Prof. Marco Ivaldo (Università degli studi di Napoli “Federico II”)
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Azione cattolica e azione politica. Riflessioni alla luce del Concilio Vaticano
II e dei successivi insegnamenti della Chiesa (2007)
1. Un punto di partenza dal pensiero di Maritain
Per avviare una riflessione sul binomio azione
cattolica-azione politica penso sia opportuno muovere dalla nota tematizzazione
che ne ha effettuato Jacques Maritain in due suoi lavori: lo scritto “Struttura dell’azione”, allegato a Umanesimo integrale (1936), e il saggio
“Azione cattolica e azione politica”,
ospitato nel volume Questioni di
coscienza (1938). Maritain vi sostiene che le attività del cristiano si
distribuiscono su tre piani: il piano dello “spirituale”, dove il cristiano
agisce come membro del corpo mistico ed è il piano della “chiesa”; il piano del
“temporale”, in cui il cristiano agisce come membro della città terrena, nei
campi ad es. della scienza, dell’arte, della politica, della società, ed è il
piano del “mondo”; il piano “intermedio”, in cui lo spirituale “si congiunge”
al temporale al fine di illuminarlo, oppure di salvaguardare sul piano
temporale l’oggetto specifico dello spirituale stesso.
Spirituale e temporale sono distinti, non
separati. Tutta l’attività umana, qualsiasi sia il piano sul quale si svolge,
ha infatti un unico fine, e questo è l’unità con Dio. Tuttavia essa ha modi di
realizzazione diversi: sul piano spirituale il cristiano agisce in quanto
cristiano e ha come fine specifico l’espansione del Regno di Dio nelle anime;
sul piano temporale egli agisce da cristiano: ciò che ne risulta è, o dovrebbe
essere una azione che è sì ispirata cristianamente, ma che non è
“specificatamente cristiana”, bensì formalmente determinata dallo scopo
specifico che assume, ad es. scientifico, politico ecc.; sul piano intermedio
il cristiano è impegnato e interviene in quanto cristiano, perché qui la sua
attività appartiene ancora all’”apostolato” e conosce due declinazioni
essenziali: a) l’illuminazione del piano temporale attraverso i principi della
saggezza cristiana in campo politico, sociale ed economico (questa
illuminazione, spiega Maritain, non discende fino alle determinazioni
particolari dell’azione, ma costituisce un “firmamento teologico” per le
dottrine e le attività più implicate nelle contingenze del mondo); b) l’impegno
sulle “questioni miste” (es. matrimonio, educazione), che riguardano sì la
città terrena, cioè il temporale, ma anche “il bene delle anime e la vita
eterna”, cioè lo spirituale.
Agire da cristiano e agire in quanto
cristiano: questo è il celebre approccio di Maritain, da allora oggetto di
numerose riprese, adesioni, ma anche riserve. Al filosofo francese premeva
distinguere il piano della chiesa e il piano della società politica; tuttavia e
insieme, proprio in virtù della distinzione, gli stava a cuore sottolineare
l’unità dell’esistenza del cristiano. Anche sul piano temporale infatti il
credente non può fare astrazione dalla fede, ma tutta la sua azione deve
esserne compenetrata, benché - come è doveroso - l’azione temporale si volga a
scopi che non sono l’edificazione del corpo mistico, ma la costruzione della
comunità politica (polis (termine del
greco antic), civitas (termine latino) [significano: comunità politica]. L’azione, ogni azione, così Maritain, “è
epifania dell’essere”.
Ora,
Maritain sostiene che il luogo proprio dell’azione cattolica sono il piano
dello spirituale e il piano intermedio dello spirituale che tocca il temporale.
Su questi piani la regola è l’unione fra i cristiani. Per quanto riguarda
invece il piano temporale l’azione cattolica prepara i laici (soltanto) a
operare in esso da cristiani, ad assumere da cristiani la lotta sociale e
politica. Un motivo fondante della riflessione di Giuseppe Lazzati, il quale
riprende e sviluppa a suo modo questo approccio di Maritain è che non basta
essere buoni cristiani per essere ipso facto buoni politici: occorre formarsi
una specifica “competenza politica”, che ha un aspetto pratico, la virtù
politica, e un aspetto teorico, la conoscenza delle realtà della politica.
Sul
piano temporale - che è il luogo proprio dell’azione politica - la diversità
fra i cristiani è la regola, a causa dei diversi giudizi e delle varie
soluzioni che essi possono legittimamente dare alla questione sociale e politica.
Sarebbe - sostiene Maritain - “contrario alla natura delle cose” reclamare su
questo piano l’unione politica fra i cristiani, anche se una certa unione
spirituale dovrebbe sempre dominare sulla diversità politica.
L’azione
cattolica si radica nella contemplazione; il suo orizzonte di impegno non si
ferma però allo spirituale, ma tende a passare all’ambito sociale, in quanto
quest’ultimo interessi la chiesa a causa dei valori spirituali e morali
investiti nell’azione sociale. Si apre qui il campo dell’”azione sociale
cristiana”. Non è competenza dell’azione cattolica l’azione politica come tale
- cui essa per altro educa i cristiani laici, come accennato -, azione che
deriva invece dalle azioni dei cristiani come cittadini e che comporta
normalmente la collaborazione di cattolici e non-cattolici.
2. La prospettiva del Concilio Vaticano II
Rispetto
a questa dottrina il Concilio Vaticano II inaugura senza dubbio una prospettiva
diversa, e in verità numerosi teologi e uomini di cultura hanno preso
criticamente posizione contro la teoria maritainiana della distinzione dei
piani anche in quanto sollecitati, a ragione o meno, della riflessione
conciliare o da elaborazioni ispirate alle dottrine conciliari. Si può dire -
segnalando però che queste affermazioni sono soltanto approssimative e
avrebbero bisogno di più dettagliate specificazioni - che l’ordine delle
attività del cristiano, che Maritain aveva tematizzato, è stato dal Concilio -
in particolare adesso dalla Gaudium et
spes [Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo La gioia e la speranza, deliberata
durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965)] - ripensato e rifuso (il che non
significa, necessariamente, negato) in una diversa costellazione teorica, nella
quale sono prevalenti un approccio teologico storico-salvifico, più che
‘metafisico’, e una impostazione antropologica personalista, più che
‘sostanzialista’. Con il Concilio si realizza, in altri termini, un mutamento
di paradigma (anche) nella comprensione dell’attività del cristiano, mutamento
che non va visto come una rottura del continuum della tradizione, ma che - alla
luce della fede e in obbedienza alla Parola di Dio - enuclea virtualità della
tradizione stessa, e le tematizza in una figura nuova, che risponde, o intende
rispondere ai segni del tempo.
Già nel
suo inizio la Gaudium et spes [Costituzione
pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo La gioia e la speranza, deliberata durante il Concilio Vaticano 2°
(1962-1965] chiarisce che la Chiesa “si sente realmente e intimamente solidale
con il genere umano e la sua storia” (n. 1), e poi spiega che essa “cerca di
discernere negli avvenimenti [...] i veri segni della presenza e del disegno di
Dio” (n. 11; cfr. anche n. 4). La Gaudium
et spes muove dalla unità del disegno di Dio, nel quale ciò che la dottrina
tradizionale chiama spirituale e temporale sono originariamente abbracciati e
compresi. Questo conduce immediatamente la Costituzione conciliare a
indirizzare la sua attenzione all’uomo: “L’uomo - leggiamo al n. 3 - nella sua
unità e totalità, corpo e anima, cuore e coscienza, intelletto e volontà [...]
sarà il cardine di tutta la nostra esposizione”. In particolare la Gaudium et spes contestualizza questa
concentrazione sull’uomo e la affermazione della dignità della persona umana in
una visione teologica che muove dalla comprensione dell’uomo come “immagine di
Dio” (n. 12) e conclude in una chiave cristologica, per cui “solamente nel
mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo”. E’ Gesù
Cristo infatti che - suona una nota affermazione - “svela anche pienamente
l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (n. 22).
Questa
chiave cristologica - che non può essere intesa come una aggiunta estrinseca a
una antropologia di matrice fondamentalmente ‘neo-scolastica’ - è stata
evidenziata da Giovanni Paolo II come la prospettiva architettonica della
Gaudium et spes. Essa risiede a
fondamento della enciclica programmatica del pontificato di Giovanni Paolo II,
la Redemptor hominis (enciclica Il Redentore dell’uomo - 1979), e - come
è detto qui al n. 10 - dischiude la “dimensione umana del mistero della
redenzione”, redenzione in virtù della quale l’uomo viene “nuovamente creato” e
ritrova “la grandezza, la dignità, il valore propri della sua umanità”.
La
diversa impostazione delle questioni che scaturisce da questo punto di partenza
ha postulato e postula che le tradizionali elaborazioni su azione cattolica e
azione politica debbano venire ripensate - o meglio, verificate e nuovamente
pensate - e riformulate alla luce del nuovo paradigma cristologico, che il
Concilio ha avanzato e la riflessione successiva - nell’insegnamento della
chiesa e nella ricerca teologica - ha fortemente accentuato. E’ necessario
muovere dalla coscienza che sia la chiesa che la comunità degli uomini hanno a
che fare con la persona umana, creata da Dio a sua immagine somigliante con una
destinazione comunitaria, e redenta (nuovamente creata!) da Cristo, il quale
porta a compimento questa vocazione stessa e ne evidenzia il nucleo nella forma
di vita dell’amore: la persona trova se stessa nel dono di sé per altri, da cui
è affetta originariamente al modo di un essere libero. Sia la chiesa che la
comunità degli uomini hanno allora come fine il bene comune della persona, che
si realizza in maniera compiuta nella relazione escatologica della persona e
delle persone con Dio e in Dio, ma che è suscettibile di declinazioni diverse
nelle varie forme di associazione e di comunità che le persone pongono in
essere nella vita temporale (es. famiglia, società economiche, civili,
politiche, intellettuali, religiose ecc.).
Ora,
l’unità dell’amore - come sostanza vivente e vocazione della persona - richiede
che l’attività umana abbia un ordine, e questo ordine (dinamico) presuppone
l’autonomia delle “realtà terrene” (autonomia, non autosufficienza!), ossia il
fatto che - come sostiene la Gaudium et
spes al n. 36 - le cose create e le società umane hanno leggi e valori
propri, che gli uomini, e perciò anche i cristiani, devono scoprire, usare,
ordinare, riconoscendo “le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza e
arte”. Qui è il luogo in cui -
all’interno della nuova costellazione cristologica - troviamo il fondamento di
legittimazione di quel principio di distinzione che stava particolarmente a
cuore alla filosofia (e teologia) di ispirazione tomista. Questo principio non
può essere cancellato nè deve venire dimenticato - come in effetti talora è
avvenuto -, ma deve essere ritrovato e ripreso a un livello più alto, a partire
da un nuovo centro, cioè dalla incarnazione del Verbo come compimento
insuperabile dell’ordine dell’amore. Una comprensione cristiana della laicità
deve a mio giudizio fondarsi precisamente su questo principio di distinzione,
in virtù del quale laicità significa essenzialmente rispetto e custodia
(operosa ed effettiva) delle specificità proprie delle diverse attività umane.
Queste ultime non dipendono nel loro statuto essenziale e nel loro valore
intrinseco dal fatto di essere religiosamente qualificate (in virtù di un
riferimento all’una o l’altra religione positiva, all’una o l’altra comunità
religiosa); come “realtà terrene” esse ricevono in maniera immediata da Dio la
loro “consistenza, verità e bontà”, che devono essere poste al servizio della
persona/delle persone. Le attività umane infatti, proprio in quanto attività,
non possono concepirsi come indipendenti dall’ordine morale che si manifesta
nella coscienza morale della persona. Esiste in definitiva una competenza
morale originaria della persona, soggetta alla legge morale, che riguarda ogni
sua azione e operazione.
3. Azione cattolica e azione politica
Il
Concilio Vaticano II e gli sviluppi successivi della ricerca teologica,
dell’insegnamento della chiesa, dell’esperienza dei cristiani, hanno
sottolineato in molteplici modi e in vari tempi la vocazione, perciò la
responsabilità dei cristiani laici. Ora, è forse proprio la tematizzazione del
compito dei cristiani laici che consente di riprendere nella maniera più
efficace, dentro il nuovo paradigma, la riflessione sul binomio azione
cattolica-azione politica.
L’esortazione apostolica successiva al sinodo
sui laici del 1987 Christifideles laici
(1988) accentua che i fedeli laici, in quanto membri della chiesa, hanno la
vocazione e la missione di essere annunciatori del Vangelo. Questo impegno di
evangelizzazione - che richiede una formazione conveniente - mi sembra
identifichi ciò che nel linguaggio tradizionale, comunque ripreso dal Concilio,
era e resta l’azione cattolica (segnalo che qui intendo con azione cattolica
non una particolare o particolari associazioni, ma una forma di attività del cristiano).
Ciò mi sembra confermato dal fatto che l’esortazione afferma che condizione di
questa evangelizzazione è che “si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse
comunità ecclesiali” (n. 34), e che tale evangelizzazione diverrà possibile se
i laici sapranno superare in se stessi la frattura fra il Vangelo e la vita,
ricomponendo nella loro quotidiana attività in famiglia, nel lavoro, nella
società, l’unità di una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza. Rifare
il tessuto cristiano della comunità ecclesiali, realizzare l’unità di fede e
vita, annunciare e testimoniare la “buona notizia” - cosa che implica di essere
radicati in modo vivo e reale nella Parola di Dio -: questa mi sembra ancora e
sempre la missione che chiamiamo azione cattolica, missione che dalla
impostazione cristologica e personalista del Concilio trae in verità nuova
motivazione e impulso.
D’altra
parte - come afferma la Gaudium et spes
(n. 43) - ai fedeli laici competono “propriamente, anche se non esclusivamente”
(proprie, etsi non exclusive) gli impegni e le attività temporali. L’enciclica
Deus est caritas di Benedetto XVI afferma con tutta chiarezza che “il compito
di operare per un giusto ordine nella società è [...] proprio dei fedeli laici”
(n. 29). A tal fine - continua la Gaudium
et spes - essi si sforzeranno di procurarsi una vera competenza in questi
ambiti. E’ il motivo che stava particolarmente a cuore a Giuseppe Lazzati. La Gaudium et spes avanza poi una
affermazione di notevole rilievo: “Spetta alla loro [dei laici] coscienza, già
conveniente formata [da quella che ho chiamato azione cattolica], di iscrivere
la legge divina nella città terrena” (n. 43). Questa “iscrizione” richiama
perciò la responsabilità dei laici, da esercitarsi alla luce della saggezza
cristiana e prestando rispettosa attenzione all’insegnamento del magistero
della chiesa (il “firmamento teologico” di cui parlava Maritain!). Si apre così
il campo dell’azione politica come lo spazio pubblico della ragione
autoresponsabile, nella quale si dà per i cristiani una pluralità di giudizi e
di soluzioni legittime - cioè coerenti con ciò che ho designato il “firmamento
teologico” - per quanto riguarda la determinazione del bene collettivo, in
vista del quale occorre comunque sussumere nel giudizio anche una molteplicità
di fattori contingenti. Che cosa può significare però: iscrivere la legge
divina nella società umana? Penso che il
paradigma cristologico richiamato ci solleciti a comprendere questa legge non
in termini giusnaturalisti, ma come un ordinamento vivente dell’amore; e
ritengo che l’”iscrizione” di questo ordinamento dinamico debba essere intesa
come un atto creativo e riflessivo, più che come una deduzione ‘logica’
(secondo un paradigma giusnaturalistico). E’ l’atto di una incarnazione
concreta di valori - cioè di qualità etiche motivanti e normative -, una
incarnazione che funga al tempo stesso da appello, esortazione, sollecitazione
rivolta a esseri liberi, e sia accompagnata dalla consapevolezza della
perfettibilità dell’umano - perciò anche della sua limitazione -, e della
autonomia delle sue diverse attività. Per quanto riguarda la legislazione
positiva si dovrebbe dire che essa deve rispecchiare l’ordo amoris [espressione latina che significa: la logica dell’amore ]e quindi favorire
l’amicizia (philia [parola latina che
si legge filìa] e la coesione fra i
cittadini, ma il suo compito specifico è precisamente quello di regolare con
giustizia e saggezza le relazioni della libertà esterna dei cittadini stessi.
Esiste in tal senso una differenza fra diritto (e politica) e morale, che il
politico saggio - quello che Kant chiama il politico morale - deve osservare e
rispettare: il diritto deve rendere possibile, come base fattuale di relazioni
ordinate (tranquillitas ordinis), il
rapporto etico fra le persone, ma non è a sua volta una relazione etica, che ha
a che fare con la posizione originaria della libertà di fronte all’imperativo
etico-ontologico del bene e del senso.
E’
legittimo conclusivamente sollevare la domanda su come possiamo intendere oggi
l’azione del cristiano sul piano che Maritain chiamava “intermedio”, del
temporale che tocca lo spirituale. Questa domanda assume oggi una urgenza
particolare, se prendiamo ad esempio in considerazione l’accento che, nella chiesa,
viene posto sulla difesa e la promozione della costellazione di valori raccolti
dalla parola-chiave: vita. La difesa e la promozione della vita assurge oggi -
nell’epoca delle biotecnologie, della bioetica, della biopolitica - a grande
“questione mista”, in quanto riguarda sì la società terrena, i suoi mores [parola latina che significa costumi] e le sue legislazioni, ma
insieme tocca le convinzioni etiche e religiose fondanti. La Christifideles laici invita ad esempio a
difendere il diritto alla vita “quale diritto primo e fontale, condizione per
tutti gli altri diritti della persona” (n. 38). Ora, nonostante che il
tema-vita sia oggetto di molte e ripetute prese di posizioni autorevoli nella
chiesa, non mi sembra che sia ancora emerso un chiarimento dottrinale adeguato
sul metodo attraverso il quale i cristiani laici debbano e possano agire in
vista di esso. Tuttavia un passo della Gaudium
et spes può, a mio giudizio, offrire un approccio produttivo a questa
questione.
Al par.
76 della Costituzione conciliare leggiamo che è di grande importanza che si
faccia una chiara distinzione fra le azioni che i fedeli, individualmente o in
gruppo, compiono “in proprio nome”, come cittadini, e le azioni che essi
compiono “in nome della chiesa, in comunione con i loro pastori”.
Direi
allora che, in primo luogo, esiste una difesa del “carattere trascendente della
persona umana” - di cui la chiesa è “segno e salvaguardia” - e quindi della
dignità dell’individuo, che fa parte intrinseca e diretta della missione della
chiesa, e che i cristiani laici, i cristiani comuni, devono realizzare in
quanto membri della chiesa e in comunione con essa, perciò in unione diretta
con i pastori. Questa difesa è un momento interno dell’evangelizzazione, ed
esprime fra l’altro la opposizione critica della chiesa rispetto a ogni
totalizzazione e autochiusura ‘mondana’, sia essa motivata in nome della
politica, della scienza ecc..
Tuttavia, e in secondo luogo, se la difesa del
diritto alla vita - come viene affermato - è al tempo stesso la difesa di
alcune verità elementari concernenti l’essere stesso, la natura comune,
dell’uomo - verità che in linea di principio possono venire colte e apprezzate
dalla comune ragionevolezza - allora penso che su questo piano sia richiesta la
presenza e l’azione dei laici cristiani come cittadini, i quali operino in nome
proprio e sotto propria responsabilità nella ricerca delle mediazioni culturali
e politiche che, in virtù della comune ragionevolezza e per la via della
argomentazione razionale, risultino efficaci per garantire e promuovere in
concreto tale diritto (ciò vale comunque anche per gli altri diritti fondanti).
Non che l’efficacia pratica sia l’unico riferimento validativo della
mediazione: questa deve muovere dalla costellazione spirituale e dal
“firmamento teologico” della fede e della saggezza cristiana e deve sforzarsi
di rimanervi fedele in concreto, cosa che significa: deve penetrare in esse e
lasciarsene ispirare. Tuttavia la mediazione deve anche assumere le situazioni,
i contesti, in rapporto ai quali è chiamata a esercitarsi, e deve cercare di
ottimizzare l’insieme delle pretese morali e degli interessi legittimi in gioco
al loro interno, guardando anche alle conseguenze prevedibili, a breve e a
lungo termine, dei mezzi adottati. I greci chiamavano la virtù propria di
questa forma del ragionamento phronesis
[parola del greco antico che si legge frònesis
e che significa saggezza] i latini prudentia [termine latino che si legge prudènzia, e che significa anch’esso saggezza]. Potremmo nominarla saggezza,
o capacità del giudizio in situazione. Penso che l’esercizio di questo giudizio
in situazione, che non è come tale già pre-contenuto nelle affermazioni della
dottrina sociale, sia inalienabile responsabilità del cristiano laico nella
costruzione della buona vita e di legami umanizzanti in ambito sociale,
giuridico e politico.