azione Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare
a svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e
convinzioni. In quest’ottica il profano,
ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una
valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di
rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.
3. L’Azione Cattolica non avrebbe senso in una
società in cui non fosse consentita, in qualche forma, la partecipazione della
gente agli affari pubblici. E infatti, nel periodo più buio della sua storia,
quello che va del 1931 al 1938, essa, in fondo, diventò un’altra cosa. Nel 1931
le sue sedi vennero attaccate dalle squadre che costituivano il braccio
operativo del fascismo trionfante, nel 1938 iniziò la presa di distanza dei
cattolici italiani dal regime, a causa dell’introduzione della legislazione
discriminatoria contro gli ebrei. Negli anni di mezzo essa può essere
considerata, lo dico un po’ schematicamente e certo vi furono diverse eccezioni
(ad esempio la FUCI e Movimento Laureati
di Azione Cattolica), una delle
organizzazioni popolari di massa che sostenevano il regime fascista, il quale
con i Patti Lateranensi del 1929 aveva raggiunto un accomodamento con i vertici
ecclesiali. Del resto, in quell’epoca, gli italiani furono effettivamente,
nella grande maggioranza, fascisti.
Riprendo a questo punto alcune
delle riflessioni esposte nel libretto di
Giuseppe Dossetti Eucaristia e città,
A.V.E. editrice, 2012, euro 8 (che ripropone un intervento pubblico di Dossetti
del 1987).
Nella Bibbia c’è un certa
diffidenza per le città e per gli ordinamenti politici, specialmente quelli che
riunivano molti popoli diversi. La concezione ebraica di città era molto
distante da quella greca, che impronta gli ordinamenti politici democratici contemporanei.
Nella prima la città era essenzialmente un insediamento chiuso, protetto da alte mura, in funzione difensiva. Per i greci
era principalmente il luogo in cui si svolgeva la cittadinanza comune, la
partecipazione al governo, quindi la politica
(dal termine greco pòlis, che
significa città). Per certi versi la
città, nella concezione ebraica, è vista anche come luogo di dissoluzione, di
violenza e di presunzione antireligiosa. Le antiche monarchie ebraiche ebbero
vita travagliate e divennero un modello negativo. La stessa Gerusalemme si
mostrò infedele e il suo mito poté essere mantenuto solo idealizzandolo molto
(ne abbiamo un esempio nell’Apocalisse neotestamentaria). In questa concezione
lo spirito religioso sembra svilupparsi meglio nei luoghi isolati, lontani dai
centri urbani, ad esempio nei deserti. Essa, in definitiva, viene confermata
nella prospettiva evangelica. Il regno a cui tendono i discepoli cristiani non è di
questo mondo ed essi nelle società umane in cui vivono si considerano addirittura
come stranieri. Sono infatti
portatori di una forte istanza critica nei confronti degli ordinamenti sociali
e politici che le dominano. Rendono ai potenti della Terra ciò che a loro è
dovuto (a Cesare quel che è di Cesare),
ma, benché sottomessi a loro, non è detto che debbano sempre obbedire. Loro
compito è di predicare a tutte le genti la conversione e il perdono dei
peccati. L’impero romano, in cui si formarono le prime comunità cristiane, un
ordinamento politico plurinazionale e plurietnico che presenta qualche
affinità, se non altro geografica, con l’attuale Unione Europea, venne
concepito come una potenza diabolica, a loro ostile, ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù (Apocalisse
17,6 e 18,2).
Scrive Dossetti, nell’opera
citata (pag.45-46):
Per il
regno di Dio e per la città di Dio va
ancora fatta una precisazione a scanso di equivoci.
Il regno di Dio è
Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e neppure si prepara o si affretta
per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente
sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo, che si possa gradualmente
predisporre per forze creaturali.
Il Regno giunge a
noi senza di noi. Il pensare che noi possiamo attirarcelo e appropriarcelo è “stoltezza umana,
presunzione farisaica, zelotismo raffinato”.
All’uomo compete solo
la fedeltà alla Parola, l’annunzio di essa, la pazienza longanime che non spegne lo Spirito credendo di
accelerarne le operazioni, la ferma fede che il grano del Regno “cresce da solo” (in greco: automàte) (Vangelo
secondo Marco 4,26- 29). Anche
perché il Regno verrà, per un decreto
del Padre in un momento imprevedibile
“che il Padre ha riservato alla sua
potestà” (Atti degli apostoli 1,6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo
troncamento, in “ictu oculi” (Prima lettera ai Corinzi 15,52).
Un famoso passo della Lettera a Diogneto, scritto cristiano
che si fa risalire al 2° o 3° secolo della nostra era, è questo:
[I cristiani] Abitano ciascuno la propria patria, ma come
residenti stranieri; a tutto partecipano
attivamente come cittadini e a tutto assistono passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, e
ogni patria è terra straniera.
[… ]
Passano la vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo.
Obbediscono alle leggi stabilite, eppure con la loro vita
superano le leggi.
Insomma, concluderei che in
religione non siamo autorizzati a farci troppe illusioni sui risultati delle
nostre costruzioni sociali e, quindi, della nostra azione come cittadini. Non
sarà dalle nostre mani che uscirà il compimento della storia e ogni traguardo
che riteniamo di aver raggiunto non è mai veramente stabile e può essere
seguito da un regresso.
Ma direi anche di più. Nella
Bibbia c’è sicuramente il fondamento del concetto di dignità dell’uomo dal quale oggi ricaviamo la convinzione giuridica
e politica in certi diritti umani inalienabili, che sono la base delle democrazie
contemporanee, ma la democrazia non c’è.
Tanto è vero che la Chiesa cattolica non trova alcun problema nell’aver
mantenuto un ordinamento interno non democratico. E non ha avuto alcun
problema, come altre Chiese cristiane del resto, ad appoggiarsi, nel passato, a
regimi non democratici, come le monarchie assolute. Il discorso naturalmente
potrebbe essere più ampio, perché nei millenni passati è stata elaborata anche
una dottrina per insegnare che cosa dovesse fare un monarca che volesse dirsi
ed essere riconosciuto come cristiano e quindi anche che cosa si dovesse fare,
da cristiani, per servire quel monarca e via seguitando. Ma in queste che sono
delle specie di note operative per la
nostra situazione concreta di oggi quel
discorso non serve.
Io sto prendendo coscienza di
questo: la situazione in cui ci troviamo nell’Europa democratica di oggi non ha
precedenti storici, è qualcosa di totalmente inedito. E bisogna dire che questa
realtà veramente nuova è stata costruita con l’apporto fondamentale del
pensiero di cristiani sulla democrazia e della loro azione politica, di governo
delle società.
Noi, ad esempio, diamo per
scontato che questo lunghissimo periodo di pace, che in Europa si protrae ormai
dal 1945, rientri nella normalità. Ma non è così. Tanto che, quando frequentai
le elementari, nella scuola di piazza Capri, il nostro maestro era solito dirci
che dopo qualche anno saremmo diventati uomini, saremmo andati in guerra, e più
o meno la metà di noi vi sarebbe morta. Le cose, diceva, erano sempre andate
così, una guerra più o meno ogni quindici o vent’anni (e allora si era negli
anni ’63-’67). Poi non andò così. L’ultima grande frontiera, edificata tra Est
e Ovest Europa dopo la Seconda guerra mondiale, è caduta nel 1991, senza la catastrofe
che per tanto tempo si era temuta.
Aver realizzato, in democrazia,
una potenza di pace sugli antichi, immensi, campi di battaglia ha un
significato per la nostra vita in religione?
4. Il mondo nuovo che religiosamente attendiamo
non uscirà dalle nostre mani. Non ne abbiamo quindi la responsabilità. I nostri
progetti non possono e non devono estendersi fino ad esso. Né possiamo
immaginare di poterlo effettivamente realizzare in una società da noi
edificata. Trascrivo di nuovo, di seguito, le parole di Dossetti (pag.45-46):
Il Regno, giunge a noi, senza di noi.
[…]
,,,il Regno verrà, per un decreto del Pare
in un momento imprevedibile “che il Padre ha riservato alla sua potestà” (Atti
degli apostoli 1, 6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, in
ictu oculi [trad.:in un batter
d’occhio – greco: en ripè oftalmù] ” (1
Lettera ai Corinzi 15,52).
Quest’ordine di idee è un bel
sollievo. Secondo le parole di Dossetti non saremo quindi giudicati colpevoli
di non aver saputo realizzare, nelle nostre faticose e lunghe approssimazioni,
il Regno, la società perfetta che non ha bisogno di lampade o di sole, “perché il Signore Dio li illuminerà”,
secondo l’emozionante profezia che troviamo in Apocalisse, 22,3, e anche di
non aver asciugato ogni lacrima dagli
occhi dei sofferenti, e di non aver sconfitto la morte, e di aver cancellato del tutto e definitivamente tra noi il
lutto, il pianto e il dolore. Fatemi
sapere se condividete questo discorso.
Ciò posto, se guardiamo all’Unione Europea di oggi, per la quale
inaspettatamente l’altro giorno ci siamo presi il Nobel, e la Chiesa del dopo Concilio
Vaticano 2°, nella quale abbiamo voluto essere ed effettivamente siamo
stati Luce delle genti, ce ne compiacciamo,
pur pentendoci del male che in esse non siamo riusciti ad evitare e sentendoci
pur sempre impegnati a migliorarci, perché non solo ad esse apparteniamo, ma
anche esse ci appartengono, nel senso che sono un nostro modo di essere e quindi
riflettono coralmente nel bene e nel male le nostre vite, e noi, lo sappiamo,
non possiamo dirci perfetti, anche se
in qualche modo desideriamo, e a volte anche cerchiamo e addirittura ci sforziamo, di corrispondere
al disegno che religiosamente pensiamo che si abbia su di noi, dall’alto. E, in
definitiva, quei risultati, quella nuova Europa, quella Chiesa rinnova, non
sono tati accidentali, ma voluti, quindi desiderati e attuati. Ecco quindi
che lo volevamo fare e l’abbiamo fatto.
Sono effettivamente opera nostra, collettiva, e infatti, al nostro sesto giorno (Genesi 1,31), le guardiamo
e vediamo in esse cose buone ma anche
cose da cambiare per migliorare, in quella, come dire?, commistione di grano e
zizzania, di Città secondo Dio e di Città
secondo l’avversario di Dio che non è in
fondo in nostro potere sciogliere del tutto.
Ha un significato, per la nostra
fede, l’aver agito e costruito? Dossetti ritiene di poter concludere di sì. Per
amore infatti abbiamo agito. Scrive
(pag.103-104):
Tutto nella via del cristiano agito dallo
Spirito Santo è azione […] non è il caso di insistere banalmente sulla
contrapposizione fra “contemplazione” e
“azione” […] “contemplazione” per il senso originario [che aveva nell’antica filosofica greca, in particolare in Plotino (3°
sec.) – nota mia] ,,, non [è] propriamente un concetto cristiano e [continua]
a trascinare e a veicolare più di un equivoco nella storia della
spiritualità cristiana.
In senso propriamente cristiano tutto è
azione, e con diversi gradi di efficacia, peculiarmente là dove il concetto
abituale di azione ne saprebbe vedere di meno.
Azione è l’Eucaristia: prima di tutto azione
di Cristo, poi azione della Chiesa, azione della comunità che la celebra, del
cristiano che vi partecipa.
Ogni preghiera, se fatta come deve essere
fatta in Cristo, nello Spirito, è azione.
La lettura, e ancor più la “ruminatio” della
Parola di Dio , allo stesso modo, è azione.
La malattia che riduce immobile in un letto,
accettata nella fede, è azione […].
La concentrazione dell’anima nel suo oggetto più proprio […] è azione”.
Per Dossetti, si agisce come
risposta d’amore all’amore trinitario, che ci viene dall’alto. C’è una carità verticale, appunto dall’alto, che è “generante e condizionante rispetto ad ogni
altro amore, sia pure il più santo e benefico” (pag.117).
“L’amore rivolto ai fratelli ne sarà un segno
necessario e precipuo: ma derivato…”.
Dossetti segnala l’esistenza di
un paradosso della carità eucaristica,
dell’agire insieme, nel nostro mondo, su fondamento religioso:
“L’altissima risposta d’amore trinitario sarà
tanto più utile agli altri e al mondo intero, quanto meno si preoccuperà e
saprà di esserlo: cioè quanto più si ignorerà, si perderà, quanto più sarà
silenziosa e radicale follia, dimessa e impotente: allora raggiungerà quel
grado di sottigliezza, di agilità penetrante, di tersa inoffensività che può
pervadere gli spiriti degli uomini (Libro della Sapienza 7,22-24) senza che se
ne accorgano, riempirà la città stessa “con un effluvio genuino della gloria
dell’Onnipotente” [Libro della Sapienza 7,25].
Insomma: si agisce, si agisce insieme e si agisce per amore, ma amore di una specie particolare, che è risposta
ad un amore che viene dall’alto. Quando si agisce così, non si fa conto del
risultato, che poi si è convinti che verrà in
un battito di ciglia a tempo debito e non per opera nostra: lo scopo
dell’azione è infatti solo quello di diffondere nella società un “effluvio puro della gloria dell’Onnipotente”
(Sapienza 7, 25, trad.Edizioni San Paolo 1997). Questo equivale, detto in
termini profani, a infondere nella società intorno a noi dei valori. Tutto ciò definisce bene il
compito di elezione dell’Azione Cattolica, per il quale in essa ci si prepara,
si ragiona, si fa pratica e, infine, ci
si organizza e si va in prima linea,
dove per quei valori si lotta, e
addirittura a volte molto oltre quella prima linea, in territorio avversario,
nel senso che in esso sono avversati quei valori.
Ma non necessariamente si combatte sotto bandiere crociate. Ci si può ritrovare, ad esempio, a lavorare con genti di
altre fedi, culture, etnie e nazionalità sotto la bandiera azzurra della pace,
con le dodici stelle d’oro in circolo, dell’Unione
Europea, nella quale uno spirito religioso può intravvedere due simboli
specificamente mariani, segno
dell’anelito a valori anche
specificamente nostri, di quelle radici
cristiane di cui spesso parlano i nostri vescovi, in particolare il
richiamo alla corona di dodici stelle della donna
vestita di sole dell’Apocalisse (12,1). Ed effettivamente, a pensarci bene,
l’Unione Europea di oggi ci appare
veramente un segno grandioso, anche
in senso specificamente religioso.
Ho parlato di amore e questo termine, con il quale
traduciamo tutti i termini del greco
neotestamentario con i quali specificamente si descrivono le relazioni tra i
fedeli e tra essi e il mondo, ma anche e innanzi tutto quelle tra gli esseri
umani e il fondamento soprannaturale,
suona equivoco, e anche un po’ stucchevole nell’italiano moderno. Nel
greco del Nuovo Testamento (per quello che ho letto – ma la mia in merito è
solo erudizione di liceale, neanche tanto studioso; non sono uno specialista)
si avevano agàpe, filìa e coinonìa. Il primo richiama l’idea di quando si sta insieme per
fare un bel pranzo; il secondo si riferisce all’amicizia, a un rapporto di
reciproca simpatia e di preferenza, il terzo richiama l’idea di quando si
partecipa ad un’opera comune. Nel mio Vocabolario
del greco del Nuovo Testamento non viene riportato il termine èros, che pure rientra nei significati
della nostra parola italiana amore, e
definisce la passione sessuale, quella che trascina emotivamente dalle viscere
e acceca. Penso quindi che questa
metafora non sia stata utilizzata nel Nuovo Testamento, anche se è presente
nell’Antico, mentre anche nel Nuovo viene utilizzata quella basata sull’amore coniugale, che però è qualcosa di
molto più complesso, perché è insieme èros
(come base emotiva della predilezione per una persona fisica), agàpe, filìa e coinonìa, oltre a
patto ed alleanza.
Poiché la qualità e la direzione del nostro agire
dipende molto dalle ragioni e del modo del nostro stare insieme, è
interessante ragionarci un po’ su.
5. Dunque, Non possiamo ragionevolmente confidare del tutto sull’opera
nostra, in particolare sugli effetti che possiamo produrre nella società. La
storia ci insegna che il progredire dei tempi non significa sempre un
miglioramento, un progresso duraturo: è possibile che si torni indietro e si
debba ripartire. E anche in religione ci viene consigliato di prendere le cose
in questo modo. Il fondamento della nostra speranza non sta in noi stessi.
Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve inculcare
al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo la misura dei doni ricevuti e le opportunità
pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva il nostro
atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe
essere più che altro quello di una pervicace
e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda
sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non
siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di
questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le
potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a
quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di
aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di
influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto
limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica
globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle
cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini
umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una
interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno
provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato,
quindi compreso con precisione, va
piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del
teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende buona la vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare
tutto il suo presente ed avere
gioia non solo nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La speranza religiosa vive
nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli
insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei successi, che
pure sa essere sempre minacciati e
caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla
fine della storia.
Proporre alla gente intorno a
noi e a noi stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza
valida (così Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene
all’Azione Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di
puntare a svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità
e convinzioni. In quest’ottica il profano,
ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una
valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di
rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.
5. La prima e fondamentale esperienza di una
relazione con un’altra persona è quella che si fa da molto piccoli e qualcuno,
di solito la madre, si prende cura di noi. E’ una cosa che ho letto, ma che
corrisponde anche a quello che è successo a me. Da bambini piccoli non si
potrebbe sopravvivere senza quelle cure di un altro. Quel rapporto tra un
adulto e una persona molto piccola d’età rimane molto profondamente in noi.
Spesso, anche da anziani, in certi momenti difficili, in particolare
approssimandosi la fine, la si ricorda e, allora, viene alle labbra la parola mamma. L’ho sentita pronunciare da
diversi morenti. In qualche modo quel legame
tra persone è all’origine di molte idealità comunitarie. Ne sentiamo
l’influsso in certe concezioni espresse nel culto mariano. O in alcune
tematiche dell’arte religiosa, come quella della scultura di Michelangelo detta
La Pietà, posta nella basilica di San
Pietro, qui a Roma. Esso viene anche utilizzato per rendere l’idea dell’amore-agàpe, di origine divina, che
pervade l’universo e noi stessi. Scrive Giuseppe Dossetti in Eucaristia e città, editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8,00, che si tratta di un amore viscerale, ma di
viscere materne. Per questo ci viene incontro nonostante la nostra
cattiveria e non cede mai all’ira: è misericordioso.
Ci attraversa e, riflettendosi
in noi, torna all’origine. Genera quindi un atteggiamento di devozione filiale, che si ritiene esprimere bene l’atteggiamento
religioso del fedele verso l’alto. Ma ne deriva anche un sentimento fraterno
verso coloro che si trovano nella nostra stessa condizione di figli, insomma, secondo Dossetti, crea un’atmosfera di rispetto, di comprensione,
di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che offre
per venire incontro alle esigenze degli altri] indipendente da ogni condizione
esterna mutevole e che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8) [pag.121-122].
Spesso, quando ci accostiamo a una comunità religiosa, ad esempio come una
parrocchia, lo facciamo disposti alla devozione
filiale, ma aspettandoci di essere oggetto poi di un amore viscerale di tipo materno, e il più delle volte rimaniamo
delusi. Questo può accadere anche entrando in collettività che concepiscono sé
stesse come (utilizzo un termine di Dossetti) micro modelli di comunità nuove e quindi si sentono particolarmente
impegnate nel realizzare una comunità di vita amorevole. E’ un’esperienza piuttosto comune. Tanto è vero che i maestri dei novizi, che hanno il compito
di istruire i nuovi arrivati alle costumanze di un ordine o di una
congregazione di vita religiosa, si sentivano in dovere di disilludere subito
in merito i giovani. Del resto nelle disposizioni date da alcuni fondatori di
collettività di frati e monaci ci sono esplicite disposizioni che riguardavano
questo aspetto. Non si entra in una vita
come quella per ottenere soddisfazioni o appagamenti emotivi o sentimentali.
Più le dimensioni di un
agglomerato di persone che per varie ragioni devono vivere vicine crescono, più
i problemi aumentano. Ad un certo punto si arriva addirittura a un limite biologico dell’essere umano. Noi, pur
come individui sociali, siamo infatti capaci di poche decine di relazioni profonde.
Considerate ad esempio la
situazione che si crea quando in piazza S. Pietro il Papa si affaccia,
all’Angelus della domenica, e si rivolge alle migliaia di persone convenute ad
ascoltarlo, dabbasso. Per la folla che sta giù il Papa è oggetto di una
relazione profonda. Ciascuno/a ha un
posto per lui nel proprio cuore. Ma il Papa che cosa vede lì sotto? Un cervello
elettronico che guidasse un automa come se ne stanno cominciando a costruire
eseguirebbe probabilmente una scansione ad alta definizione di ogni singolo
individuo nella piazza, archiviando per ognuno una piccola biblioteca di dati.
Un essere umano non funziona così. Guarda in basso e vede una folla indistinta. Il Papa per la folla è un fattore di unità. Ma il Papa, essere
umano, non è in grado biologicamente
di far entrare ciascuno di quelli che lo ascoltano nel proprio cuore.
Naturalmente le folle hanno sviluppato delle tecniche per rendersi presenti
alle loro figure di riferimento, e lo fanno appunto agendo come una sola persona, manifestando gli stessi pensieri, gridando in coro le stesse parole, cantando in coro gli stessi canti. Una grande
folla può effettivamente restare nel cuore di un Papa. Penso che questo sia
accaduto al papa Giovanni Paolo 2° nel corso del suo quinto viaggio apostolico, che nel 1979 fece
in Irlanda. Ci fu uno straordinario incontro con una folla di giovani, di
enorme impatto emotivo, per i canti, per l’atmosfera generale, per l’aspetto e
l’entusiasmo delle persone, tanti giovani che accoglievano un giovane Papa, e via dicendo, tanto che io, pur
avendolo visto solo in televisione, me lo ricordo ancora bene e mi ci commuovo.
Ora, la Chiesa cattolica ha
preso sempre molto sul serio l’impegno a radunare
i figli di Dio dispersi, per estendere
il suo popolo, mantenendolo però uno
e unico, a tutto il mondo e a tutti i secoli, per farne una comunione di vita, di carità e di verità (Costituzione
dogmatica Lumen Gentium, cap.2° n.9 e
13, del Concilio Vaticano 2° - passi riportati in estratto in un post dei giorni passati]. Quando però si
passa da una comunità delle origini di poche decine di discepoli a una di
diverse centinaia di milioni di persone (se ne stimano ottocento milioni, in
crescita) occorre porre molta attenzione agli elementi unificanti. Per quasi
due millenni il principale di essi, nella Chiesa cattolica, è stato costituito
dai Papi, nei quali si concentrava dal punto di vista normativo (e si concentra
tuttora, nonostante qualche importante temperamento) l’autorità nella Chiesa,
non essendo mai stata concepita altra
autorità che, all’interno della Chiesa, potesse effettivamente sovrastare
quella del Papa (altre questioni sono quelle dei problemi che sotto questo
profilo i Papi ebbero con certi imperatori cristiani e dell’ampia autonomia
che, nel primo millennio, ebbero alcuni patriarcati orientali). Il Papa inoltre,
come persona fisica, a volte con l’aggiunta di una certa idealizzazione, che in
alcuni casi confinò con una sorta di mitizzazione della sua persona (ne era
espressione il fasto che in certe epoche la circondava), poteva agevolmente conquistare i cuori dei
fedeli.
Fin dai primi secoli sono stati
importanti, al fine di promuovere e mantenere l’unità (ma sono stati anche
fonte di divisione) anche quelle definizioni sintetiche dei principali
argomenti di fede che sono detti simboli,
due dei quali sono il Credo di Nicea Costantinopoli e il Credo degli Apostoli che recitiamo
insieme nella liturgia della Messa. Queste solenni e autorevoli definizioni
sono state raccolte in un libro, il H.Denzinger – A. Schonmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum
de rebus fidei et morum [Raccolta di
simboli, delle definizioni e delle dichiarazioni in materia di fede e morale],
molto utilizzato in teologia.
186. Fin dalle origini la
Chiesa apostolica ha espresso e trasmesso la propria fede in formule brevi e
normative per tutti. Ma molto presto la Chiesa ha anche voluto riunire
l’essenziale della sua fede in compendi organici e articolati, destinati in
particolare ai candidati del Battesimo.
Il simbolo della fede non fu composto secondo
le opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei punti salienti, scelti da
tutta la Scrittura, così da dare una dottrina completa della fede. E come il
seme della senape racchiude in un granellino molti rami, così questo compendio
della fede racchiude tutta la conoscenza della vera pietà contenuta nell’Antico
e nel Nuovo Testamento.
187.Tali sintesi della fede
vengono chiamate “professioni di fede”, perché riassumono tutta la fede
professata dai cristiani. Vengono chiamate “Credo” a motivo di quella che
normalmente ne è la prima parola: “Io credo”. Sono anche dette “Simboli della
fede”.
188.La parola greca “Sy’mbolon”
indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva
presentato come segno di riconoscimento.
Le parti venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il “Simbolo della fede” è quindi un segno
di riconoscimento e di comunione tra i credenti. “Sy’mbolon” passò poi a
significare raccolta, collezione o sommario. Il “Simbolo della fede” è la
raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso
costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi.
[dal Catechismo della Chiesa
Cattolica 1992-1997]
I Simboli della fede, alcuni dei quali per la loro
origine o per successivi atti di volontà dell’autorità sono leggi della Chiesa, agevolano la
comprensione legando affermazioni che
riguardano concezioni piuttosto complesse, riguardanti il soprannaturale, il
legame dell’umanità con esso e il destino nostro e dell’universo intero, ad un
gruppo di persone più limitato delle intere umane e celesti moltitudini: le
persone della Trinità, Gesù Cristo, Maria Vergine, che una persona umana può
facilmente tenere nel proprio cuore.
Non va infine dimenticata
l’importanza che storicamente ha avuto, come fattore unificante, la liturgia, anch’essa regolata spesso da leggi della Chiesa, quindi con autorità.
Ora, per capire l’importanza che
il Concilio Vaticano 2° ha avuto per la Chiesa cattolica, bisogna comprendere
questo: esso ha in qualche modo inciso su tutti e tre quei tradizionali fattori unificanti e ciò anche se, da un punto di vista
teologico, si è accuratamente cercato, nella formulazione dei documenti
conciliari, di stabilire una continuità tra l’aggiornamento realizzato e la precedente
Tradizione, per cui, sotto questo profilo, una cesura non c’è e non si avverte
nemmeno. Questo non fu senza conseguenze. I capi della Chiesa ebbero
l’impressione, nel dopo concilio di un
marcato sbandamento del corpo
ecclesiale e se ne preoccuparono.
Durante il Concilio Vaticano
2° (1962-1965) ci fu però la riscoperta di un ulteriore fattore unificante che alle origini
c’era senz’altro e di cui si aveva avuto sempre consapevolezza, ma sul quale
nel corso della storia bimillenaria della Chiesa non si era fatto molto affidamento,
anche perché, in effetti, non poche volte aveva deluso: l’essere Popolo di Dio.
6 Come la Chiesa riunita dell’assemblea
eucaristica è l’epifania [=manifestazione. Nota mia] anticipata del Regno, così la Chiesa inviata dall’Eucaristia è un’epifania
della “polis” [=città in senso politico, come organizzazione sociale. Nota
mia] salvata: “politicità” tutta “sui
generis” [=in un senso particolare, suo proprio. Nota mia], che non governa e non ha potere, che non
muove verso gli altri per quello che hanno di appetibile, ma unicamente per
quello che sono “in mysterio” [nel mistero della loro realtà che rileva per
fede religiosa. Nota mia] (anche se
poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibile): cioè incontra l’uomo
dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più intimo, più
invisibile, più pneumatico [=spinto dallo spirito religioso. Nota mia], creando e divulgando ovunque – nel seno di ogni società grande o piccola,
soprattutto nei micro modelli di comunità nuove che alcuni sociologi laici ora
raccomandano – un’atmosfera di rispetto,
di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo
[=che si impegna per venire incontro alle esigenze degli altri, con
spirito materno. Nota mia] indipendente da ogni condizione esterna e
mutevole che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8). [opera citata, pagine
121 e 122].
Queste parole di Dossetti
ricordano quelle che troviamo nella costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°, al capitolo 2°, n. 19:
[…] il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente
l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge,
costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di
speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui
assunto ad essere strumento di redenzione di tutti e, quale luce del mondo e
sale della terra (si confronti Mt
5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Essere inviati
collettivamente al mondo per essere strumenti
di redenzione, vale a dire per influire
su di esso per salvarlo dal male che c’è in giro, denota una politicità della nostra esperienza
religiosa, che ha quindi molto a che fare con i fatti della nostra società e
che quindi non si limita alla spiritualità personale e al miglioramento
individuale del fedele. Essa tuttavia è di tipo particolare, specialmente
perché rifiuta di dominare gli altri
e si propone di incontrarli nel loro
intimo in un nuovo clima di umanità, includendoli in un nuovo stile di relazioni
personali. In un certo senso questo significa realizzare in concreto un tipo di
felicità, una società in cui nessuno
sia escluso, in cui tutti si sentano apprezzati e in cui si venga incontro alle
esigenze degli altri con trasporto di tipo materno
e li si tratti con animo fraterno,
riconoscendo loro quella particolare dignità
che deriva loro dall’essere figli di
un padre comune (notate che certi
concetti possono essere espressi bene solo con metafore tratte dalla vita
familiare, molto idealizzata).
Ora, naturalmente quest’ordine
di idee presenta già qualche problema se lo si applica a piccoli gruppi, i
quali pure vogliano impegnarsi effettivamente a realizzare quel tipo di comunità a cui si riferiva la Lumen gentium, ma certamente si scontra duramente con la realtà
sociale di collettività molto più vaste, composte da milioni, decine di
milioni, centinaia di milioni di individui. E infatti, ad esempio, gli
illuminati rivoluzionari che sottoscrissero la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) si limitarono prudentemente a riconoscere il
diritto fondamentale alla ricerca della felicità, senza impegnarsi direttamente a realizzarla come
collettività. E’ chiaro dunque che questo lavoro
nella società a cui siamo stati chiamati (infatti siamo convinti di essere
stati ad essa inviati), è
particolarmente difficile, supera senz’altro le possibilità di un singolo
individuo e richiede un’azione collettiva, un associarsi con altri che sono
ispirati dalle nostre stesse idealità. Esso parte dai principi religiosi, ma richiede anche una sapienza umana
che origina da ciò che ciascuno è, sa fare, sa capire, passa per la
comprensione dei tempi e del mondo in cui si vive, interagisce con quanto altri sono, fanno,
sanno capire, conoscono del mondo in cui vivono, e può produrre determinazioni comuni su ciò
che collettivamente si debba realizzare, propositi e progetti concreti. Ma c’è
di più: pur occupandosi di dimensioni sociali macroscopiche, come può essere ad
esempio l’organizzazione di una città o di un quartiere, deve mantenere
comunque vitali quelle dimensione
sociali molto più piccole, fatte di gruppi di dimensioni molto più limitate, a
partire da quelle a base parentale, nelle quali ciascuno trova sostegno,
orientamento e fondamentale appagamento. Questo appunto, a mio avviso,
significa non incontrare l’uomo
dall’esterno e in superficie, ma nel
suo “sé” più intimo, secondo l’espressione utilizzata da Dossetti: quindi
tenere insieme macro e micro. Questo lavoro di cui ho parlato è
il campo operativo principale dell’Azione Cattolica.
Per oggi concludo osservando,
nella linea di Dossetti, che in tutto questo agire collettivo ben ispirato si è
indubbiamente esposti a una tentazione piuttosto forte, che è quella di
ritenere che l’opera del nostro ingegno, le costruzioni sociali che riusciamo
storicamente a realizzare, corrispondano ad un certo punto a un modello di
perfezione sotto il profilo propriamente religioso, si tratti di famiglia naturale, di comunità religiosa, di
organizzazione di una città, di uno
stato nazionale, di un ordinamento pubblico sovranazionale e, al limite, di un
ordinamento globale di tutti i popoli della Terra, come nelle intenzioni
vorrebbe essere l’organizzazione delle Nazioni
Unite. Questa identificazione tra soprannaturale e naturale, espressa
storicamente dal motto Dio è con noi,
non la possiamo però legittimamente mai affermare, perché ci è stato detto che il Regno beato non è di questo mondo,
con tutto ciò che da questo consegue. Nella visione di Dossetti, per quanto
(giustamente) ci si dedichi a costruire comunità amorevoli e materne, ogni
espressione della socialità umana mantiene una certa ambiguità e ambivalenza e
in essa elementi positivi, rispetto alla concezione di fede, sono sempre
mescolati a elementi negativi e permane, quindi, in essa un certo contrasto tra ciò che si è riusciti
storicamente ad attuare e quello che definiamo come “il Regno”.
E ciò si avverte con più forza a misura che le collettività organizzate
diventano più grandi, aggregando moltitudini, fino a sfiorare la globalità, le
dimensioni dell’umanità intera, e a misura in cui esse incidono maggiormente
nelle vite delle persone. Dossetti precisa:
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi
viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e neppure si
prepara e si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente
sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo,
che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Rimane pertanto questo paradosso,
che, inviati verso gli altri per
migliorare sulla base dei nostri principi di fede le società in cui insieme ad
essi viviamo, in fondo rimaniamo sempre in quelle società degli estranei, degli
stranieri, dal punto di vista
religioso, anche quando collaboriamo alla loro edificazione. C’è sempre
infatti, alla fine, una certa insoddisfazione rispetto ai risultati ottenuti e
questo è vero non solo per le realtà profane, ma anche per quelle
specificamente religiose, in ciò che esse hanno di umano. Al nostro “sesto giorno” guardiamo l’opera
nostra comune e non riusciamo mai a concludere che è cosa molto buona, vi troviamo sempre qualcosa di migliorabile. E, rispetto ad ogni nostra città, in un certo qual modo ci troviamo
nello stato di chi è in procinto di andarsene di lì a poco; cerchiamo in genere
di mantenere un certo distacco. Questo che sembrerebbe un inconveniente non da
poco nell’ottica della nostra completa integrazione
civile, in realtà ci pone in una condizione di particolare libertà rispetto
alle cose umane, in particolare alle società in cui viviamo. E, benché il
nostro essere religiosi non ci ponga in una sorta di condizione di anarchia e
quindi, vivendo nella società, effettivamente ci sottomettiamo alle autorità
costituite, in particolare a quelle civili, dando ad esse ciò che a ciascuna di
loro compete, questo sottomettersi, scrive Dossetti (pag.42) non vuole dire necessariamente sempre
obbedire. In questo senso, come scrisse anni fa Paolo Giuntella nel libro
omonimo, il nostro cristianesimo può essere effettivamente una strada verso la libertà.
7.Il
peccato che è nell’uomo decaduto si ritrova anche nelle sue città e nelle forme
sociali più vaste e complesse: queste ultime possono assicurare agli uomini
vantaggi sensibili in varie direzioni, ma tendono a porsi come grandi
concentrazioni di potere (le megalopoli, gli imperi) e divenire sempre più
anonime e soprattutto consentire uno sfrenamento più incontenibile delle
peggiori passioni umane: l’ambizione prevaricatrice, l’avidità di illimitati
guadagni, il lusso spettacolare, la lussuria sempre più cupida di ogni
perversione, l’adulterazione industrializzata della verità, lo spargimento
ingiusto di sangue ecc. Sicché non si può parlare di un’ambivalenza delle forme
sociali e del potere, come fanno molti sociologi contemporanei, ma il credente
deve riconoscere un loro inquinamento profondo con altissimi rischi: il rischio
più grave di tutti è la guerra, sempre più generalizzata e distruttiva a
livello planetario.
[da Giuseppe Dossetti, Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00]
Dossetti pronunciò le parole
sopra riportate dopo aver preso sinteticamente in rassegna la dottrina e
l’esperienza biblica, dai primordi di Israele a tutto il Nuovo Testamento. Si
era nel 1987, in un mondo molto diverso da quello in cui viviamo oggi e, in
particolare, non si era ancora nell’era della globalizzazione, della interconnessione planetaria delle economie e
delle società umane. L’umanità era
dominata da due grandi sistemi politici sovranazionali, quello centrato sugli
Stati Uniti d’America e quello che prendeva a riferimento l’Unione Sovietica, e
seguiva due gruppi di sistemi economici, piuttosto articolati al loro interno,
quelli di tipo capitalista e quelli di tipo socialista-collettivista. Le accuse
di perversione sociale venivano lanciate e rilanciate dall’uno all’altro degli
schieramenti, che concepivano sé stessi come reciprocamente alternativi, l’uno
il rovescio dell’altro. Questo comportava che chi, in ciascuno di quegli
universi sociali contrapposti, assumesse una posizione critica nei confronti
della civiltà umana in cui si trovava,
poteva fare riferimento all’altro mondo che le si contrapponeva come a un mondo alternativo, al regno del bene, a un modello positivo. Ai tempi nostri
quest’alternativa sembra mancare, perché la Terra sembra retta da potenze umane
omogenee ed è diventata così più significativa la critica globale alle società
umane che si può ricavare dal dato biblico, seguendo Dossetti: il male appare
come universalmente connaturato con l’esperienza delle società umane e da esse
ineliminabile. Come disse Dossetti, non vi è quindi una semplice ambivalenza tra male e bene, ma un inquinamento profondo che ora si
manifesta come pervasivo di tutta l’umanità, senza reali alternative. E tuttavia,
paradossalmente, il rischio di guerra
globale, ancora molto alto al tempo in cui Dossetti pronunciò quelle parole,
sembra oggi molto meno forte in una umanità molto più numerosa dei tempi
antichi, con il conseguente aumento dei motivi di conflitto, e in un tempo in
cui le capacità distruttive si sono enormemente accresciute. Questa è anche
opera umana. La pace ha anche una valenza religiosa e quindi si è spinti a
ragionarci su anche sotto questa prospettiva. E ci si può chiedere come conciliare
le esigenze di impegno nel mondo nuovo
in cui ci troviamo a vivere con il pessimismo
biblico sulle organizzazioni sociali umane.
Bisogna allora evidenziare un importante problema che noi, gente di
fede, abbiamo nel trattare, insieme con altre persone al di fuori della cerchia
di chi condivide le nostre convinzioni religiose, le cose del nostro mondo: i
principi ai quali vogliamo riferirci per orientare le nostre condotte
individuali e collettive sono tratti da un’antica sapienza che si è formata in
un mondo radicalmente diverso da quello in cui viviamo. Non si tratta di una
differenza di un più rispetto al meno (oggi, ad esempio, il mondo è più
popolato; le armi oggi sono più
potenti e via dicendo), si tratta di una novità
profonda, strutturale e piuttosto recente. Non dobbiamo però pensare che si
tratti di un processo anche irreversibile.
I tempi nuovi in cui ci troviamo
dipendono da una certa organizzazione sociale molto complessa e quindi anche
particolarmente fragile, nonostante la sua pervasività e potenza globale. Anni
fa uno scrittore italiano scrisse un libro vaticinando le condizioni della morte di megalopoli, della crisi di un’organizzazione sociale umana
moderna molto articolata e complicata. Un nuovo
medioevo, in senso negativo, una regressione
catastrofica, è quindi senz’altro possibile, ipotizzabile. Ce ne possiamo
prefigurare le condizioni. Le tempeste che travagliano le relazioni economiche
su scala globale ne possono essere considerate in qualche modo delle
avvisaglie. Oggi più che in qualsiasi
altra precedente epoca storica appare quindi rilevante, nel dirigere le nostre
società, una sapienza che scaturisce da competenze umane molto raffinate e
dall’interazione solidale e virtuosa tra i centri collettivi di potere, in una tensione verso il bene dell’umanità, per
preservarla dai pericoli e dal male che
sempre incombe. Pur nella consapevolezza religiosa dell’influsso di potenze invisibili, quella che spinge
verso la Città di Dio e quella che
invece tenta verso la Città del diavolo,
compresenti nelle nostre società come in ogni singola persona, sembra che per
la costruzione della Città dell’uomo,
espressione cara a Giuseppe Lazzati (1909-1986), ai tempi nostri ci si debba
impegnare molto nella storia umana, più che nelle ere passate, nella ricerca in
concreto di soluzioni escogitate responsabilmente da noi stessi, ragionando e
cooperando con tutti coloro che sono bene intenzionati, avendo innanzi tutto di
mira la prevenzione di quel gravissimo rischio di cui parlava Dossetti, quello
di una guerra globale e catastrofica, e poi di quello che Dossetti nel 1987 non
poteva ancora presagire, di una crisi economica catastrofica globale, una
specie di carestia biblica che
coinvolga tutta la Terra. Non possiamo limitarci a considerarci solo spettatori del conflitto cosmico
soprannaturale. Siamo spinti a scuoterci da una certa passività nell’impegno sociale che può derivare da quel pessimismo religioso sulle cose umane a cui ho accennato e dal concepirci sempre
come stranieri in ogni patria terrena,
nel senso però di estranei. E l’esperienza storica, ad esempio quella
della cooperazione europea sfociata nell’Unione Europea di oggi, ha dimostrato
che questi sforzi collettivi possono avere successo. Ogni soluzione, però, non sarà mai univoca:
per ogni problema se ne possono infatti
pensare di diverse e le predizioni sulla loro efficacia si sono
dimostrate in diverso grado fallibili. Inoltre ogni tipo di soluzione è
strettamente correlato al tipo di problema al quale risponde e i problemi hanno
un’evoluzione storica, come tutte le cose umane e come gli stessi esseri umani.
Questo incide abbastanza sulla possibilità di formulare una dottrina sociale che coniughi in modo
realistico, universale e definitivo le esigenze della nostra fede religiosa,
che è strutturata anche su principi che si riferiscono a un mondo che non c’è
più, con quelle dell’umanità di oggi. E, prima di ogni cosa, sull’affidabilità
di una dottrina con quelle pretese
formulata con autorità da capi religiosi che fanno principalmente riferimento a
un contesto teologico, di coerenza teologica.
Mi piacerebbe, a questo punto,
concludere anticipandovi la soluzione
delle soluzioni, il discorso ragionevole che chiuda il sistema in modo
rassicurante per noi persone religiose, chiarendo che il problema è solo
apparente e che vi è ancora una via semplice
per vivere da persone di fede nel nostro tempo. Tuttavia non posso farlo,
perché di passo in passo vi ho portato sulle frontiere estreme delle nostre
concezioni religiose, oltre le quali, benché la storia ci spinga
collettivamente in quella direzione, non si sa bene che cosa ci si debba
aspettare.
Voglio precisare che la novità
della situazione dei tempi nostri è apprezzabile essenzialmente su scala
globale, mondiale, perché su scale più piccole (nazione, regione, città,
quartieri, condomini ecc.) le cose si presentano diversamente e mantiene piena
affidabilità orientativa il contesto tradizionale dei principi di fede,
caratterizzato da un certo pessimismo sulle faccende umane. Questo rientra nella
nostra esperienza quotidiana. Eppure il nuovo ci si presenta anche in essa,
nella nostra vita feriale, e può, ad
esempio, avere il volto dell’immigrato da un altro continente che chiede il
riconoscimento di una cittadinanza
universale sulla base di quella nuova
organizzazione globale delle cose umane di cui dicevo. In questioni come queste anche
noi, individualmente e come piccoli gruppi, abbiamo voce in capitolo e non si
tratta sempre di scelte facili. E sul risultato globale, per i meccanismi delle
democrazie di popolo che reggono le nostre società, incideranno anche le nostre
scelte, così come esse hanno certamente influito, in una dinamica corale, sul risultato dei tanti decenni di pace nel
continente europeo.
8. […]
nella … nuova economia l’amore –motivo fondamentale dell’osservanza dei
precetti non elimina il santo timore filiale che, con soggezione totale e
trepidante adorazione della maestà di Dio, deve permanere a ogni livello della
vita spirituale.
Perciò, anche restando nel Nuovo Testamento,
vediamo che c’è un timore di Dio che e inculcato assiduamente dagli apostoli
(la stessa Lettera ai Romani 11,10; la Lettera agli Ebrei 4,1; la Prima lettera
di Pietro 1,17 e 3,16); ed è inculcato da Gesù stesso come necessario (Mt
10,28),
[…]
Certo l’Eucaristia, se davvero
vissuta nella fede, suppone la gioia: ma non necessariamente una gioia
sensibile.
Deve esser una gioia non adolescenziale, ma da
adulto, che non presuppone … di saltare il timore, ma che nasce proprio da un
timore virile e consapevole: stiamo di fronte al corpo e al sangue del Verbo
eterno di Dio”.
Questo discorso che Dossetti riferiva specificamente
all’Eucaristia può essere esteso all’atteggiamento che complessivamente la
persona religiosa può avere nei confronti del tempo e della società in cui si
trova a vivere. Il timore deriva dalla consapevolezza della grandezza degli
ideali professati e dalla conseguente responsabilità, ma la gioia deriva della
stessa fonte e, in particolare, dalla convinzione che quegli ideali non siano
basati solo sulle proprie forze e che, quindi, l’universo, e l’umanità in esso,
sia tratto da una forza irresistibile, non spinto da noi, verso un suo beato compimento. In altre circostanze,
al contrario, timore e gioia non vanno d’accordo, se il primo deriva dall’incertezza
sul futuro, che può anche mettersi molto male, e dalla considerazione
dell’insufficienza delle proprie forze e
conseguentemente la gioia, se anche c’è, finisce per essere piuttosto
precaria e minacciata ed è essenzialmente gioia nell’oggi e anzi addirittura solo nell’ora corrente. Quella che scaturisce dal timore religioso è invece
gioia per il passato, per il presente e per il futuro, quindi si basa su una valutazione complessivamente positiva
e fiduciosa della storia. Si fonda su una considerazione realistica delle cose
come vanno, e questa è come si dice nel lessico attuale la sua laicità, perché la fede non è solo
immaginazione e sentimento, ma anche su una spiritualità intima e quindi
profonda che cambia molto l’atteggiamento che si ha verso ciò che ci circonda e
che, in tanti modi, ci determina, ci interroga, ci sollecita e, a volte, ci
atterrisce. L’animo religioso, di conseguenza, di fronte ad ogni difficoltà
della vita, sia essa di quelle proprie
personali o di quelle di realtà vicine come la famiglia o l’ambiente umano
abituale, come anche su scala maggiore, di quelle che riguardano la propria
città, regione, nazione o, al limite, l’intera umanità, innanzi tutto si
raccoglie nella propria spiritualità per rafforzare il suo legame con il fondamento
beato, in quell’atteggiamento che Dossetti indica come di devozione filiale, quindi in una familiarità di relazione con esso
che non intacca il sentimento di stupore e trepidazione di fronte ad un
assoluto che si pensa sorprendentemente
animato da amore viscerale,
materno, ma anche virile, paterno,
nei confronti di noi umani. Il passo successivo è quello della comprensione del mondo intorno a sé e
poi dell’azione in esso, nel
tentativo di comporre profano e religioso in una esperimento sapienziale nel
proprio tempo, che, senza pretendere di esaurire tutto ciò che si può dire
e fare in merito, rende, e uso concetti espressi nel sussidio Un passo oltre dell’Azione Cattolica,
Editrice A.V.E, 2011, testimoni dell’oltre, vale a dire di
quel fondamento religioso, nell’impegno laicale
nel mondo in cui ci si è trovati a vivere, nell’umanità di cui si è parte,
innanzi tutto nella propria famiglia, poi nel proprio lavoro, poi nelle
istituzioni pubbliche di cui si è partecipi, ad esempio in ciò che si fa come
cittadini (in una città, in una regione, in una nazione, in un’unione
sovranazionale), fino ad arrivare a ciò che deriva dall’essere partecipi
dell’intera umanità in un certo tempo storico, con la conseguente
responsabilità globale in ciò in cui di fatto si influisce su di essa
o si potrebbe farlo o farlo diversamente. Questo è quello che in quel sussidio
si definisce come cattolicità attiva,
che non significa essere nella nostra società una sorta di piazzisti del sacro o di lobbisti
della nostra confessione religiosa (ad esempio per procurarle privilegi ed
esenzioni) o di militi o messi di una
potenza conquistatrice e dominatrice delle anime, ma prendere sul serio
l’imperativo religioso che ci spinge tra le genti per provare a radunarle nel popolo di Dio, in una comunione di vita, di carità e di verità,
insegnando loro ad osservare tutto ciò
che ci è stato comandato, innanzi tutto la legge dell’amore-agàpe.
Questo programma, che ho esposto brevemente, non è facile da attuare e,
innanzi tutto, richiede che si impari a collaborare con gli altri. L’impegno
religioso, come ci è stato ricordato
nella lettera apostolica Porta Fidei (2011)
con cui è stato indetto l’Anno della Fede
iniziato l’11 ottobre scorso, non è un
fatto privato. Ecco che in questo può essere interessante l’impegno in
Azione Cattolica. Esso è appunto un impegno,
quindi un’esperienza faticosa i cui risultati non sono del tutto scontati e in
cui gli insegnamenti ricevuti sono solo una
base di partenza negli esercizi di
laicità che si faranno, vale a dire
nello sforzo di comprensione realistica del mondo in cui si vive alla
luce di una spiritualità religiosa. Chi pensasse di trovare in un gruppo di
Azione Cattolica ricette di vita,
personale o comunitaria, già pronte e
ammaestramenti globali su ciò che si deve fare o si deve pensare in ogni
occasione rimarrebbe deluso. Un gruppo di Azione Cattolica non è una sorta di centro addestramento reclute in cui
sergenti maggiori iniziano la gente al servizio in una santa milizia. In Azione
Cattolica si è consapevoli di partecipare a un lavoro comune di ideazione e di
azione di progettazione di un futuro di bene, per noi, per la società in cui
viviamo, per l’intera umanità. In esso ognuno porta i
propri doni in un mutuo scambio che accresce
gli altri, in uno sforzo comune per
promuovere l’unità universale del genere umano a partire dalle realtà più
vicine fino a quella globale.
“[…] la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a
ricapitolare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità
dello Spirito con lui.
[,,,] In virtù di questa
cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta
la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno
scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità”
[dalla Costituzione dogmatica Lumen
Gentium, n.13, del Concilio Vaticano 2°]
Ora è chiaro, riprendendo il discorso da cui sono
partito, che l’universalità di questo
impegno comune, la sua cattolicità,
la sua effettiva apertura a tutte le
genti alle quali riteniamo di essere stati inviati, dipende dal suo fondamento religioso e quindi da quel timore di cui si diceva, il quale, in particolare,
deve prevenire da ogni tentazione di assolutizzare
una soluzione, un modello, un’esperienza, un cammino, una ideologia, una concezione
filosofica, una spiritualità, un capo, una guida spirituale, un’organizzazione
particolare, e via dicendo: si tratta di una familiarità con l’assoluto
caratterizzata, appunto, da devozione
filiale, nella considerazione che, secondo gli insegnamenti ricevuti, il Regno, quello di cui religiosamente
attendiamo la manifestazione alla fine dei tempi, non è di questo mondo, sebbene sia già presente come in embrione in questo mondo, e pertanto non lo
possiamo mai ritenere pienamente realizzato in nessuna delle nostre ideazioni e
soprattutto non ce ne possiamo mai attribuire la sovranità. Questo, ben lungi dallo
scoraggiare e umiliare, è anche la base
della creatività religiosa nella società e quindi dell’efficacia
della nostra azione comune, che non deve mai cessare di scrutare i segni dei tempi e determinarsi con sapienza di conseguenza,
rinnovandosi incessantemente.
9. Fondamentale
carattere della scienza moderna è la capacità di varcare i confini del
visibile.
Nessuno ha mai visto un fotone [particella di energia luminosa]. Nessuno vedrà mai un sequenza cistronica
[parte dell’RNA messaggero, una molecola che svolge funzioni nella costruzione
delle cellule organiche]. Tali entità
sono reali, ma ricostruite da una laboriosa indaffarata convivenza tra prove
sperimentali e attività ipotetiche della mente. Essi sono invisibili disvelati
agli occhi dell’intelletto […]. Nella sociologia ci troviamo in una situazione
terribilmente arretrata. Siamo ancora timorosi nel compiere il salto verso l’invisibile, già compiuto
da duemila anni nella matematica e da oltre cento anni nella fisica”.
[passo tratto da un articolo di
Giorgio Prodi, Lineamenti di una
sociologia degli invisibili, citato nel libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e Città, Editrice A.V.E.,
2011, a pag.66]
Può accadere che noi persone di
fede si sia presi in giro o, comunque, sottogamba perché ci occupiamo anche di
realtà invisibili. Ci sono uomini di cultura che considerano la Bibbia e molte
altre storie che circolano in religione come delle fiabe. Altri, pur con meno
scienza, fanno loro eco e ci accusano di credulità. Ma, nella mia esperienza,
l’atteggiamento dei più non è di questo tipo. Di solito infatti la gente crede
nel soprannaturale, in genere perché trova più facile spiegare in quel modo ciò
che le accade. Ma trova difficoltà nel credere in un dio amorevole, benevolo.
Pare più rispondente alla realtà di tutti i giorni l’esistenza di geni, demoni
o folletti, e simili, che possono essere favorevoli o avversi, secondo il loro
capriccio. Questa può essere considerata una religiosità di tipo naturalistico,
che risale ai primordi della vita sociale umana, quando si riteneva che ogni
manifestazione del mondo intorno agli esseri umani fosse mossa da un dio. Essa
poi si sviluppò nel politeismo dell’antica religione latina e greca, che
precedette il successo del cristianesimo in Europa, nel Vicino Oriente e nel
Nord Africa e fu da esso combattuta ed estirpata, almeno nelle sue
manifestazioni pubbliche e nelle istituzioni. Nell’antica Preneste, l’attuale
Palestrina, nei dintorni di Roma, venne
edificato un grande santuario alla dea Fortuna
primigenia, molto venerata dagli antichi romani. In certi accaniti
giocatori alle lotterie e simili, che vediamo anche nel nostro quartiere,
potremmo in un certo senso riconoscere dei seguaci di quell’antico culto. Come
spiegare altrimenti tanta passione in
giochi in cui le probabilità matematiche di vincita sono tanto basse?
Certamente senza un legame con
l’invisibile la nostra non sarebbe una religione. Secondo la nostra fede, tutto
ciò che esiste è stato creato da una
divinità che ama noi esseri umani con amore di padre/madre e questo nonostante
le nostre imperfezioni e, in particolare, la nostra cattiveria. Questa
convinzione trova molte smentite nella realtà naturale. E’ quindi una fede soprannaturale, che ci porta a rettificare abbastanza ciò che si osserva
nella natura intorno a noi e in noi.
Lì dove la vita appare ad un certo punto finire, noi, ad esempio, siamo convinti
di una vita eterna. L’esistenza degli
esseri viventi appare dominata dalla violenza. Gli animali si mangiano gli uni
gli altri e anche noi ci nutriamo di altri viventi. Le terre emerse si spostano
generando terremoti. Oceani appaiono e scompaiono. Le stesse stelle collidono o
esplodono. Noi però siamo convinti, per fede, che tutto ciò avrà, alla fine dei
tempi, un compimento beato. Il mondo in cui viviamo sparirà, certo, ma sarà
sostituito da un mondo diverso, preparato per noi e promesso. Esso non sarà però
opera nostra, ma dell’amorevole potenza creatrice dalla quale deriviamo.
Dossetti nel discorso da cui è scaturito quel libretto che ho sopra citato,
invita a non metterla troppo semplice parlando di questo con gli altri, come se
tutto fosse ovvio, chiaro, scontato. La fede, che in genere da bambini si
acquisisce con una certa facilità, confidando nei propri genitori e nelle
persone da loro accreditate, crescendo è messa alla prova. La religione serve
appunto a custodirla e a rafforzarla.
Come ho osservato in altre
occasioni, l’aspetto che va costantemente e sapientemente curato, come quando,
da bambini, si difende pazientemente un castello di sabbia costruito sulla riva
del mare, che l’acqua tende costantemente a sciogliere avanzando verso la
terraferma, non è tanto la convinzione che Dio
c’è. Spesso i “non credenti” partono da questo, parlando con le persone di
fede, e trovano poca soddisfazione. Certo, noi portiamo argomenti razionali a
sostegno dell’esistenza del nostro Dio, ma egli rimane pur sempre invisibile. Chi può negarlo? E’ la
stessa Bibbia che a dircelo chiaramente.
Scrive Dossetti, nel libretto
sopra citato, a proposito
dell’Eucaristia:
Il mistero cultuale rende oggettivamente
presente l’evento del sacrificio di Cristo, ma contemporaneamente lo vela:
debbo trapassare il velo e questo mi è possibile solo nella fede, che mi fa
andare oltre le apparenze sensibili e oltre il tempo […]
Nella mia esperienza di fede, ad
un certo punto, viene una voce che noi siamo capaci di udire; viene dalla storia
umana tramite la Chiesa, che l’ha fedelmente custodita nei secoli, e reca buone
notizie. Ci parla infatti di un creatore amorevole e suscita in noi, nel nostro
animo, nella nostra interiorità, una risposta, perché appunto quella voce è ciò
che si attendeva da sempre di ascoltare. E’ stato notato che noi, nell’evo
presente, non vediamo, ma possiamo udire. Detto in termini esplicitamente
religiosi, questo denota l’importanza che attribuiamo a ciò che sinteticamente
definiamo la Parola, vale a dire a
quello che religiosamente ascoltiamo e che ci narra delle realtà invisibili che
sorreggono le nostre vite. Nell’esperienza religiosa è questo che è centrale, come spesso ci
ricorda anche il nostro assistente ecclesiastico nelle nostre riunioni: ascoltare
e comprendere la Parola.
Questa relazione che abbiamo con
il soprannaturale ci cambia e ci arricchisce nello spirito, ma non ci aggiusta
le cose nel mondo in cui viviamo, che
continua ad andare come deve andare in base alle sue dinamiche naturali. La
nostra fede infatti non ha nulla a che fare con la magia. Non portiamo un dio
dalla nostra parte negli affari che abbiamo in corso in società e riguardo ai
problemi che abbiamo con la natura, innanzi tutto con i nostri corpi, che
infatti ad un certo punto ci danno qualche dispiacere, e sempre di più
invecchiando. Attendiamo invece un beato compimento che è completamente nelle
mani di colui nel quale religiosamente confidiamo e al di là di ogni nostra
immaginazione. Non tentiamo di portare un dio sulle nostre vie, ma cerchiamo la
nostra strada verso colui che ci chiama, ci trae a sé e ci attende alla fine
della storia dell’universo.
In conclusione: quando ci
mettiamo a immaginare nuove organizzazioni sociali, anche al fine di
corrispondere a quella benevolenza soprannaturale
che ci sovrasta e ci colma, non dobbiamo dimenticare che il punto di partenza,
sia come individui che nei nostri gruppi, è nella realizzazione di una
spiritualità, lavoro questo non facile perché non si tratta solo di tirar fuori
cose da noi stessi, in particolare dalla nostra immaginazione e dalla nostra
emotività, ma di inserirci in una
tradizione molto antica dalla quale la Parola
è scaturita per noi. Per questo è stata istituita la Chiesa della quale
siamo parte viva, essa stessa realtà visibile e invisibile, punto di contatto e
di mediazione tra il visibile e l’invisibile.
10. “Condizione
di qualunque progetto da parte di gruppi cristiani
[…]
Occorre … che siano adempiute molto più di
quanto non sia stato finora tre condizioni precise:
-che questo progetto sia non
solo nominalmente, dire per una “pia fraus” [trad.: per una bugia a buon fine], ideato
e perseguito anche praticamente, in modo totalmente distinto dalla comunità di
fede;
-che esso abbia una sua
genialità creativa (cioè non sia solo una rimasticatura di dottrina e progetti
altrove nati) e abbia una sua validità storica, risponda cioè ad un momento
reale della storia, interpretato non solo con scienza (cioè con
l’intelligenza), ma anche con sapienza (cioè con l’intuizione);
-e che infine esso nasca da un
senso di giustizia disinteressata e soprattutto di carità genuina verso i
compartecipi sociali, specialmente verso le categorie evangeliche privilegiate
(i poveri, gli umili, i piccoli).”
[da: Giuseppe Dossetti, Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., 2011, euro 8,00, pag.57]
Nel momento in cui a noi laici
viene richiesto di influire sulla società del nostro tempo per promuovere certi
valori che hanno un fondamento
religioso, dobbiamo chiederci come farlo. Infatti i cristiani storicamente
hanno a lungo improntato della loro fede le civiltà in cui si trovavano a
vivere, in Europa almeno fin dal quarto secolo della nostra era, ma non tutti i
modi in cui lo hanno fatto sono oggi praticabili, sia da un punto di vista
oggettivo, delle forze in campo, sia da un punto di vista etico. Oggi, ad
esempio, non ci affideremmo in questo a un imperatore cristiano o anche solo a una dinastia monarchica cattolica. E non accetteremmo di imporre
alla gente la fede cristiana sotto pena di
sanzioni criminali. Né lanceremmo una crociata contro popolazioni di
scismatici. Si tratta di forme di intervento dei cristiani nelle società del
loro tempo che sono state storicamente attuate. Ai tempi nostri in genere la si
pensa diversamente. Ma non è solo questione del senso comune, dell’opinione
corrente, ma è proprio la nostra Chiesa che si è data leggi diverse, che le
vietano quelle vie. Sono regole che troviamo nei documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), i
quali, come ho ricordato varie volte in precedenza, non sono solo testi
edificanti e istruttivi, ma leggi. Per alcuni di essi lo rivela il nome stesso
che è stato dato loro: costituzioni,
decreti. Ma anche quelli che sono stati denominati dichiarazioni hanno la stessa natura. E si tratta di leggi che, promanando
dal Papa in unione con un Concilio ecumenico, hanno una particolare forza.
Queste leggi, nonostante che nella loro stesura si sia avuta particolare cura
nell’evidenziare la continuità con il pensiero precedente dei capi della nostra
Chiesa, con le idee dei più autorevoli scrittori religiosi dei primi secoli,
con le liturgie praticate fin da tempi molto antichi e, naturalmente, con le Scritture sacre, divergono molto,
quanto alle indicazioni operative, concrete, con quelle che ebbero vigore in altre
epoche della nostra confessione religiosa. La fede è rimasta sostanzialmente la
medesima, ma il modo di vivere dei cristiani nella storia è molto cambiato. Per
altro, a mio parere, il Concilio Vaticano
2° non ha inventato nulla di ciò
che di nuovo si è prodotto. Nelle intenzioni del papa Giovanni 23°, il quale lo
indisse, esso aveva come scopo principale un aggiornamento delle leggi della Chiesa a una realtà che già i fedeli stavano vivendo e praticando. Il
risultato fu però qualcosa di più: quelle leggi furono concepite in modo da
imprimere un movimento in avanti nel
corpo ecclesiale, rendendo possibili ulteriori sviluppi delle dinamiche in
atto, che infatti si produssero. Il magistero e l’azione di governo del papa
Giovanni Paolo 2° ne sono stati straordinarie manifestazioni. Ma ancora più
rilevante, anche se forse meno evidenziata nelle grandi fonti informative del
nostro tempo, è stata la spinta che si è creata nella masse dei fedeli. C’è
stata, nella nostra Chiesa, un profondo mutamento della religiosità popolare,
del quale di solito si sottolineano gli aspetti negativi, ma che ne ha avuti
anche di positivi.
Vorrei evitare, in queste mie
brevi note quotidiane, di ripetere cose che potete leggere, scritte meglio, con
più scienza, in altri testi, ai quali rimando. Ragiono partendo dalla mia
personale esperienza, tenendo presenti le esigenze di lavoro del nostro gruppo
di A.C. . Quello che penso di poter dire è questo. A partire dalla metà del
secolo scorso il ruolo delle masse cattoliche, in particolare dei laici, è
diventato più importante nella nostra
Chiesa. Si richiede alla nostra gente un impegno nella società che prima non
era preteso e veniva addirittura visto con sospetto. Lo si vuole informato e
consapevole. Ma non è solo questo: lo si vuole creativo. Infatti l’assunto che i capi ecclesiali avessero il
segreto della migliore organizzazione delle società civili si è rivelato
fallace. E quando il beato Toniolo (1845-1918) scriveva che la salvezza sarebbe
venuta da una società di santi, non
da diplomatici, dotti o eroi, non si riferiva innanzi tutto alla gerarchia
ecclesiale. Questi nuovi compiti che, come laici, siamo chiamati ad assumere
comportano che si decida anche come lavorare insieme, con piena responsabilità.
Non si tratta più infatti di attuare
nel concreto decisioni di massima prese ai vertici.
In qualche modo, quella che
stiamo vivendo è un’era veramente nuova.
Si è presa, ad esempio, maggiore
consapevolezza della rilevanza religiosa delle realtà profane, di ciò che accade fuori degli spazi liturgici. In passato
si era giunti a una sorta di compromessi tra le autorità religiose e quelle
civili, che condividevano le popolazioni a loro soggette. Certe questioni, come
ad esempio le guerre, rimanevano fuori del campo del religioso. Popolazioni cristiane potevano essere arruolate le une
contro le altre, i sacerdoti e i vescovi di ciascuna di esse invocavano il
favore divino e prestavano l’assistenza spirituale ai combattenti e alle loro
famiglie, e non si pensava che qualcuno potesse lecitamente, anche da un punto
di vista religioso, sollevare una obiezione di coscienza in tutto questo. Una
volta che, invece, si decida di intervenire, animati da spirito religioso,
bisogna decidere come farlo tenendo conto che su certe scelte ci si può dividere,
ma che, come Chiesa, bisogna rispettare il comandamento dell’unità del
credenti, ma direi di più, dell’intero genere umano.
Anticipando quello che mi pare
di avere capito, bisogna considerare che sulle questioni sulle quali la gente
di fede ritiene ora di aver voce in capitolo anche sulla base di moventi
religiosi si deve discutere anche in chiesa. Sarebbe strano che non lo si
facesse, che cioè ognuno su argomenti di tale rilevanza fosse lasciato solo nel
capire e nel decidere. Anche perché
nessuno, da solo, può veramente pretendere di poter ideare o scegliere la
soluzione migliore. L’intelligenza dei fatti collettivi richiede una sapienza collettiva. Ma poi l’attuazione
delle scelte deve essere demandata alla responsabilità di ciascuno, non della
Chiesa, che ha rinunciato a questo tipo di potere dal momento che è espressione
embrionale di una realtà che non è di
questo mondo, e ognuno poi agirà insieme ad altri che compongono i vari
corpi sociali implicati nelle decisioni, in modo laico, inteso come non esplicitamente religioso, in modo da
poter coalizzare il massimo consenso possibile. Pensare di attuare esigenze di
fede con lo strumento di corpi sociali civili riproporrebbe infatti la modalità
desueta e impraticabile dell’impero
cristiano. Mentre rivestire di abiti
religiosi certe soluzioni storiche, certe forme organizzative, certi modi di
trasformare la società e la natura intorno ad essa, contrasterebbe con la
libertà di coscienza.
L’Azione Cattolica, nel suo
percorso formativo, ci consiglia esercizi
di laicità, vale a dire di provare in concreto, nei nostri gruppi, a
prendere in esame le nostre relazioni di fedeli cristiani con i corpi sociali
nei quali siamo inseriti e di capire come si possa fare per esprimere
nell’azione civile le nostre idee a fondamento religioso. Questa è una parte
importante del lavoro in Azione Cattolica e che differenzia molto i nostri
gruppi da quelli molto più centrati, ad esempio, su esperienze di spiritualità
religiosa o di preghiera. In questo Anno
della Fede possiamo però sentirci chiamati a qualcosa di più. Ne parla la
lettera apostolica di indizione. Sappiamo abbastanza della storia della nostra
Chiesa, dei problemi che ha dovuto affrontare, delle soluzioni che di volta in
volta sono state attuate? Questa è una parte importante dell’attività alla
quale siamo stati sollecitati. Non si tratta, quindi, solo di conoscere meglio
il catechismo, fosse anche un’opera
piuttosto estesa come il Catechismo della
Chiesa cattolica, il quale pure è sicuramente un utile punto di riferimento.
Bisogna aprire gli occhi sul mondo
intorno a noi. Se non lo conosciamo bene, non possiamo influire su di esso. E a
volte a chi ci circonda può sembrare che la nostra esperienza religiosa abbia
la realtà di un sogno, tanto è
distaccata dalle dinamiche umane concrete. Eppure in certe storie bibliche è
proprio da certi sogni che
scaturiscono importanti decisioni nell’animo della persona di fede. Come in
ogni cosa, quando si tratta di religione, si tratta di tenere tutto insieme, prospettive religiose e prospettive profane,
il cielo e la terra, pur nella consapevolezza della loro diversità. E’ quello
che Giuseppe Lazzati (1909-1986) definiva unità
dei distinti.