Problemi di costruzione ecclesiale 8
La
pratica della democrazia è faticosa. Si tende ad essere ben disposti verso gli
altri finché non li si ha troppo vicino. Anche nella nostra mente, da dove ci
viene lo spirito e ciò che ne consegue, siamo viventi naturali e, in natura la
democrazia certamente non c’è, c’è solo la violenza del più forte che detta
legge e si impone, e questo anche se siamo viventi sociali. Si formano
gerarchie che durano fino a che un certo assetto di potere basato sulla forza
riesce ad essere imposto. Dunque, la
forza esercita una certa fascinazione anche sullo spirito, che però può
prendere ad affrancarsene, e allora, staccandosi dalla spietata legge di
natura, si progredisce in umanità.
Accade così, ad esempio, nei giochi dei
fanciulli.
La democrazia è un sistema organizzativo
molto più sofisticato: in tutti i sensi un prodotto spirituale, non per nulla
ne furono maestri gli antichi ateniesi, ai tempi della loro più grande
filosofia. Però accade che non venga sempre compresa dal popolo, che tende in
genere ad interpretarla come la legge della maggioranza.
Se così fosse, non ci sarebbe in fondo
nessuna differenza rispetto alla legge
di natura, dove il gruppo tende a prevalere sui singoli e i gruppi più numerosi
sui gruppi minoritari. E’ questo il presupposto di chi, in religione, vorrebbe
mantenere negli spazi pubblici certi
segni religiosi per il fatto che la nostra
è ancora la religione dichiarata dalla maggioranza delle persone.
In realtà, la caratteristica fondamentale
della democrazia, come ai tempi nostri la si intende, è quella di limitare il dispotismo dei pochi,
certi, ma anche quello delle maggioranza, consentendo il perdurare di
manifestazioni di dissenso e anche una certa libertà di stili di vita, e questo
anche dopo che una procedura basata sul principio maggioritario abbia prodotto una deliberazione
collettiva. Quest’ultima non può
arrivare a impedire un certo livello di
libertà di azione e di espressione e deve, comunque, mantenersi revisionabile,
rivedibile. L’attributo dell’infallibilità, che comporta che una decisione non
si possa più discutere, è incompatibile con i principi democratici.
E’ il sistema delle garanzie personali e per
le minoranze che caratterizza la democrazie come oggi viene interpretata in
Occidente. E questo anche se in Europa e altrove si stanno manifestando
tendenze politiche verso forme di democrazia totalitaria, dove gli spazi
di dissenso per chi è in minoranza vengono molto ridotti e, soprattutto, si va
verso l’arbitrio delle maggioranza, nel senso che nessuna decisione è loro
preclusa.
Naturalmente c’è da chiedersi a che punto quel tipo di democrazia cessi di
essere tale, per trasformarsi in autocrazie, vale a dire in un regime che non
richiede né ammette una qualche legittimazione dalla base, per quanto vasta essa
sia.
Per come vanno le cose nella nostra epoca,
la democrazia totalitaria si basa più che altro su plebisciti, vale a dire su
procedure di decisione collettiva in cui si legittima un certo gruppo di
potere, o addirittura un singolo personaggio che ne è la figura più
rappresentativa, con un sì o con
un no, senza prendere in esame una qualche decisione su temi
pubblici. In questo modo viene meno un
elemento molto importante della democrazia, che è costituito dalla possibilità di un dibattito sociale tra parti che sostengono diversi orientamenti
su un certo tema, su una certa decisione sulle cose da fare, non solo per
decidere chi debba farle. Il suo esercizio era fondamentale nell’antica
democrazia degli ateniesi, ma a quell’epoca era riservato alla stretta cerchia
dei cittadini liberi da lavori cosiddetti servili, quindi di coloro,
tutti uomini adulti, che avevano nelle loro mani altri che costituivano la mano
d’opera occorrente per quei lavori, pur sempre necessari per vivere ma che
sottraevano tempo al discutere sui temi pubblici.
Le democrazie moderne vollero estendere molto
questa possibilità di partecipare alle decisioni pubbliche, e, a seguito dei
moti di ispirazione socialista, si volle addirittura elevare tutta la
popolazione a quella funzione pubblica.
Questo però richiede una formazione, che comprende un tirocinio pratico,
come si faceva per il figli di re, per prepararli alla futura sovranità.
Certo, il plebiscito è più semplice: produce
una divisione tra chi appoggia un gruppo di potere e chi no e tra le due
fazioni non c’è dialogo, perché i capi fidelizzano gli altri e la vietano. Ma
fatalmente questo modo di procedere, che formalmente consente ancora alla gente
di compiere un atto, con il voto al plebiscito, che esprime una qualche partecipazione
alla vita pubblica, produce alla lunga una emarginazione dei più e il
consolidamento del potere intorno ad oligarchie di pochi, vale a dire a cerchie
ristrette.
Uno dei rimedi più efficaci per ovviarvi è stabilire la temporaneità degli incarichi
pubblici, l’obbligo di presentare per l’approvazione un qualche rendiconto
dell’attività svolta e il divieto di insediare il proprio successore, dando
luogo ad un principio di dinastia.
Nell’evoluzione totalitaria della democrazia,
questi limiti sono spesso elusi, ad esempio facendo solo formalmente un passo
indietro allo scadere del tempo assegnato per ricoprire una certa carica,
lasciando propri fedeli al vertice, in attesa di ricollocarsi dopo un certo
tempo al posto di prima, o costituendo i collegi di verifica dei propri
rendiconti mettendovi persone compiacenti.
Tutte questa dinamiche, che si osservano
nell’evolvere degli assetti degli organi costituzionali degli stati, si
producono anche nel governo di società molto più piccole, fino ad arrivare a
quelle di prossimità, ad esempio un’associazione di quartiere, un condominio,
un circolo sportivo, un gruppo di fan di un qualche artista, o, per arrivare a noi,
una parrocchia. Procedendo verso dimensioni più piccole, cambia il livello di
istituzionalizzazione delle relazioni e delle procedure, ma spesso possiamo
vedere l’emergere di posizioni di potere che tendono a dimensioni plebiscitarie
e totalitarie e, per altro verso, assistiamo ad una resistenza della base che
reclame più partecipazione e decisioni più condivise. Chi comanda, allora, ribatte che procedure
più partecipate prendono tempo, e spesso non riescono a procedere a causa di
contrapposizioni insanabili, che spesso degenerano in rancori personali.
In effetti non se non si fa sufficiente pratica di democrazia divenendone abili, non
tanto nel solo votare, ma nell’argomentare per convincere non limitandosi a
tentare di sovrastare, è proprio quello che accade.
Nei gruppi più piccoli, poi, come può
accadere in uno dei nostri “gruppi giovani”, la capacità personale di
influenzare gli altri, il carisma, che può dipendere da tanti fatti individuali, forza, bellezza,
eloquenza, spigliatezza, stili diretti, una certa capacità di iniziativa, un
carattere estroverso, precedenti relazioni sociali, può portare al
consolidamento di un centro di potere personale che dà la linea ed è
insofferente del ricambio.
E nelle società umane una qualche
organizzazione è sempre preferita a nessuna organizzazione o alla pura
anarchia. Quest’ultima si ha quando in una collettività la pressione dei gruppi
sui singoli è minima e viene mantenuta tale, ma tuttavia ci riesce ad
organizzare lo stesso in una rete di relazioni libere. Il problema è però
l’imprevedibilità del futuro in quei rapporti: proprio per ovviarvi nelle
società umane si produce l’istituzionalizzazione, vale a dire la loro
formalizzazione, la loro ritualizzazione, stabilendo chi può e deve fare cosa,
e i metodi, i tempi, le forme in cui si deve agire.
Certo, un capo autocratico è più veloce nelle
decisioni, ma ha una visione limitata, e questo anche se fa riferimento a dei
consiglieri. Infatti si tratta pur sempre di gente sua, che è stata
messa a far da consigliera da lui e ce sa che lui può revocarla a suo arbitrio,
propri perché è un autocrate. Per
valutare realisticamente i pro e
i contro di una decisione è
necessario esaminare la situazione e le
sue prospettive in un dialogo libero e franco, in cui non si cerchino solo
conferme, altrimenti le controindicazioni vengono sottovalutate o addirittura
nascoste per non contrariare chi comanda.
La grande storia è, in questo, veramente
maestra di vita. L’insegnamento della storia è tra i più importanti dei corsi
di studi di formazione primaria e secondarie, quelli nei quali si punta ancora
a dare una consapevolezza generale del corso degli eventi. Mai si dovrebbe
buttare o vendere i libri di storia che
si studiano a quell’età. Sono molto importanti anche nella formazione
religiosa, nella quale, sul finire del Millennio scorso e in vista del Grande
Giubileo dell’anno 2000 fummo guidati da san Karol Wojtyla – papa Giovanni
Paolo 2°, in quel lavoro che egli definì purificazione della memoria e
che consiste nello staccarsi, acquisendone realistica consapevolezza, da ciò
che la storia ha prodotto di male, da ciò che ci è divenuto inaccettabile in
termini di sofferenza umana e non deve essere ripetuto. Non è solo un giudizio
di natura etica ma, sempre, anche di natura politica, perché si vuole imparare
dalla storia, un grande laboratorio sociale, per capire come governare le
nostre società. Non riguarda il passato
se non nella memoria, perché il passato non può essere modificato né veramente
riprodotto, ma il futuro delle nostre società.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli