Fratelli
tutti
Enciclica
3-10-20
Papa Francesco
Sintesi
Prima
parte, capitoli 1°- 4°, paragrafi 1-154
***************************************
Sabato 21 novembre, alle ore 17: riunione
in Google Meet del gruppo AC Sanclemente!, aperta
anche ai non soci residenti in Italia, sui temi
dell’enciclica Fratelli tutti (in fondo trovate la sintesi
della parte proposta per il dialogo durante l’incontro).
Consiglio di accedere dalle ore 16:45 con il
codice che vi è stato inviato.
A questo indirizzo
di YouTube
https://www.youtube.com/watch?v=GorIYoaHGjk
potrete vedere un video in cui si
insegna, passo per passo, come partecipare.
Le persone che non sono socie e che
abbiano piacere di partecipare, possono chiedere il codice di accesso con una
email a
mario.ardigo@acsanclemente.net
indicando il loro nome, i temi di
interesse e la parrocchia di residenza. Questi dati saranno cancellati dopo
ogni riunione e dovranno essere nuovamente inviati per partecipare ad una
riunione successiva.
**************************************
Sintesi breve
Si accendono conflitti anacronistici che
si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e
aggressivi. Restano in piedi unicamente il bisogno di consumare senza limiti e
l’accentuarsi di molte forme di individualismo senza contenuti. Il bene,
come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una volta
per sempre; vanno conquistati ogni giorno. Che cosa significano oggi
alcune espressioni come democrazia, libertà, giustizia, unità? Sono state
manipolate e deformate per utilizzarle come strumenti di dominio. Dare voce a
tanti percorsi di speranza: Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi
di bene.
All’amore
non importa se il fratello ferito viene da qui o da là. Il modello del buon
samaritano. Far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e
del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale
La
storia del Buon Samaritano si ripete.
Ogni
giorno ci viene offerta una nuova opportunità. Alimentiamo ciò che è buono e
mettiamoci al servizio del bene. Però non facciamolo da soli,
individualmente. Farsi prossimi degli altri.
Il senso sociale dell’esistenza: nessuno
può sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare. L’incontro
con l’umanità al di là del proprio gruppo. Il pericolo più grande è non amare. L’amicizia
sociale: nessuno matura né raggiunge la propria pienezza isolandosi.
Andare
oltre i propri limiti: vale anche per le varie regioni e i vari Paesi. Bisogna avere il
coraggio di dare voce a quanti sono discriminati per la condizione di
disabilità. L’amore che si estende al di là delle frontiere ha come base
ciò che chiamiamo “amicizia sociale” in ogni città e in ogni Paese. Il
futuro non è “monocromatico”, ma, se ne abbiamo il coraggio, è possibile
guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare.
La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza.
La libertà, che è orientata
soprattutto all’amore. L’individualismo non ci rende più liberi, più
uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado
di generare un mondo migliore per tutta l’umanità.
Ogni
essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente. Uno Stato presente e
attivo, e istituzioni della società civile che vadano oltre la libertà dei
meccanismi efficientisti di certi sistemi economici, politici o ideologici. Se
la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e
dell’efficienza, la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica.
I diritti
umani: se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più
grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare
sorgente di conflitti e di violenze.
Il
valore della solidarietà, una parola che non sempre piace. La solidarietà,
intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che
fanno i movimenti popolari. Avere cura della casa comune che è il pianeta.
Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto
naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei
beni creati. Nessuno dunque può rimanere escluso, a prescindere da dove
sia nato. Lo sviluppo non
dev’essere orientato all’accumulazione crescente di pochi. Il diritto di
alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare al di sopra dei
diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di sopra del
rispetto dell’ambiente.
Una nuova rete di relazioni internazionali:
abbiamo bisogno di far crescere la consapevolezza che, anche nei rapporti tra
gli Stati, oggi o ci salviamo tutti o nessuno
si salva.
La
gratuità fraterna: Viverla nell’universale e nel particolare. Il bene del mondo
richiede che ognuno protegga e ami la propria terra. Viceversa, le conseguenze
del disastro di un Paese si ripercuoteranno su tutto il pianeta. Ogni cultura sana è
per natura aperta e accogliente, così che «una cultura senza valori universali
non è una vera cultura». La società mondiale non è il risultato della
somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi.
Oggi nessuno Stato nazionale isolato è in grado di assicurare il bene comune
della propria popolazione.
Un mondo dipinto a tinte fosche. La condanna della
modernità. “Che cosa significano oggi alcune espressioni come democrazia,
libertà, giustizia, unità? Sono state manipolate e deformate per utilizzarle
come strumenti di dominio. […] Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa
misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale.”
Gli ideali illuministi della fraternità universale e della pace perpetua
proiettati nel Medioevo europeo.
1. «Fratelli tutti»
[Ammonizioni, 6,
1: Fonti Francescane 155] scriveva San Francesco d’Assisi per
rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e dichiara beato colui che ama l’altro
«quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui». Con queste
poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità
aperta.
Questo
Santo dell’amore fraterno, della semplicità e della gioia, che mi ha ispirato a
scrivere l’Enciclica Laudato si’, nuovamente mi motiva a
dedicare questa nuova Enciclica alla fraternità e all’amicizia sociale.
La
fedeltà al suo Signore era proporzionale al suo amore per i fratelli e le
sorelle. Senza ignorare le difficoltà e i pericoli, San Francesco andò a
incontrare il Sultano Malik-al-Kamil in Egitto, col medesimo atteggiamento che
esigeva dai suoi discepoli: che, senza negare la propria identità, trovandosi
«tra i saraceni o altri infedeli […], non facciano liti o dispute, ma siano
soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio»..
Egli non faceva la guerra dialettica imponendo
dottrine, ma comunicava l’amore di Dio. Aveva compreso che «Dio è amore; chi
rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4,16).
In questo modo è stato un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una
società fraterna.
2. Le questioni legate alla fraternità e
all’amicizia sociale sono sempre state tra le mie preoccupazioni. Negli ultimi
anni ho fatto riferimento ad esse più volte e in diversi luoghi. Ho voluto
raccogliere in questa Enciclica molti di tali interventi collocandoli in un
contesto più ampio di riflessione.
Se
nella redazione della Laudato si’ ho avuto una fonte
di ispirazione nel mio fratello Bartolomeo, il Patriarca ortodosso che ha
proposto con molta forza la cura del creato, in questo caso mi sono sentito
stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, con il quale
mi sono incontrato ad Abu Dhabi per ricordare che Dio «ha creato tutti gli
esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a
convivere come fratelli tra di loro».
Questa
Enciclica raccoglie e sviluppa grandi temi esposti in quel Documento che
abbiamo firmato insieme. E qui ho anche recepito, con il mio linguaggio, numerosi
documenti e lettere che ho ricevuto da tante persone e gruppi di tutto il
mondo.
Le pagine che seguono non pretendono di
riassumere la dottrina sull’amore fraterno, ma si soffermano sulla sua
dimensione universale, sulla sua apertura a tutti. Ho cercato di farlo in modo
che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà.
3. La pandemia del Covid-19, che ha messo
in luce le nostre false sicurezze. Al di là delle varie risposte che hanno dato
i diversi Paesi, è apparsa evidente l’incapacità di agire insieme.
Desidero tanto che, in questo tempo che ci è
dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far
rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità.
4. Propongo soltanto di porre attenzione ad
alcune tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità
universale.
Per
decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e
si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione. Per esempio, si è
sviluppato il sogno di un’Europa unita.
Ugualmente
ha preso forza l’aspirazione ad un’integrazione latinoamericana.
In altri Paesi e regioni vi sono stati
tentativi di pacificazione e avvicinamenti che hanno portato frutti e altri che
apparivano promettenti.
Ma la storia sta dando segni di un ritorno
all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati,
risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. In vari
Paesi un’idea dell’unità del popolo e della nazione crea nuove forme di egoismo
e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli
interessi nazionali.
Il
bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una
volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno. Non è possibile accontentarsi
di quello che si è già ottenuto nel passato.
“Aprirsi al mondo” è un’espressione che oggi è
stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente
all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di
investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e
il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia
globale per imporre un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo
ma divide le persone e le nazioni.
Aumentano
piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori o di
spettatori. L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità
dei più forti che proteggono sé stessi,.
Per
questo stesso motivo si favorisce anche una perdita del senso della storia che
provoca ulteriore disgregazione. Si avverte la penetrazione culturale di una
sorta di “decostruzionismo”, per cui la libertà umana pretende di costruire
tutto a partire da zero. Restano in piedi unicamente il bisogno di consumare
senza limiti e l’accentuarsi di molte forme di individualismo senza contenuti.
Sono
le nuove forme di colonizzazione culturale.
Un
modo efficace di dissolvere la coscienza storica, il pensiero critico,
l’impegno per la giustizia e i percorsi di integrazione è quello di svuotare di
senso o alterare le grandi parole. Che cosa significano oggi alcune espressioni
come democrazia, libertà, giustizia, unità? Sono state manipolate e deformate
per utilizzarle come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto che
possono servire per giustificare qualsiasi azione.
Oggi
in molti Paesi si utilizza il meccanismo politico di esasperare, esacerbare e
polarizzare. Con varie modalità si nega ad altri il diritto di esistere e di
pensare, e a tale scopo si ricorre alla strategia di ridicolizzarli, di
insinuare sospetti su di loro, di accerchiarli. Non si accoglie la loro parte
di verità, i loro valori, e in questo modo la società si impoverisce e si
riduce alla prepotenza del più forte. La politica così non è più una sana
discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene
comune, bensì solo ricette effimere di marketing che trovano
nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace. In questo gioco meschino
delle squalificazioni, il dibattito viene manipolato per mantenerlo allo stato
di controversia e contrapposizione.
Com’è
possibile alzare la testa per riconoscere il vicino o mettersi accanto a chi è
caduto lungo la strada?
Prendersi
cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi
stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune.
Certe
parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che
favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti.
In
fondo, «le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e
tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i
nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani. Siamo diventati
insensibili ad ogni forma di spreco, a partire da quello alimentare, che è tra
i più deprecabili».
[Ci
si convince] che tutto finisce con noi, che contano solo i nostri interessi
individuali. Così, oggetto di scarto non sono solo il cibo o i beni superflui,
ma spesso gli stessi esseri umani.
Ci sono regole economiche che sono risultate
efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano
integrale. È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che
accade è che nascono nuove povertà.
Quando
si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con
criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale.
Molte
volte si constata che, di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti.
Osservando
con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano numerose
contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di tutti
gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia riconosciuta,
rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono oggi nel mondo
numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da
un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a
scartare e perfino ad uccidere l’uomo.
Che
cosa dice questo riguardo all’uguaglianza di diritti fondata sulla medesima
dignità umana?
Analogamente,
l’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal
rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e
identici diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le
decisioni e la realtà gridano un altro messaggio.
Ancora
oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private
della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della
schiavitù.
Oggi come ieri, alla radice della schiavitù si
trova una concezione della persona umana che ammette la possibilità di
trattarla come un oggetto.
La persona umana, viene privata della libertà,
mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come un mezzo e
non come un fine.
Guerre, attentati, persecuzioni per motivi
razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati
in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi,
essenzialmente economici. Ciò che è vero quando conviene a un potente, cessa di
esserlo quando non è nel suo interesse. Tali situazioni di violenza vanno
«moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le
fattezze di quella che si potrebbe chiamare una terza guerra mondiale a pezzi.
Questo non stupisce se notiamo la mancanza di
orizzonti in grado di farci convergere in unità.
Paradossalmente, ci sono paure ancestrali che
non sono state superate dal progresso tecnologico; anzi, hanno saputo
nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie.
Di
conseguenza si creano nuove barriere di autodifesa, così che non esiste più il
mondo ed esiste unicamente il “mio” mondo, fino al punto che molti non vengono
più considerati esseri umani con una dignità inalienabile e diventano
semplicemente “quelli”.
Non
ignoriamo gli sviluppi positivi avvenuti nella scienza, nella tecnologia, nella
medicina, nell’industria e nel benessere, soprattutto nei Paesi sviluppati. Ciò
nonostante, sottolineiamo che, insieme a tali progressi storici, grandi e
apprezzati, si verifica un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire
internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di
responsabilità.
Nel
mondo attuale i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si
indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace
sembra un’utopia di altri tempi. Vediamo come domina un’indifferenza di comodo,
fredda e globalizzata, figlia di una profonda disillusione che si cela dietro
l’inganno di una illusione: credere che possiamo essere onnipotenti e
dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca. Questo disinganno, che lascia
indietro i grandi valori fraterni, conduce a una sorta di cinismo.
Una
tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per
un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga
sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati
che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme.
Il
colpo duro e inaspettato di questa pandemia fuori controllo ha obbligato per
forza a pensare agli esseri umani, a tutti, più che al beneficio di alcuni.
Se tutto è connesso, è difficile pensare che
questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci
rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita
e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire che si tratta di una sorta di
castigo divino. E neppure basterebbe affermare che il danno causato alla natura
alla fine chiede il conto dei nostri soprusi.
Passata
la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più
in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia
il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”.
Se
non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di
appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni,
l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in
preda alla nausea e al vuoto.
I migranti vengono considerati non
abbastanza degni di partecipare alla vita sociale come qualsiasi altro, e si
dimentica che possiedono la stessa intrinseca dignità di qualunque persona.
Pertanto, devono essere “protagonisti del proprio riscatto”. Non si dirà mai
che non sono umani, però in pratica, con le decisioni e il modo di trattarli,
si manifesta che li si considera di minor valore, meno importanti, meno umani.
È inaccettabile che i cristiani condividano questa mentalità e questi
atteggiamenti.
Comprendo
che di fronte alle persone migranti alcuni nutrano dubbi o provino timori. Lo
capisco come un aspetto dell’istinto naturale di autodifesa. Ma è anche vero
che una persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente
dentro di sé l’apertura agli altri.
Paradossalmente,
mentre crescono atteggiamenti chiusi e intolleranti che ci isolano rispetto
agli altri, si riducono o spariscono le distanze.
C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni
del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito
delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della
comunicazione umana. I rapporti digitali non costruiscono veramente un “noi”,
ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo che si
esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei deboli.
L’aggressività
sociale trova nei dispositivi mobili e nei computer uno spazio di diffusione
senza uguali.
Ciò
ha permesso che le ideologie abbandonassero ogni pudore. Quello che fino a
pochi anni fa non si poteva dire di nessuno senza il rischio di perdere il
rispetto del mondo intero, oggi si può esprimere nella maniera più cruda anche
per alcune autorità politiche e rimanere impuniti.
Occorre
riconoscere che i fanatismi che inducono a distruggere gli altri hanno per
protagonisti anche persone religiose, non esclusi i cristiani.
La
vera saggezza presuppone l’incontro con la realtà. Ma oggi tutto si può produrre,
dissimulare, modificare. Questo fa sì che l’incontro diretto con i limiti della
realtà diventi insopportabile.
Il
mettersi seduti ad ascoltare l’altro, caratteristico di un incontro umano, è un
paradigma di atteggiamento accogliente, di chi supera il narcisismo e accoglie
l’altro, gli presta attenzione, gli fa spazio nella propria cerchia.
San Francesco d’Assisi ha ascoltato la
voce di Dio, ha ascoltato la voce del povero, ha ascoltato la voce del malato,
ha ascoltato la voce della natura. E tutto questo lo trasforma in uno stile di
vita. Spero che il seme di San Francesco cresca in tanti cuori.
Possiamo cercare insieme la verità nel
dialogo, nella conversazione pacata o nella discussione appassionata.
La
saggezza non si fabbrica con impazienti ricerche in internet, e non
è una sommatoria di informazioni la cui veracità non è assicurata. In questo
modo non si matura nell’incontro.
Alcuni
Paesi forti dal punto di vista economico vengono presentati come modelli
culturali per i Paesi poco sviluppati, invece di fare in modo che ognuno cresca
con lo stile che gli è peculiare, sviluppando le proprie capacità di innovare a
partire dai valori della propria cultura. [ciò] dà luogo a un’autostima
nazionale molto bassa.
Demolire
l’autostima di qualcuno è un modo facile di dominarlo. Dietro le tendenze che
mirano ad omogeneizzare il mondo, affiorano interessi di potere che beneficiano
della scarsa stima di sé, nel momento stesso in cui, attraverso i media e
le reti, si cerca di creare una nuova cultura al servizio dei più potenti.
Si
dimentica che non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici,
di non appartenere a nessuno.
Malgrado
queste dense ombre, che non vanno ignorate, nelle pagine seguenti desidero dare
voce a tanti percorsi di speranza. Dio infatti continua a seminare nell’umanità
semi di bene.
Invito alla speranza, che ci parla di una
realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle
circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive.
All’amore non importa se
il fratello ferito viene da qui o da là. Il modello del buon samaritano. Far
risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero,
costruttori di un nuovo legame sociale
5. La parabola del Buon Samaritano à raccoglie uno sfondo di
secoli.
Gesù racconta che c’era un uomo ferito, a
terra lungo la strada, che era stato assalito. Passarono diverse persone
accanto a lui ma se ne andarono, non si fermarono. Erano persone con funzioni
importanti nella società, che non avevano nel cuore l’amore per il bene comune.
Non sono state capaci di perdere alcuni minuti per assistere il ferito o almeno
per cercare aiuto. Uno si è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con
le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato di lui.
Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso lesiniamo
tanto: gli ha dato il proprio tempo. Sicuramente egli aveva i suoi programmi
per usare quella giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è
stato capace di mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza
conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo tempo.
Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura,
diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo riconoscere la
tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più
deboli.
Poco
dopo la narrazione della creazione del mondo e dell’essere umano, la Bibbia
presenta la sfida delle relazioni tra di noi. Caino elimina suo fratello Abele,
e risuona la domanda di Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (dal libro della
Genesi 4,9). La risposta è la stessa che spesso diamo noi: «Sono forse io
il custode di mio fratello?» Con la sua
domanda, Dio mette in discussione ogni tipo di determinismo o fatalismo che
pretenda di giustificare l’indifferenza come unica risposta possibile. Ci
abilita, al contrario, a creare una cultura diversa, che ci orienti a superare
le inimicizie e a prenderci cura gli uni degli altri.
Il libro di Giobbe ricorre al fatto di avere
un medesimo Creatore come base per sostenere alcuni diritti comuni: «Chi ha
fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a formarci
nel grembo?» (31,15). Molti secoli dopo, Sant’Ireneo si esprimerà in modo
diverso con l’immagine della melodia: «Dunque chi ama la verità non deve
lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno
sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il
creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo».
L’antico
precetto [dell’ebraismo antico] «amerai il tuo prossimo come te stesso» (dal libro
del Levitico 19,18) si intendeva ordinariamente riferito ai connazionali.
Tuttavia, specialmente nel giudaismo sviluppatosi fuori dalla terra d’Israele,
i confini si andarono ampliando. Comparve l’invito a non fare agli altri ciò
che non vuoi sia fatto a te (come nel libro di Tobia 4,15. Il desiderio di
imitare gli atteggiamenti divini condusse a superare quella tendenza a
limitarsi ai più vicini: «La misericordia dell’uomo riguarda il suo prossimo,
la misericordia del Signore ogni essere vivente» (dal libro del Siracide 18,13).
Nel
Nuovo Testamento [troviamo questo precetto: «Tutto quanto volete che gli uomini
facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti»
(dal Vangelo secondo Matto 7,12). Tale appello è universale, tende ad
abbracciare tutti, solo per la loro condizione umana, perché l’Altissimo, il
Padre celeste «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (dal Vangelo
secondo Matteo 5,45). E di conseguenza si esige: «Siate misericordiosi, come il
Padre vostro è misericordioso» (dal Vangelo secondo Luca 6,36).
C’è una motivazione per allargare il cuore in
modo che non escluda lo straniero, e la si può trovare già nei testi più
antichi della Bibbia. È dovuta al costante ricordo del popolo ebraico di aver
vissuto come straniero in Egitto.
Nel Nuovo Testamento risuona con forza
l’appello all’amore fraterno:
«Tutta la Legge infatti trova la sua
pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (dalla
lettera di san Paolo apostolo ai Galati 5,14).
«Chi ama suo fratello, rimane nella
luce e non vi è in lui occasione d’inciampo. Ma chi odia suo fratello, è nelle
tenebre» (dalla prima lettera di Giovanni 2,10-11).
«Noi sappiamo che siamo passati dalla
morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte»
(dalla prima lettera di Giovanni 3,14).
«Chi infatti non ama il proprio
fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (dalla prima lettera di
Giovanni 4,20).
Davanti
alla tentazione delle prime comunità cristiane di formare gruppi chiusi e
isolati, San Paolo esortava i suoi discepoli ad avere carità tra di loro «e
verso tutti» (dalla prima lettera ai Tessalonicesi 3,12); e nella comunità
di Giovanni si chiedeva che fossero accolti bene i «fratelli, benché stranieri»
(dalla terza lettera di Giovanni 1,5). Tale contesto aiuta a comprendere il
valore della parabola del buon samaritano: all’amore non importa se il fratello
ferito viene da qui o da là.
Diciamolo, siamo cresciuti in tanti
aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili
e deboli delle nostre società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo
sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano
direttamente. Meglio non cadere in questa miseria. Guardiamo il modello del
buon samaritano. È un testo che ci invita a far risorgere la nostra vocazione
di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo
legame sociale. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è
essere come il buon samaritano. Siamo
stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere
indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo
lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”.
La storia del Buon Samaritano
si ripete.
6. Oggi, e sempre di più, ci sono persone
ferite. Ogni giorno ci troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani
oppure viandanti indifferenti che passano a distanza. E se estendiamo lo
sguardo alla totalità della nostra storia e al mondo nel suo insieme, tutti siamo
o siamo stati come questi personaggi: tutti abbiamo qualcosa dell’uomo ferito,
qualcosa dei briganti, qualcosa di quelli che passano a distanza e qualcosa del
buon samaritano.
Ci sono due tipi di persone: quelle che si
fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano
riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il
passo.
La storia del buon samaritano si ripete: risulta sempre
più evidente che l’incuranza sociale e politica fa di molti luoghi del mondo
delle strade desolate, dove le dispute interne e internazionali e i saccheggi
di opportunità lasciano tanti emarginati a terra sul bordo della strada.
Abbiamo
visto avanzare nel mondo le dense ombre dell’abbandono, della violenza
utilizzata per meschini interessi di potere, accumulazione e divisione.
Ci
sono tanti modi di passare a distanza, complementari tra loro. Uno è ripiegarsi
su di sé, disinteressarsi degli altri, essere indifferenti. Un altro sarebbe
guardare solamente al di fuori [al] progetto di [un] Paese importato.
Il
fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio
piace. Una persona di fede può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa
esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri.
Ci sono invece dei modi di vivere la fede che favoriscono l’apertura del cuore
ai fratelli, e quella sarà la garanzia di un’autentica apertura a Dio. San
Giovanni Crisostomo [vissuto tra il 4° e il 5° secolo della nostra era] giunse
ad esprimere con grande chiarezza tale sfida che si presenta ai cristiani:
«Volete onorare veramente il corpo di Cristo? Non disprezzatelo quando è nudo.
Non onoratelo nel tempio con paramenti di seta, mentre fuori lo lasciate a
patire il freddo e la nudità». Il paradosso è che, a volte, coloro che
dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti.
Si
chiude il cerchio tra quelli che usano e ingannano la società per prosciugarla
e quelli che pensano di mantenere la purezza nella loro funzione critica, ma
nello stesso tempo vivono di quel sistema e delle sue risorse. C’è una triste
ipocrisia.
[Al sostenere che “tutto va male”
corrisponde un “nessuno può aggiustare le cose”, “che posso fare io?”. In tal
modo, si alimenta il disincanto e la mancanza di speranza, e ciò non incoraggia
uno spirito di solidarietà e di generosità. Far sprofondare un popolo nello
scoraggiamento è la chiusura di un perfetto circolo vizioso: così opera la
dittatura invisibile dei veri interessi occulti, che si sono impadroniti delle
risorse e della capacità di avere opinioni e di pensare.
A
volte ci sentiamo [anche noi] gravemente feriti e a terra sul bordo della
strada. Ci sentiamo anche abbandonati dalle nostre istituzioni sguarnite e
carenti, o rivolte al servizio degli interessi di pochi, all’esterno e
all’interno. Sotto il rivestimento del
politicamente corretto o delle mode ideologiche, si guarda alla persona che
soffre senza toccarla.
Ogni giorno ci viene
offerta una nuova opportunità. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al
servizio del bene. Però non facciamolo
da soli, individualmente. Farsi prossimi degli altri.
7. Ogni
giorno ci viene offerta una nuova opportunità, una nuova tappa. Non dobbiamo
aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno
spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e
trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel
sostegno delle società ferite. Oggi siamo di fronte alla grande occasione
di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che
prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e
risentimenti.
Che
altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di
potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene.
È possibile cominciare dal basso e caso per
caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della
patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per
ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della
realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto
il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. Però non facciamolo da
soli, individualmente.
Rinunciamo alla meschinità e al risentimento
dei particolarismi sterili, delle contrapposizioni senza fine.
Smettiamo
di nascondere il dolore delle perdite e facciamoci carico dei nostri delitti,
della nostra ignavia e delle nostre menzogne. La riconciliazione riparatrice ci
farà risorgere e farà perdere la paura a noi stessi e agli
altri.
Tutti
abbiamo una responsabilità riguardo a quel ferito che è il popolo stesso e
tutti i popoli della terra.
Gesù propose questa parabola per
rispondere a una domanda: chi è il mio prossimo? La parola “prossimo” nella
società dell’epoca di Gesù indicava di solito chi è più vicino, prossimo. Si
intendeva che l’aiuto doveva rivolgersi anzitutto a chi appartiene al proprio
gruppo, alla propria razza.
Il
giudeo Gesù rovescia completamente questa impostazione: non ci chiama a
domandarci chi sono quelli vicini a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi.
La
conclusione di Gesù è una richiesta: «Va’ e anche tu fa’ così» (dal Vangelo
secondo Luca 10,37). Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni
differenza e, davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque. Dunque,
non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a
diventare io un prossimo degli altri.
L’incontro misericordioso della parabola tra
un samaritano e un giudeo è una potente provocazione, che smentisce ogni
manipolazione ideologica, affinché allarghiamo la nostra cerchia, dando alla
nostra capacità di amare una dimensione universale, in grado di superare tutti
i pregiudizi, tutte le barriere storiche o culturali, tutti gli interessi
meschini.
Ricordo
che in un altro passo del Vangelo Gesù dice: «Ero straniero e mi avete accolto»
(dal Vangelo secondo Matteo 25,35).
Per i cristiani, le parole di Gesù hanno
anche un’altra dimensione, trascendente. Implicano il riconoscere Cristo stesso
in ogni fratello abbandonato o escluso (come nel Vangelo secondo Matteo 25,40.45).
In realtà, la fede colma di motivazioni inaudite il riconoscimento dell’altro,
perché chi crede può arrivare a riconoscere che Dio ama ogni essere umano con
un amore infinito e che «gli conferisce con ciò una dignità infinita».
Il senso sociale dell’esistenza. Nessuno può sperimentare il valore della vita
senza volti concreti da amare. L’incontro con l’umanità al di là del proprio gruppo.
Il pericolo più grande è non amare. L’amicizia sociale: nessuno matura né
raggiunge la propria pienezza isolandosi.
8. A volte mi rattrista il fatto che, pur
dotata di tali motivazioni, la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per
condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza. Oggi, con lo
sviluppo della spiritualità e della teologia, non abbiamo scuse. Tuttavia, ci
sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati
dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento,
atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che
sono diversi. La fede, con l’umanesimo che ispira, deve mantenere vivo un senso
critico davanti a queste tendenze e aiutare a reagire rapidamente quando
cominciano a insinuarsi. Perciò è importante che la catechesi e la predicazione
includano in modo più diretto e chiaro il senso sociale dell’esistenza, la
dimensione fraterna della spiritualità, la convinzione sull’inalienabile
dignità di ogni persona e le motivazioni per amare e accogliere tutti.
Nessuno
può sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare. Qui sta un
segreto dell’autentica esistenza umana.
L’amore
crea legami e allarga l’esistenza quando fa uscire la persona da sé stessa
verso l’altro. Siamo fatti per l’amore.
D’altra
parte, non posso ridurre la mia vita alla relazione con un piccolo gruppo e
nemmeno alla mia famiglia, perché è impossibile capire me stesso senza un
tessuto più ampio di relazioni: non solo quello attuale ma anche quello che mi
precede e che è andato configurandomi nel corso della mia vita. La nostra
relazione, se è sana e autentica, ci apre agli altri che ci fanno crescere e ci
arricchiscono.
I
gruppi chiusi e le coppie autoreferenziali, che si costituiscono come un “noi”
contrapposto al mondo intero, di solito sono forme idealizzate di egoismo e di
mera autoprotezione.
Benché
potesse disturbare l’ordine e il silenzio dei monasteri, Benedetto esigeva che
i poveri e i pellegrini fossero trattati con tutto il riguardo e la premura
possibili». L’ospitalità è un modo concreto di non privarsi di questa
sfida e di questo dono che è l’incontro con l’umanità al di là del proprio gruppo.
Per
orientare adeguatamente gli atti delle varie virtù morali, bisogna considerare
anche in quale misura essi realizzino un dinamismo di apertura e di unione
verso altre persone. Tale dinamismo è la carità che Dio infonde. Altrimenti,
avremo forse solo un’apparenza di virtù, e queste saranno incapaci di costruire
la vita in comune.
La
statura spirituale di un’esistenza umana è definita dall’amore, che in ultima
analisi è il criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di
una vita umana». Tuttavia, ci sono credenti che pensano che la loro grandezza
consista nell’imporre le proprie ideologie agli altri, o nella difesa violenta
della verità, o in grandi dimostrazioni di forza. Tutti noi credenti dobbiamo
riconoscere questo: al primo posto c’è l’amore, ciò che mai dev’essere messo a
rischio è l’amore, il pericolo più grande è non amare (si legga nella prima
lettera di San paolo apostolo ai Corinzi 13,1-13).
L’amore
implica qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. L’amore all’altro
per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando
questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non
esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti.
L’amore,
infine, ci fa tendere verso la comunione universale. Nessuno matura né
raggiunge la propria pienezza isolandosi. Per sua stessa dinamica, l’amore
esige una progressiva apertura, maggiore capacità di accogliere gli altri, in
un’avventura mai finita che fa convergere tutte le periferie verso un pieno
senso di reciproca appartenenza. Gesù ci ha detto: «Voi siete tutti fratelli» (dal
Vangelo secondo Matteo 23,8).
Andare oltre i propri limiti: vale anche per le varie regioni e i vari
Paesi. Bisogna avere il coraggio di dare voce a quanti
sono discriminati per la condizione di disabilità. L’amore che si
estende al di là delle frontiere ha come base ciò che chiamiamo “amicizia sociale”
in ogni città e in ogni Paese. Il futuro non è “monocromatico”, ma, se
ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità
degli apporti che ciascuno può dare. La fraternità ha qualcosa di
positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. La libertà, che è orientata soprattutto all’amore.
L’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera
somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore
per tutta l’umanità.
9. Questo bisogno di andare oltre i propri limiti vale anche per le varie
regioni e i vari Paesi. Di fatto, il numero sempre crescente di
interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il nostro pianeta rende più
palpabile la consapevolezza dell’unità e della condivisione di un comune
destino tra le Nazioni della terra. Nei dinamismi della storia, pur nella
diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la
vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono
reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri».
Ci sono periferie che si
trovano vicino a noi, nel centro di una città, o nella propria famiglia. C’è
anche un aspetto dell’apertura universale dell’amore che non è geografico ma
esistenziale. È la capacità quotidiana di allargare la mia cerchia, di arrivare
a quelli che spontaneamente non sento parte del mio mondo di interessi, benché
siano vicino a me.
Voglio
ricordare quegli “esiliati occulti” che vengono trattati come corpi estranei
della società. Tante persone con disabilità sentono di esistere senza
appartenere e senza partecipare. Ci sono ancora molte cose che impediscono loro
una cittadinanza piena. L’obiettivo è non solo assisterli, ma la loro partecipazione
attiva alla comunità civile ed ecclesiale.
Ugualmente
penso alle persone anziane che, anche a motivo della disabilità, sono sentite a
volte come un peso. Mi permetto di insistere: bisogna avere il coraggio di dare
voce a quanti sono discriminati per la condizione di disabilità, perché
purtroppo in alcune Nazioni, ancora oggi, si stenta a riconoscerli come persone
di pari dignità.
L’amore che si estende
al di là delle frontiere ha come base ciò che chiamiamo “amicizia sociale” in
ogni città e in ogni Paese. Quando è genuina, questa amicizia sociale
all’interno di una società è condizione di possibilità di una vera apertura
universale. Chi guarda il suo popolo con disprezzo, stabilisce nella propria
società categorie di prima e di seconda classe, di persone con più o meno
dignità e diritti. In tal modo nega che ci sia spazio per tutti.
Neppure sto proponendo un universalismo
autoritario e astratto, dettato o pianificato da alcuni e presentato come un
presunto ideale allo scopo di omogeneizzare, dominare e depredare. C’è un
modello di globalizzazione che mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale
e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale
ricerca di unità. […] Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali,
come se fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la peculiarità di
ciascuna persona e di ciascun popolo». Questo falso sogno universalistico
finisce per privare il mondo della varietà dei suoi colori, della sua bellezza
e in definitiva della sua umanità. Perché il futuro non è “monocromatico”, ma,
se ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo nella varietà e nella
diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra
famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che
dobbiamo essere tutti uguali!».
La
fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà
individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. Benché queste siano
condizioni di possibilità, non bastano perché essa ne derivi come risultato
necessario. La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e
all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità. Succede che la libertà si
restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura
autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e
godere. Questo non esaurisce affatto la ricchezza della libertà, che è
orientata soprattutto all’amore.
L’uguaglianza
è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità.
Coloro che sono capaci solamente di essere soci creano mondi chiusi. L’individualismo
non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi
individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità.
Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali.
C’è
un riconoscimento basilare, essenziale da compiere per camminare verso
l’amicizia sociale e la fraternità universale: rendersi conto di quanto vale un
essere umano, quanto vale una persona, sempre e in qualunque circostanza. Se
ciascuno vale tanto, bisogna dire con chiarezza e fermezza che il solo fatto di
essere nati in un luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifica che
alcune persone vivano con minore dignità». Questo è un principio elementare
della vita sociale, che viene abitualmente e in vari modi ignorato da quanti
vedono che non conviene alla loro visione del mondo o non serve ai loro fini.
Ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi
integralmente. Uno Stato presente e attivo, e istituzioni della
società civile che vadano oltre la libertà dei meccanismi efficientisti di
certi sistemi economici, politici o ideologici. Se la società si regge
primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, la
fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica.
10. Ogni essere
umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun Paese può
negare tale diritto fondamentale. Quando questo principio elementare non è
salvaguardato, non c’è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza
dell’umanità.
Vi
sono società che accolgono questo principio parzialmente. Accettano che ci
siano opportunità per tutti, però sostengono che, posto questo, tutto dipende
da ciascuno. Investire a favore delle persone fragili può non essere
redditizio, può comportare minore efficienza. Esige uno Stato presente e
attivo, e istituzioni della società civile che vadano oltre la libertà dei
meccanismi efficientisti di certi sistemi economici, politici o ideologici,
perché veramente si orientano prima di tutto alle persone e al bene comune.
Alcuni
nascono in famiglie di buone condizioni economiche, ricevono una buona
educazione, crescono ben nutriti, o possiedono naturalmente capacità notevoli.
Essi sicuramente non avranno bisogno di uno Stato attivo e chiederanno solo
libertà. Ma evidentemente non vale la stessa regola per una persona disabile,
per chi è nato in una casa misera, per chi è cresciuto con un’educazione di
bassa qualità e con scarse possibilità di curare come si deve le proprie
malattie. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di
mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà
tutt’al più un’espressione romantica.
La
semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali
impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso
al lavoro, diventa un discorso contraddittorio».Una società umana e fraterna è
in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti
siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per provvedere ai
bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se il loro
rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se lo loro
efficienza sarà poco rilevante.
11. La
persona umana, coi suoi diritti inalienabili, è naturalmente aperta ai legami.
Nella sua stessa radice abita la chiamata a trascendere sé stessa nell’incontro
con gli altri. Per questo occorre prestare attenzione per non cadere in alcuni
equivoci che possono nascere da un fraintendimento del concetto di diritti
umani e da un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una
rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali – sono tentato di dire
individualistici –, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni
contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade” (monás),
sempre più insensibile […]. Se il diritto di ciascuno non è armonicamente
ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque
per diventare sorgente di conflitti e di violenze.
Il
desiderio e la ricerca del bene degli altri e di tutta l’umanità implicano anche
di adoperarsi per una maturazione delle persone e delle società nei diversi
valori morali che conducono ad uno sviluppo umano integrale. Nel Nuovo
Testamento si menziona un frutto dello Spirito Santo (si legga nella lettera di
san Paolo apostolo ai Galati 5,22) definito con il termine greco agathosyne.
Indica l’attaccamento al bene, la ricerca del bene. Più ancora, è procurare ciò
che vale di più, il meglio per gli altri: la loro maturazione, la loro crescita
in una vita sana, l’esercizio dei valori e non solo il benessere materiale. C’è
un’espressione latina simile: bene-volentia, cioè l’atteggiamento
di volere il bene dell’altro. È un forte desiderio del bene, un’inclinazione
verso tutto ciò che è buono ed eccellente, che ci spinge a colmare la vita
degli altri di cose belle, sublimi, edificanti.
In
questa linea, torno a rilevare con dolore che già troppo a lungo siamo stati
nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede,
dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra
superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della
vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri
interessi». Volgiamoci a promuovere il bene, per noi stessi e per tutta
l’umanità, e così cammineremo insieme verso una crescita genuina e integrale.
Ogni società ha bisogno di assicurare la trasmissione dei valori, perché se
questo non succede si trasmettono l’egoismo, la violenza, la corruzione nelle
sue varie forme, l’indifferenza e, in definitiva, una vita chiusa ad ogni
trascendenza e trincerata negli interessi individuali.
Il valore della
solidarietà, una parola che non sempre piace. La solidarietà, intesa nel suo
senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i
movimenti popolari. Avere cura della casa
comune che è il pianeta. Il diritto alla proprietà privata si può
considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio
della destinazione universale dei beni creati. Nessuno dunque può
rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato. Lo sviluppo non dev’essere orientato
all’accumulazione crescente di pochi. Il diritto di alcuni alla libertà
di impresa o di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e
della dignità dei poveri; e neppure al di sopra del rispetto dell’ambiente.
12.
Desidero mettere in risalto la solidarietà, che come virtù morale e
atteggiamento sociale, frutto della conversione personale, esige un impegno da
parte di una molteplicità di soggetti, che hanno responsabilità di carattere
educativo e formativo.
In
questi momenti, nei quali tutto sembra dissolversi e perdere consistenza, ci fa
bene appellarci alla solidità che deriva dal saperci responsabili della
fragilità degli altri cercando un destino comune. La solidarietà si esprime
concretamente nel servizio, che può assumere forme molto diverse nel modo di
farsi carico degli altri. I
Il
servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua
prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la promozione del
fratello. Per tale ragione il servizio non è mai ideologico, dal momento che
non serve idee, ma persone».
Solidarietà
è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata
in una cattiva parola, non si può dire; ma è una parola che esprime molto più
che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di
comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte
di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la
disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione
dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori
dell’Impero del denaro.
La solidarietà, intesa nel suo senso più
profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i movimenti
popolari.
Quando
parliamo di avere cura della casa comune che è il pianeta, ci appelliamo a quel
minimo di coscienza universale e di preoccupazione per la cura reciproca che
ancora può rimanere nelle persone. [Significa raggiungere] un livello morale che permette di andare oltre
sé stesso e il proprio gruppo di appartenenza. Questo stesso atteggiamento è
quello che si richiede per riconoscere i diritti di ogni essere umano, benché
sia nato al di là delle proprie frontiere.
Il
mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra
con la stessa dignità. Di conseguenza, come comunità siamo tenuti a garantire
che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità adeguate al suo sviluppo
integrale.
Nei
primi secoli della fede cristiana, diversi sapienti hanno sviluppato un senso
universale nella loro riflessione sulla destinazione comune dei beni creati. Ciò
conduceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità,
è perché un altro se ne sta appropriando.
Lo
riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che «non dare ai poveri parte dei
propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto
possediamo non è nostro, ma loro».Come pure queste parole di San Gregorio
Magno: «Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba
nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene». In questa linea
ricordo che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile
il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di
qualunque forma di proprietà privata. Il principio dell’uso comune dei
beni creati per tutti è il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale, è
un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni
necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della
proprietà privata e qualunque altro, non devono quindi intralciare, bensì, al
contrario, facilitarne la realizzazione. Il diritto alla proprietà privata
si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal
principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze
molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società.
Nessuno
dunque può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a
causa dei privilegi che altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori
opportunità. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che
questo si realizzi. Così come è inaccettabile che una persona abbia meno
diritti per il fatto di essere donna, è altrettanto inaccettabile che il luogo
di nascita o di residenza già di per sé determini minori opportunità di vita
degna e di sviluppo.
Lo
sviluppo non dev’essere orientato all’accumulazione crescente di pochi.
Il
diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare al di
sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di sopra
del rispetto dell’ambiente.
L’attività
degli imprenditori [e le loro capacità che sono un dono di Dio] dovrebbero
essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento
della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro
diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il
prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata
alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di
tutti al loro uso.
Ogni Paese è anche dello
straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una
persona bisognosa che provenga da un altro luogo. Infatti vi sono diritti
fondamentali che precedono qualunque società perché derivano dalla dignità
conferita ad ogni persona in quanto creata da Dio».
Ciò
inoltre presuppone un altro modo di intendere le relazioni e l’interscambio tra
i Paesi. Se ogni persona ha una dignità inalienabile, se ogni essere umano è
mio fratello o mia sorella, e se veramente il mondo è di tutti, non importa se
qualcuno è nato qui o se vive fuori dai confini del proprio Paese. Anche la mia
Nazione è corresponsabile del suo sviluppo.
Questo,
che vale per le nazioni, si applica alle diverse regioni di ogni Paese, tra le
quali si verificano spesso gravi sperequazioni. Ma l’incapacità di riconoscere
l’uguale dignità umana a volte fa sì che le regioni più sviluppate di certi
Paesi aspirino a liberarsi della “zavorra” delle regioni più povere per
aumentare ancora di più il loro livello di consumo.
13. Parliamo di una nuova rete nelle
relazioni internazionali, perché non c’è modo di risolvere i gravi problemi del
mondo ragionando solo in termini di aiuto reciproco tra individui o piccoli
gruppi.
Benché
si mantenga il principio che ogni debito legittimamente contratto dev’essere
saldato, il modo di adempiere questo dovere, che molti Paesi poveri hanno nei
confronti dei Paesi ricchi, non deve portare a compromettere la loro
sussistenza e la loro crescita.
Senza
dubbio, si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa
logica, le mie parole suoneranno come fantasie.
È
possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti.
Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare
timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne. Perché la pace reale e
duratura è possibile solo a partire da un’etica globale di
solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato
dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana.
Al di là delle diverse azioni indispensabili,
gli Stati non possono sviluppare per conto proprio soluzioni adeguate poiché le
conseguenze delle scelte di ciascuno ricadono inevitabilmente sull’intera
Comunità internazionale. Pertanto le risposte potranno essere frutto solo di un
lavoro comune.
L’aiuto
reciproco tra Paesi in definitiva va a beneficio di tutti. Un Paese che
progredisce sulla base del proprio originale substrato culturale è un tesoro
per tutta l’umanità. Abbiamo bisogno di far crescere la consapevolezza che oggi
o ci salviamo tutti o nessuno si salva.
Abbiamo
bisogno che un ordinamento mondiale giuridico, politico ed economico incrementi
e orienti la collaborazione internazionale verso lo sviluppo solidale di tutti
i popoli. Questo alla fine andrà a vantaggio di tutto il pianeta,.
La gratuità fraterna.
Vivere l’universale e il particolare. Il bene del mondo richiede che ognuno
protegga e ami la propria terra. Viceversa, le conseguenze del disastro di un
Paese si ripercuoteranno su tutto il pianeta. Ogni cultura sana è per natura aperta e
accogliente, così che «una cultura senza valori universali non è una vera
cultura». La società mondiale non è il risultato della somma dei vari
Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi. Oggi
nessuno Stato nazionale isolato è in grado di assicurare il bene comune della
propria popolazione.
14. Chi non vive la gratuità fraterna fa della
propria esistenza un commercio affannoso, sempre misurando quello che dà e
quello che riceve in cambio. Dio, invece, dà gratis, fino al punto che aiuta
persino quelli che non sono fedeli, e fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui
buoni (dal Vangelo secondo Matteo 5,45).
Abbiamo
ricevuto la vita gratis, non abbiamo pagato per essa. Dunque tutti possiamo
dare senza aspettare qualcosa, fare il bene senza pretendere altrettanto
dalla persona che aiutiamo. È quello che Gesù diceva ai suoi discepoli:
«Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (dal Vangelo secondo Matteo 10,8).
.
La vera qualità dei diversi Paesi del mondo si misura da questa capacità di
pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra
specialmente nei periodi critici. I nazionalismi chiusi manifestano in
definitiva questa incapacità di gratuità, l’errata persuasione di potersi
sviluppare a margine della rovina altrui e che chiudendosi agli altri saranno
più protetti Solo una cultura sociale e politica che comprenda l’accoglienza
gratuita potrà avere futuro.
Locale e universale
Tra
la globalizzazione e la localizzazione
si produce una tensione. Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale
per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno
perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra.
Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno,
che i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante, […];
l’altro, che diventino un museo folkloristico di "eremiti" localisti,
condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare
da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai
loro confini». Bisogna guardare al globale, che ci riscatta dalla meschinità
casalinga. Quando la casa non è più famiglia, ma è recinto, cella, il globale
ci riscatta perché è come la causa finale che ci attira verso la pienezza. Al
tempo stesso, bisogna assumere cordialmente la dimensione locale, perché
possiede qualcosa che il globale non ha: essere lievito, arricchire, avviare
dispositivi di sussidiarietà. Pertanto, la fraternità universale e l’amicizia
sociale all’interno di ogni società sono due poli inseparabili e coessenziali.
Separarli conduce a una deformazione e a una polarizzazione dannosa.
La soluzione non è
un’apertura che rinuncia al proprio tesoro. Come non c’è dialogo con l’altro
senza identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire
dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Non mi incontro
con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché
su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico.
Anche
il bene del mondo richiede che ognuno protegga e ami la propria terra.
Viceversa, le conseguenze del disastro di un Paese si ripercuoteranno su tutto
il pianeta. Ciò si fonda sul significato positivo del diritto di proprietà:
custodisco e coltivo qualcosa che possiedo, in modo che possa essere un
contributo al bene di tutti.
L’universale
non dev’essere il dominio omogeneo, uniforme e standardizzato di un’unica forma
culturale imperante, che alla fine perderà i colori del poliedro e risulterà
disgustosa.
È
necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio
luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però
con una prospettiva più ampia.
Ci
sono narcisismi localistici che non esprimono un sano amore per il proprio
popolo e la propria cultura. Nascondono uno spirito chiuso che, per una certa
insicurezza e un certo timore verso l’altro, preferisce creare mura difensive
per preservare sé stesso. Ma non è possibile essere locali in maniera sana
senza una sincera e cordiale apertura all’universale, senza lasciarsi
interpellare da ciò che succede altrove, senza lasciarsi arricchire da altre
culture e senza solidarizzare con i drammi degli altri popoli. Tale localismo
si rinchiude ossessivamente tra poche idee, usanze e sicurezze, incapace di
ammirazione davanti alle molteplici possibilità e bellezze che il mondo intero
offre e privo di una solidarietà autentica e generosa. Così, la vita locale non
è più veramente recettiva, non si lascia più completare dall’altro; pertanto,
si limita nelle proprie possibilità di sviluppo, diventa statica e si ammala.
Perché, in realtà, ogni cultura sana è per natura aperta e accogliente, così
che «una cultura senza valori universali non è una vera cultura».
Per
stimolare un rapporto sano tra l’amore alla patria e la partecipazione cordiale
all’umanità intera, conviene ricordare che la società mondiale non è il
risultato della somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che
esiste tra essi, è la reciproca inclusione, precedente rispetto al sorgere di
ogni gruppo particolare. In tale intreccio della comunione universale si
integra ciascun gruppo umano e lì trova la propria bellezza. Dunque, ogni
persona che nasce in un determinato contesto sa di appartenere a una famiglia
più grande, senza la quale non è possibile avere una piena comprensione di sé.
Questo
approccio, in definitiva, richiede di accettare con gioia che nessun popolo,
nessuna cultura o persona può ottenere tutto da sé. Gli altri sono
costitutivamente necessari per la costruzione di una vita piena.
Grazie
all’interscambio regionale, a partire dal quale i Paesi più deboli si aprono al
mondo intero, è possibile che l’universalità non dissolva le particolarità.
Un’adeguata e autentica apertura al mondo presuppone la capacità di aprirsi al
vicino, in una famiglia di nazioni. L’integrazione culturale, economica e
politica con i popoli circostanti dovrebbe essere accompagnata da un processo
educativo che promuova il valore dell’amore per il vicino, primo esercizio
indispensabile per ottenere una sana integrazione universale.
Sarebbe
auspicabile che ciò si potesse vivere anche tra Paesi vicini, con la capacità
di costruire una vicinanza cordiale tra i loro popoli. Ma le visioni individualistiche
si traducono nelle relazioni tra Paesi. Il rischio di vivere proteggendoci gli
uni dagli altri, vedendo gli altri come concorrenti o nemici pericolosi, si
trasferisce al rapporto con i popoli della regione. Forse siamo stati educati
in questa paura e in questa diffidenza.
Ci sono Paesi potenti e grandi imprese che
traggono profitto da questo isolamento e preferiscono trattare con ciascun Paese
separatamente. Al contrario, per i Paesi piccoli o poveri si apre la
possibilità di raggiungere accordi regionali con i vicini, che permettano loro
di trattare in blocco ed evitare di diventare segmenti marginali e dipendenti
dalle grandi potenze. Oggi nessuno Stato nazionale isolato è in grado di
assicurare il bene comune della propria popolazione