MEIC Gruppo Uniroma 1
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Incontro
tenutosi giovedì 26 novembre 2009, ore 18:30-20:15, presso la sala grande della
Cappella Universitaria dell’Università “La Sapienza” sul tema:“La
centralità dell’amore nella vita del cristiano”.
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Relatore
l' Assistente Nazionale del MEIC, prof. Cataldo Zuccaro - Rettore della Pontificia
Università Urbaniana
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Mediante la mailing
list del gruppo, è stato inviato ai soci il codice di accesso per la riunione
in Meet del 14 novembre, alle ore 17
A questo indirizzo di You
Tube
https://www.youtube.com/watch?v=GorIYoaHGjk
abbiamo
inserito un video che spiega come accedere.
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Di seguito trovate:
A)i
miei appunti sull’incontro, quindi sulla relazione, sugli interventi e sulle
repliche del relatore. I testi non sono stati rivisti dal relatore e dagli
intervenuti. Don Zuccaro prima dell’incontro ha consegnato al presidente del
gruppo un testo scritto della sua relazione. Nell’esposizione discorsiva è
stato più sintetico e ha utilizzato un lessico meno specialistico: la lettura
dei miei appunti consentirà, credo, di rendersi conto più facilmente delle
argomentazioni proposte e servirà come introduzione al testo scritto, elaborato
nel linguaggio prettamente teologico. Solo dai miei appunti ci si potrà rendere
conto del dibattito seguito alla relazione.
B)il
testo scritto delle relazione che don Zuccaro aveva consegnato al presidente
del gruppo prima dell’incontro;
C)alcune
mie riflessioni sui temi trattati nell’incontro.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma - Monte Sacro - Valli
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A
Miei
appunti non rivisti dall’autore e dagli intervenuti. Al termine dei miei
appunti ho inserito alcune note esplicative di termini usati dal relatore.
ZUCCARO
Il relatore ha portato innanzi tutto al gruppo
il saluto del presidente nazionale Carlo Cirotto. Ricorda che il prossimo
congresso nazionale si terrà a Padova.
Vuole condividere cordialmente con i
partecipanti all’incontro riflessioni ed esperienza di vita. Questo l’angolo di
visuale di partenza.
Propone un itinerario scandito in due momenti:
l’amore in quanto accolto e l’amore in quanto donato.
Nell’esperienza della Chiesa l’amore sta al
centro dell’esperienza cristiana. Ricorda una frase di Sant’Agostino, nel
commento alla prima lettera di Giovanni: “Solo l’amore distingue i figli di Dio
dai figli del Diavolo; se tutti si segnassero con la croce, se rispondessero “amen” e cantassero tutti l’ “alleluia”, se tutti ricevessero il
battesimo ed entrassero nelle chiese, se facessero costruire i muri delle
basiliche, resta il fatto che soltanto la carità fa distinguere i figli di Dio
dai figli del diavolo. Quelli che hanno la carità sono nati da Dio, quelli che
non l’hanno non sono nati da Dio”.
A distanza di millenni, Benedetto XVI
nell’enciclica “Deus Caritas est”
afferma che l’amore è il centro dell’esperienza cristiana. Nell’enciclica “Caritas in veritate” menziona gli
sviamenti di senso ai quali la carità è andata incontro, con i conseguenti rischi
di fraintendimenti, estromettendola dal vissuto etico. Ciò impedirebbe una
corretta valorizzazione in ambito sociale, culturale, giuridico, politico,
economico. In questi contesti, dove più alti sono quei rischi, ne viene
dichiarata l’irrilevanza per orientare l’azione. Il riferimento alla carità
sembra troppo generico per essere utile per la soluzione delle crisi.
Nonostante questo la Chiesa mantiene ferma la convinzione che la carità si
trova al cuore dell’esperienza cristiana.
All’inizio dell’essere cristiano non c’è una
decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con un avvenimento, con una persona, che dà alla vita una direzione
decisiva e un nuovo orizzonte: lo ha scritto Benedetto XVI all’inizio
dell’enciclica Deus caritas est. La
base della vita morale non è un ragionamento senza cose, né un insieme di cose
senza anima, ma piuttosto una questione di essere e, come dice il Papa, di
essere in relazione. La relazione fondante è con Dio. Si tratta di una proposta
teologica cristiana, cattolica. L’antropologia cristiana si configura
necessariamente come un’antropologia teologica. E’ il dono dell’amore della
Trinità che è sia all’origine della vita dell’uomo, sia all’origine della
relazione dell’uomo con gli altri. La comprensione dell’esperienza umana non
può mai essere disgiunta dalla comprensione di Dio, del mistero di Dio.
L’antropologia incrocia quindi, in una prospettiva cristiana, la teologia, come
evidenziato in maniera lapidaria nella costituzione conciliare “Gaudium et spes”: “In realtà solo nel
mistero del Verbo incarnato trova vera luce” il mistero dell’uomo”. Al cuore
del mistero dell’uomo troviamo la persona di Gesù Cristo. Senza di lui l’amore
della Trinità rimarrebbe sconosciuto. Gesù è la faccia umana dell’amore della
Trinità. Attraverso di lui possiamo conoscere come Dio ci ama.
Il relatore elenca tre caratteristiche
dell’amore di Dio per noi che risiedono in Gesù.
La prima è la gratuità. Dio non ci ama perché
noi siamo amabili. Dio, amandoci, ci rende buoni. Non ci ama perché siamo
buoni. E’ possibile per noi diventare
buoni solo perché Dio ci ama. Non è il nostro buon comportamento morale, in
quanto quindi ci sforziamo di essere buoni, che muove Dio a volerci bene.
La seconda
caratteristiche dell’amore di Dio è che si tratta di un amore il quale
non è mai per delega. Dio non delega un altro per volerci bene. Gesù non è un
delegato da Dio, lui stesso è invece Dio. Gesù imparò l’obbedienza attraverso
ciò che soffrì: l’amore di Dio è un amore che tocca la carne, che si sporca di
sangue…
Inoltre l’amore di Dio è fino alla fine, senza
riserve (cita l’episodio della lavanda dei piedi narrata nel Vangelo di
Giovanni, dove è scritto che Gesù “dopo averli amati, li amò fino alla fine”). Nel
medesimo Vangelo di Giovanni è messa in bocca a Gesù morente l’espressione
“Tutto è compiuto”. E le parole usate in greco fanno riferimento proprio a quel
“fino alla fine”: nel senso di “fino all’ultimo respiro”, ma anche nel senso di amore così grande che
non è possibile pensarne uno più grande.
Un terza caratteristica è molto umana e
riguarda la relazione tra il Padre e il Figlio. Per capire Dio ci rifacciamo
alla nostra esperienza. Un genitore è disposto a dare la vita per un figlio. Ci
chiediamo perché invece questo Padre di Gesù ha lasciato che fosse il Figlio a
morire. Ragionando umanamente potremmo di re che l’amore di Dio è così grande
che il Padre è morto due volte per noi, una volta perché ha lasciato che il
Figlio morisse e l’altra volta perché è morto lui nel vedere il Figlio morire.
Perché tutto questo? La risposta è in un eccesso di amore per gli uomini.
Il punto di partenza dell’agire morale è
costituito dal tipo di risposta che noi riteniamo di dover dar a questo amore
di Dio. Il punto di partenza è l’amore accolto. Percepiamo questo amore
attraverso la coscienza, con una valutazione concreta, particolare. L’amore non
è prima di tutto un comandamento, ma è un dono. La prima responsabilità del
cristiano è esercitata nell’accogliere questo dono dell’amore di Dio. Scrive il
Papa nell’enciclica “Deus est caritas”:
l’amore può essere comandato perché prima è donato.
Noi non possiamo avere un’esperienza
dell’amore di Dio che ci è donato se non attraverso una decisione della
coscienza morale. Altrimenti il rapporto con Dio diventa una superstizione, un
fondamentalismo, una fonte di guerra. Esiste una decisione sulla fede, nei
confronti dell’esperienza concreta di questo amore di Dio. Alla luce di questa
decisione sull’amore di Dio noi facciamo le altre scelte morali.
La dimensione decisiva dell’antropologia
cristiana è l’affermare che l’uomo è l’essere della risposta. L’amore accolto
diventa un amore donato. L’amore verso il prossimo non può essere diverso
dall’amore ricevuto come dono da Dio. In Dio amo anche la persona che non
gradisco e non conosco, lo ripete spesso il Papa. Il dinamismo della vita
morale nasce come esigenza di passare da un amore accolto a un amore donato.
Quando queste due cose non vanno insieme c’è sempre uno squilibrio. Nella
riflessione morale oggi noi soffriamo di un deficit
soprattutto per quanto riguarda l’esperienza dell’amore accolto, nel senso che
la nostra proposta si sbilancia spesso sul comandamento dell’amore rispetto invece
che l’amore donato da Dio. Il “deficit” che
bisogna colmare è quello dell’esperienza di un amore accolto.
La mancanza di amore è sempre il fallimento
della persona: su questa mancanza bisogna riflettere con più calma. Sul fatto
che alla base di ogni peccato ci sia una mancanza di amore di solito siamo
tutti d’accordo. Ma: ogni mancanza di amore è sempre peccato? Ci si può trovare,
in un momento particolare della vita, ci si può trovare nell’incapacità
oggettiva di amare, non per colpa ma perché non si è mai vissuta l’esperienza
di essere amato, che poi è la condizione per poter amare. Sant’Agostino
sosteneva che Dio, amandoci, ci rende amanti. Ma se non abbiamo umanamente la
possibilità di essere amati, come facciamo ad amare? A volte, nella nostra
impostazione morale viviamo una sorta di pelagianesimo (1), abbiamo
un’eccessiva fiducia nella nostra volontà che sarebbe in grado di mettere in
pratica i comandamenti. Si sorvola con troppa facilità sulla situazione storica
della persona che è condizionata in tanti modi: alla persona non basta
conoscere la regola per poterla seguire. Non ci si innamora mai di un dovere,
di un comandamento, ma di una persona. L’argomentazione non basta per muovere
la nostra volontà, occorre una motivazione e la motivazione ultima è quella
dell’amore. Cita Blondel (2): “se non passa per il sentimento, l’idea rimane lettera
morta”. Le neuroscienze hanno sperimentato che talvolta la mancanza di una
parte del cervello impedisce la decisione, la persona non sa decidersi, perché
è l’affettività, nel senso di passione, che muove la volontà.
Sotto il profilo della formazione, della
proposta morale, la cosiddetta “emergenza educativa”, dobbiamo rivalutare
questa verità: prima ancora di richiedere l’amore come motivazione delle azioni
ci si dovrebbe preoccupare che la persona si trovi nella condizione di poterlo
capire e di poterlo vivere, poiché ha fatto l’esperienza di essere amato.
Termina con una nota problematica. Viviamo in
un mondo in cui un amore così disegnato non sempre possibile applicarlo così
concretamente, viviamo in un mondo pieno di strutture di peccato, che rendono
difficile il riconoscimento del bene. Ricorda di aver letto di un’esperienza di
gesuita in un carcere minorile dove erano reclusi figli di camorristi e che
aveva tentato di far loro capire il perdono cristiano: quei ragazzi non
riuscivano a capirlo, perché, nella loro esperienza, se avevano ricevuto
un’offesa la morale era quella di vendicare l’offesa ricevuta.
Bisogna riflettere sull’idea di compromesso
morale. Noi di solito intendiamo in senso negativo l’idea di compromesso, di
fronte alla radicalità evangelica. Ci sono però due tipi di compromesso: il
compromesso con la propria coscienza e il compromesso di coscienza. Il primo
significa scendere a patti con la propria coscienza e questo naturalmente è
peccato. Compromesso di coscienza è chiedersi quale sia il modo più giusto, in
una concreta situazione, di circostanze particolari, per ottenere non il
maggior bene in assoluto ma il maggior bene concretamente possibile. Il bene è
sempre un bene concretamente possibile, non il bene in astratto, in assoluto.
La figura del compromesso significa accettare delle limitazioni che sono
necessarie perché sulla base di quel bene concretamente possibile in un certo
momento si ampli per il futuro sempre di più la condizione che rende possibile
un’affermazione più grande dello stesso bene. Evoca l’immagine del cuneo: non
entra tutto insieme, entra con una
piccola parte, ma se non penetra quella, non può poi penetrare tutto quello che
c’è dietro. O quella del battistrada: chi è il primo della fila fa sempre più
fatica di colui che viene dietro e si trova la strada spianata. Per usare un
concetto teorico, possiamo dire che il compromesso porta scritto in sé una legge di superamento, nel
senso che a lungo andare si tende ad ampliare la base del bene da rendere
superfluo lo stesso compromesso. L’amore diventa un principio maieutico (3) per
capire il bene da farsi. L’amore non pone il limite, sposta sempre più avanti
il limite. Se noi avessimo basato la nostra esperienza morale su comandamenti
precisi, come quelli minuziosamente elaborati dai farisei, ad un certo punto
avremmo potuto concludere di aver raggiunto il limite di ciò che doveva essere
fatto. Se però il principio che regola la vita morale è l’amore, si può
sostenere di aver mai raggiunto quel limite? La vita continua e l’amore sposta
sempre più avanti il limite da raggiungere. Se l’amore è fermo, collassa,
muore, o uccide, o muore o uccide, questo è vero anche nell’esperienza umana. O
inaridisce e muore o, certe volte, uccide, se non può più esprimersi. C’è come
una iperbole (4) dell’amore rispetto alla realtà esistente. Se la nostra
finalità è l’amore la realtà presente non determina solo un limite, ma contiene
anche la sfida a superare il limite nel senso dell’amore. La carità è creativa
e tenda a trovare alternative sempre migliori, perché, nella storia
condizionata dal peccato, il bene possa affermarsi in modo sempre più pieno.
Questa è l’eccedenza dell’amore nei confronti della giustizia, come sostenuto
da Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas
in veritate”: “Chi ama con carità gli altri è innanzi tutto giusto verso di
loro. La città dell’uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri,
ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di
comunione… [La carità] dà valore teologale e salvifico ad ogni impegno di
giustizia nel mondo”.
Termina riassumento il nucleo di ciò che
intendeva dire: la carità prima di essere donata deve essere accolta,
dall’altro e dall’alto. In tanto può animare il rapporto del cristiano con gli
altri in quanto è stata prima sperimentata. La rottura di questo equilibrio ci
sbilancia tra due estremi pericolosissimi. Il primo è una sorta di pelagianesimo, che fa della
volontà privata il cuore dell’impegno morale. L’altro è una sorta di quietismo,
che enfatizzando il momento passivo dell’accoglienza dell’amore, non lo vive
attivamente nel rapporto con gli altri. Il recupero della carità nella vita
morale del cristiano oggi dovrebbe soprattutto avvenire a partire dalla
considerazione che è Dio che ci ama, più che nostra è sua la carità che si
trova al centro della nostra vita. E’ possibile capire l’amore di Dio se non
incontriamo qualcuno che ci ama?
PRESIDENTE:
La
relazione scritta del proc. Zuccaro è stata inviata per posta elettronica. Invita
a leggerla e a meditarla con particolare attenzione. Invita i presenti a
intervenire, con osservazioni e domande.
Chiede
al relatore di approfondire il rapporto tra amore e giustizia. Non è prima
necessario realizzare una condizione di giustizia, prima di poter dare il
massimo di esplicazione all’amore? Non rischiamo di fornire a chi ha più
bisogno e ha più diritto di avere, perché è vissuto in condizioni di
ingiustizia, una tranquillizzazione sul piano dell’amore? Non è forse troppo
comodo dire alle popolazioni del Terzo e Quarto Mondo “io ti do qualcosa, ti
regalo qualcosa” e poi non pensarci più? Non si deve invece innanzi tutto
cercare di far ottenere a ciascuno ciò che gli spetta di diritto, e solo dopo
regalargli qualcosa in più? Non è prima da perseguire una possibile giustizia
proprio per rispettare la legge dell’amore?
ARDIGO’:
Amore
è un termine ambiguo. Cercando di far capire in un ambiente altamente
laicizzato il centro dell’esperienza cristiana ho detto che esso non consiste
nell’affermazione dell’esistenza di Dio, ma nella compassione del sofferente.
Esso è ben manifestato nel crocifisso. Presentare l’esperienza cristiana sotto
il profilo della compassione del sofferente apre molte porte, molte di più di
quelle che possono essere aperta dal linguaggio teologico, altamente
formalizzato, e da quello del magistero, che è un linguaggio teologico.
Nell’enciclica “Caritas in veritate”
è citata la “Populorum progressio”,
di Paolo VI, che vibra di compassione per il sofferente. A quelli che erano
rimasti perplessi dal linguaggio, un po’ specialistico, della “Caritas in veritate” ho consigliato di
leggere la “Populorum progressio” e
l’effetto è stato molto diverso. C’è quell’appello fortissimo ai laici a
buttarsi in mezzo al mondo per cambiarlo: potrebbe stare benissimo nel
programma di un partito rivoluzionario. La controversia sull’esposizione del
crocifisso ha posto in rilievo questo aspetto della nostra fede, che è ignorato
dai più. Di solito la fede è vista infatti come catechismo e come adesione a
norme, non come questa emozione che ti spinge ad andare in soccorso di chi sta
peggio. Eppure la gran pare di noi è divenuta cristiana da piccoli, ricevendo
il catechismo, le storie della Bibbia e la loro interpretazione, le indicazioni
per una vita buona, da persone che ci manifestavano una speciale predilezione,
genitori, nonni, sacerdoti ecc., e di questo è la nostra fede vive ancora da
adulti. E’ possibile affiancare a un discorso razionale, ordinato, perché la
teologia è anche ordine, questo discorso della centralità della compassione
nell’esperienza cristiana, che può aprire molte porte, molti canali di
comunicazione?
A. socio:
L’essere in relazione con Dio è un essere aperto. In una società che ci
spinge a chiuderci, a diventare monadi è una grande sfida, questo meccanismo di
apertura e di relazione lo considero una grande sfida. Non è una cosa facile da realizzare nella vita
di ciascuno, ci vuole sempre un grande sforzo. Per mille ragioni si sarebbe
portati a chiudersi. Anche la compassione per il sofferente, che è venuta in
rilievo nella controversia sull’esposizione del crocifisso, rientra in questa
apertura verso la relazione. Occorre aprirsi ad una condizione relazionale.
T.
socio:
Come interpretare l’assenza di carità, il
rifiuto di carità?
C.
socio:
Da piccoli, al catechismo, ci parlavano del
peccato originale, di questo mistero grandissimo che all’origine avvenne,
capitò, per cui l’uomo decadde da una situazione di perfezione, di totale
relazione con Dio. Oggi l’uomo redento dal Battesimo, che vive in una comunità
di salvati, porta ancora le conseguenze di questo peccato originale. Una volta
questo veniva molto sottolineato. Oggi non più. Andrebbe forse riscoperto e
nuovamente sottolineato per capire il mistero tenebroso dell’iniquità umana. Questo
mistero d’iniquità è all’opera e la Chiesa ci dice che non è qualcosa di
astratto ma una persona. Questo è
importante perché dà uno sfondo metafisico a ciò che succede sulla Terra. Si
svolge un’enorme battaglia tra il mistero d’iniquità e il mistero del bene.
Anche il nostro atteggiamento deve
essere un atteggiamento apologetico, per difendere e promuovere la fede, in
senso moderno. Siamo spinti a buttarci in mezzo allo scontro, nella battaglia
in corso. Altrimenti non si capisce perché ci si dovrebbe buttare in una battaglia
mortale e, innanzi tutto, lottare con me stesso e dopo, con l’aiuto della
Grazia, dopo aver vinto me stesso, combattere anche al di fuori di me, nei
rapporti interpersonali, nelle decisioni da prendere.
ZUCCARO:
Il tema del rapporto tra giustizia e amore è
complesso. Prima la giustizia e dopo l’amore? Forse il rapporto deve essere più
dialettica, senza un prima e un dopo. Però sono d’accordo che non c’è amore
autentico senza la giustizia e che la giustizia è una prima forma di amore.
Dagli africani del Ruanda e del Burundi ho
imparato l’importanza per loro del concetto di “restituzione”. E poi del problema di come possano i vivi
perdonare per i morti. Si tratta di temi che mi era capitato di leggere in una
tesi di dottorato e che ho sentito nuovamente dal cardinale di Kartum (Sudan),
che metteva in rilievo, di fronte alle sperequazioni mondiali, anche il dovere
di restituzione. La giustizia non è una cosa semplice. La carità non significa
mettere una pietra sopra il male commesso. E’ un problema politico grosso
studiare la possibilità di realizzare la restituzione di quanto sia stato
ingiustamente sottratto. La giustizia ha aspetti rilevanti e condizionanti la
verità di quello che noi chiamiamo amore.
L’amore ha un intrigo incredibile di significati,
certamente. Poi, l’osservazione: “io non mi sono mai chiesto se Dio c’è o non
c’è”. Una volta si insisteva di più nel dire che attraverso la fede si arriva
all’amore. Probabilmente il percorso inverso è esistenzialmente più vicino a
noi. E’ attraverso l’amore che si può arrivare a credere. Sono d’accordo sul
recupero delle esperienze di compassione.
Il linguaggio è un problema, le prediche dei
preti ecc. Certi termini che usiamo non agganciano più l’uditorio, ad esempio
il termine “salvezza”, o il termine “peccato” (“se non si fa male agli altri,
perché dovrebbe essere peccato”?). C’è dunque un problema reale. Nei miei
rapporti con i cosiddetti laici, in
particolare sui temi della bioetica, la cosa ricorrente, che mi ha fatto
cambiare strategia, è che ad un certo punto mi si obiettava che quello che
sostenevo riguardava la mia fede e che, poiché loro non ci credevano, non accettavano quanto sostenevo, perché loro
si muovevano nell’ottica di un’etica pubblica, condivisa. Sbagliamo noi quando
cerchiamo di giustificare le norme morali partendo dai presupposti della fede,
dalla Rivelazione, però dobbiamo anche essere tranquilli nel dire che certe
argomentazioni possono essere sviluppate partendo dalla ragione umane, dalle
acquisizioni comuni. Il problema è quello dei livelli di linguaggio. Il
magistero deve utilizzare un linguaggio pastorale: se nessuno lo capisce più
dovrebbe cambiare il linguaggio. Noi ricordiamo la svolta del Concilio, Papa
Giovanni, che usava quel linguaggio nuovo che agganciava le persone. Dobbiamo
chiederci se sia ancora attuale questa attenzione a farsi capire. C’è però un
altro livello della comunicazione che è per quelli che riflettono, noi ad
esempio. In questo ambito dobbiamo stare attenti a non prestare il fianco alle
obiezioni di chi dice che quello che diciamo è detto in nome della fede e che
quindi non può essere condiviso da tutti, da chi non ha la fede. Possiamo usare
anche argomentazioni umane, antropologiche: se poi in quanto teologi o
semplicemente cristiani riusciamo a comunicare che tutto quello che abbiamo
detto sul piano antropologico, in un orizzonte di fede, assume un significato
particolare, che non si pretende che sia accolto da tutti gli interlocutori, questo
è legittimo, va fatto. Noi abbiamo ricevuto il dono della fede: altrimenti
opereremmo un rischiosissimo schiacciamento antropologico della fede. Sarebbe
sbagliato. Però ci può essere un modo comune di argomentare, senza rinnegare i
propri presupposti teologici. Come credente posso quindi dare una mia interpretazione
morale sul piano teologico. Indubbiamente il linguaggio dei libri di teologia è
quasi solo per gli addetti ai lavori. Anche gli stessi teologi cominciano a
essere un po’ sensibili al problema del linguaggio. Però bisogna fare
attenzione a che l’obiezione che ci viene dal mondo laico non diventi un
impedimento a sviluppare le nostre argomentazioni su certi temi di pubblico
dibattito. Il rifiuto non può essere aprioristico. Diceva Sant’Agostino che non
pretendeva che l’interlocutore condividesse le sue argomentazioni, ma che,
prima di rifiutarle, le capisse.
Il tema della relazione è fondamentale.
L’eredità dell’antico mondo greco è culturalmente molto più individualistica,
mentre quella del mondo ebraico è molto più aperta alla relazione. Sant’Agostino,
nel presentare l’uomo come immagine della Trinità, si riferisce all’importanza
della relazione nell’ambito dell’umano. C’è un percorso dall’antropologia
dell’indigenza all’etica della risposta. La nostra vita è segnata da un’inclusione,
tra la nascita e la morte, caratterizzate dal pianto del neonato e dal rantolo
del morente, quasi domande rivolte a chi le intercetta, espressioni di esigenze
vitali. Se non si soccorre il bambino, al suo pianto, quello muore. Per il
morente non ci si può fare niente, però lo si può accompagnare alla morte, con
le ultime carezze, anche questa è una relazione. L’etica nasce da qui. Occorre
intercettare il bisogno dell’altro e porsi come risposta a quel bisogno. Questa
è la relazione. La risposta è sempre relativa alla domanda. Questo stabilisce
la dimensione relazionale della vita. Il cuore della morale, quello che
chiamiamo come amore e carità, è concepirsi come risposta al bisogno
dell’altro. La nostra identità noi non la conquistiamo al tavolino, sono gli
altri che ce la rendono ed è quanto di più personale noi abbiamo. Però sono gli
altri che ce la rendono nella misura in cui ci rendiamo vulnerabili alle loro
necessità, alla compassione. Prendendo da noi ciò di cui hanno bisogno, gli
altri plasmano quella fisionomia della nostra identità che, se noi lasciamo
fare, diventerà quel capolavoro che Dio ha pensato per noi. Ad esempio, sono
stati i più poveri ad aver fatto Madre Teresa di Calcutta ciò che è diventata.
Il tema del rifiuto dell’amore mi ha suscitato
riflessioni. La Rivelazione di Gesù dice che Dio dà a tutti la capacità di
conoscerlo: perché allora alcuni lo accettano e altri no? Una prima risposta
chiara è che il rifiuto dell’amore di Dio, quando è consapevole, equivale al
peccato. Si può non credere in Dio, peccando. Il caso più complicato è come si
fa a capire, ad avere l’esperienza dell’amore di Dio. C’è la mediazione della
coscienza. Dio non sempre si fa
conoscere con il volto di Dio. Nella
coscienza noi abbiamo la possibilità di conoscere Dio nel volto di una persona,
di un bisognoso, di una istanza interiore che riguarda gli altri. Dio si
presenta con un volto di uno sconosciuto, come ai discepoli di Emmaus, che lo
accompagnavano ma non l’hanno riconosciuto fino ad un certo punto. E’ a questa
domanda della coscienza che noi dobbiamo dare risposta. Se noi siamo
sinceri a dare risposta a questa domanda
della coscienza, allora io credo che, se anche formalmente non riusciamo ad
essere cristiani, la Grazia di Gesù ci arriva lo stesso, è scritto nella “Lumen Gentium”. Arrendersi alla
coscienza, ubbidire alla coscienza, la sincerità verso la coscienza, è
l’alleato più prezioso per arrivare a Dio. Questo è vero anche nel campo delle
altre religioni. Le religioni non sono equivalenti, ma se c’è
quell’atteggiamento di una persona verso la propria coscienza, la Grazia le
passa attraverso.
Per quanto riguarda il tema del peccato
originale la mia idea è che se non ci fosse si dovrebbe inventarlo. Certe cose
senza peccato originale io non riesco a spiegarmele.
L’altra cosa che noi forse abbiamo
dimenticato, e che nella teologia dei riformati è più evidente, è questa
dimensione della lotta. Nella Costituzione “Gaudium
et spes”, nella prima parte, dove si tratta della vocazione e dignità della
persona umana, parla di questa lotta tra il bene e il male, a cui l’uomo
partecipa in modo esplicito. In effetti esiste una dimensione agonale della
vita dell’uomo, nel senso si della morte che combattimento. Noi ci troviamo
all’interno di questo agone: dobbiamo scegliere il campo.
Per quanto riguarda il mistero d’iniquità e le
strutture di peccato: un modo di lottare è anche quello del compromesso, nel
senso di incunearsi in queste strutture di peccato e dall’interno cercare
progressivamente di ampliare lo spazio del bene.
Per quanto riguarda l’impegno apologetico del
cristiano, in questa lotta, ho dei dubbi. Preferirei il termine di
“testimonianza” piuttosto che quello di “apologetica”. Il termine “apologetica”
infatti tendenzialmente evoca il
proselitismo, la conquista di spazi, la contrapposizione. Forse non è questo lo
stile del maestro. Non è che dobbiamo arrenderci, naturalmente. A questo
proposito ricordo due episodi del Vangelo. Il primo è quando il servo del sommo
sacerdote dà uno schiaffo a Gesù: Gesù non è che gli porga l’altra guancia; gli
dice “Se ho parlato male dimostralo. Se non ho parlato male, perché mi hai dato
uno schiaffo”. D’altra parte lo stesso Gesù che ha detto così si è lasciato
inchiodare sulla croce. Vale a dire: il criterio è sempre quello della carità,
in modo intelligente. La testimonianza è quello che ci resta, alla fine. Non la
lotta, la testimonianza. Io rimango colpito da certi ambienti nei quali non si
può parlare di Gesù, non si può portare il distintivo con la croce. E che
rimane da fare in quegli ambienti: solo la testimonianza. Essa apre lo spazio
per una speranza che illumina questo grigiore della lotta epica con Gog e Magog
(5), la speranza della Resurrezione. Senza questo siamo destinati a fallire. A
che cosa possiamo andare incontro con la testimonianza? La risorsa estrema è la
morte. Ma Gesù ha vinto la morte. Lo dico, ma ho paura a dirlo, nel senso che
se toccasse a me…Ho partecipato alla sessione plenaria della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli e dei vescovi hanno riferito che hanno ucciso i
cristiani perché erano cristiani e loro si sono lasciati uccidere. Non perché i
cristiani avessero fatto cose cattive, strane, ma solo perché erano cristiani.
Questo coraggio della testimonianza è ciò che mi sollecita di più. Tutti siamo
sollecitati ad accettare certe lusinghe, certi compromessi, nella nostra vita.
Alla fine ci rimane però la testimonianza.
INTERVENUTO
“A”:
Parla della logica della sovrabbondanza e
della carità del cristiano. I non credenti talvolta rifiutano anche la logica
del dono e quindi della reciprocità, che spinge a ricambiarlo. Come superare
questo problema?
ZUCCARO:
Il superamento non c’è. O la concezione di Dio
entra in una prospettiva del dono oppure no. Dipende dalle scelte che si fanno.
Questa è la decisione di fondo. Non potrei mai convincere una persona che è
meglio il dono che il non dono. Ciò che posso dirle è che ciascuno rimane
responsabile di questa decisione. Ci si può chiedere dove vada a finire una
relazione basata sul non dono e dove invece una relazione basata sul dono. Si è
detto che la nostra è un po’ una società di persone sole. Riflettiamo ad
esempio su questa frase che si sente spesso: “La mia libertà comincia dove
finisce la tua”. Noi stiamo creando delle barriere. Ci chiudiamo dentro un recinto,
dove mettiamo solo quelli che la pensano come noi. Poi ci stanno gli altri. E’
cosa che dipende da come una persona vede la società. Bisogna anche rendersi
conto che se una persona vive la relazione diventa vulnerabile, si rende
vulnerabile. L’altro mi può invadere, mi può occupare. Può fare ciò che vuole.
Però diventa possibile la relazione.
Sul dono ricorda la lezione di Derridà, per il
quale il dono dovrebbe essere estraneo alla logica commerciale del dare per
ricevere, ma simile a una foglia di tabacco che, fumata, svanisce, non ritorna.
Per Gesù il dono è come il sale o la luce: il sale per realizzare la sua
funzione svanisce, scompare; la luce per realizzare la sua funzione si consuma.
Questo è il dono. Altrimenti si entra nella logica del commercio. Rimane la
responsabilità del rifiuto e quella di capire l’accettazione del dono nel
limite del concretamente possibile. Sia l’offerta che l’accettazione del dono
non sono mai astratte. Altrimenti illudiamo le persone, le facciamo diventare tristi. Se uno può dare poco, darà
poco. Ragionare nel limite del concretamente possibile significa avere un senso
storico della vita, non astratto. L’astratto serve per aver un orizzonte verso
il quale spingersi sempre più avanti. Il concretamente possibile non è il fine
e la fine del dono, è la solo la realizzazione del dono. Il dono è
sovrabbondante nei confronti della sua realizzazione. Rimane la responsabilità
di scelta, di decisione. Ognuno darà le sue ragioni per accettare o rifiutare
la logica del dono. Ma possiamo capire dove porta una logica e dove un’altra.
CR.
socio:
In nome della logica del “do ut des” abbiamo abdicato a importanti principi. Lo si vede
anche nella vita universitaria. Mi sorprendo quando vedo che dei giovani di
diciotto, diciannove anni, le matricole, hanno già assimilato questa logica.
Quando noi, oggi più adulti, avevamo la loro età non eravamo così. Questo poi
compromette lo sviluppo libero della persona umana. Si vivono condizionamenti
esterni talmente forti da impedire una decisione autonoma. In questo modo nella
società si riproducono i modelli avariati, non si migliora. E’ questione che riguarda la stessa
sopravvivenza umana. Viviamo sotto la
cappa della distruzione mondiale. Il Papa, nella “Caritas in veritate”, sostiene che la soluzione dovrebbe essere
quella di un accordo internazionale, per superare i problemi determinati
dall’ingiustizia e via dicendo. Nel nostro mondo tale obiettivo sembra però più
difficile da raggiungere. Non abbiamo gli strumenti critici per tirarci fuori
da questa situazione, anche a livello generazionale. La capacità critica dei
giovani d’oggi è bassissima, rispetto a quello che occorrerebbe. Da dove
tiriamo fuori le argomentazioni che ci servono? Non dalla fede. Dobbiamo usare
la razionalità, il ragionamento. Come lo controlliamo il ragionamento, se
dietro di esso c’è la logica del compromesso, della negoziazione. Non c’è
giustizia in questo. Come sostiene il Papa nella “Caritas in veritate”: qual è la verità, quella che si basa sulla
bilancia o quella che si basa su un’altra logica che dobbiamo sviluppare?
Abbiamo una enorme responsabilità come esseri umani. Dobbiamo attrezzarci sia
dal punto di vista culturale, ma anche dal punto di vista di costituire
un’opposizione alla logica del “do ut des”,
del commercio.
ZUCCARO:
Condivido che ci debba essere un impegno di
tutti, prioritario.
La coscienza ci rende insostituibili. E non
possiamo scappare dalla nostra coscienza. La responsabilità della coscienza non
si esercita solo all’atto di prendere una decisione, si esercita lungo tutto
l’arco della vita. C’è un’attività formativa della coscienza che è molto importante: non solo siamo
responsabili dinanzi alla nostra coscienza, siamo responsabili anche della
nostra coscienza. Ritorna però il discorso dell’esperienza da offrire: le
argomentazioni sono giuste, ma non sempre muovono all’azione. Ci vuole la
motivazione per muovere all’azione.
CR.
socio:
Secondo me si dovrebbe partire da certi
principi. L’azione deve essere valutabile in base a dei principi.
ZUCCARO:
In
fondo stiamo dicendo la stessa cosa. Come faccio un giovane ad avere
l’esperienza della gratuità se nessuno gliel’ha offerta?
CR.
socio:
Nella
nostra società la gratuità non è premiata. Si ricade spesso nel commerciale. La
restituzione, come previa esigenza di giustizia, il problema che si sono posti
in Africa, se ha una motivazione spirituale ha un senso, certamente,
altrimenti si ricade nel commerciale. Ma un’economia che non abbia un volto
umano, ce lo dicono gli stessi economisti, non ha un successo. Un’economia dal
volto umano la stanno progettando, ad esempio, in India, non in Occidente.
Abbiamo avuto la proposta di soluzioni ai problemi mondiali da culture, non
cristiane, che però hanno una visione cosmica della vita. Non dobbiamo ridurre tutto
ad esperienza personale, dobbiamo ancorare l’esperienza a dei principi
importanti. La teoria e la prassi devono camminare insieme, non si deve mettere
in primo piano l’esperienza.
ZUCCARO
Aggiunge che se l’esperienza manca di un
quadro di riferimento fondante, diventa estremamente fluttuante, soggettiva,
individualistica.
INTERVENUTO
“B”.
Oggi
ci si basa molto sulle emozioni, ci si deve emozionare per muoversi. L’emozione
non implica mai il passaggio alla teoria, alla consapevole acquisizione.
ZUCCARO:
Siamo
passati dalla dittatura della ragione alla dittatura dell’emozione.
INTERVENUTA
“C” (studentessa)
Contesta
che i giovani di oggi siano senza principi e che non si vogliano impegnare.
CRISTOLINI:
Sostiene
che l’immagine dei giovani d’oggi che ha prima fornito deriva da risultati di
ricerca.
INTERVENUTO
“D” (professore)
siamo
passati a parlare sul tema del “giovani d’oggi”. E’ stato trattato nella
letteratura di ogni tempo. Ci possono essere incomprensioni tra i giovani e i
vecchi di oggi. Tuttavia non bisogna dare ad essi eccessiva importanza. Si
tratta di cercare di capire. Ma il fondatore della Honda ha detto “se io capisco che cosa stanno facendo i giovani
d’oggi, significa che non stanno facendo nulla di buono, perché vuol dire che
stiamo fermi”.
INTERVENUTA
“E” (studentessa)
I giovani d’oggi sono figli delle generazioni
che li hanno preceduti. Se c’è stata una crisi di relazioni tra genitori e
figli, tra coloro che appartengono alla generazione più giovane e quelli di una
generazione precedente, ciò ha riflessi sul modo di intendere anche le
relazioni di tipo religioso, tra noi e Dio. La Chiesa è stata a lungo ferma al
vecchio catechismo, solo di recente si è
riscoperta la dimensione relazionale nell’iniziazione cristiana. Non è giusto
puntare sempre il dito sui giovani.
A.
socio:
I
giovani sono il futuro. Se pensiamo al futuro è a loro che dobbiamo riferirci. Per
questo ne parliamo. Io, ad esempio, superati i cinquant’anni, rappresento una
porzione molto limitata del futuro. In questo senso il problema dei giovani è
centrale.
Si sviluppa una polemica tra alcuni
partecipanti all’incontro, sul tema dei “giovani d’oggi”.
PRESIDENTE:
Non
pensavo, quando ho scelto questo tema, di andare a finire sul conflitto
generazionale.
INTERVENUTO
F:
Nel Buthan, un minuscolo stato dell’Asia,
nelle valutazioni economiche hanno sostituito il PIL con il FIL, la felicità
interna lorda, inteso come conoscenza, formazione, stato di salute. Non è tanto
questione di come sono i giovani, ma dei modelli applicati nella società in cui
i giovani si trovano a vivere. Il
modello italiano non mi sembra il
massimo che si possa pensare.
***************************
Note:
(1)
Pelagianesimo: teoria teologica del 5° secolo della nostra era, derivante dal
pensiero del monaco Pelagio (nato in Britannia), secondo il quale la salvezza è raggiungibile dall’uomo
per mezzo della sua volontà.
(2)Blondel
Maurice (1861-1949): filosofo francese. Dava molta importanza alla volontà,
nell’azione umana.
3)maieutico:
metodo per far progredire l’allievo nella comprensione a partire dai concetti
che si formano nella sua stessa mente, come quando l’ostetrica aiuta la
partoriente a far nascere il bambino che ha in sè.
4)iperbole:
figura retorica che tende ad accentuare i concetti espressi.
5)Gog
e Magog: personaggi mitici menzionati nella Bibbia, nei libri di Genesi ed Ezechiele e
nell’Apocalisse, e nel Corano, protagonisti di una lotta contro le forze del
bene.
6)Derridà
Jacques (1930-2004): filosofo francese.
***********************************************
B
Testo della relazione scritta
preparata prima dell’incontro:
La centralità dell’amore nella vita
morale del cristiano
La
tradizione della chiesa ha sempre visto nella carità la virtù che dà forma e
unità all’esperienza cristiana della vita. Commentando la prima lettera di
Giovanni, Agostino esplicitamente riconosce che il segno distintivo del
cristiano è l’amore:
“Solo 1’amore
distingue i figli di Dio dai figli del diavolo. Se tutti si segnassero con la
croce, se rispondessero amen e cantassero tutti l’alleluia; se tutti
ricevessero il battesimo ed entrassero nelle chiese, se facessero costruire i
muri delle basiliche, resta il fatto che soltanto la carità fa distinguere i
figli di Dio dai figli del diavolo. Quelli che hanno la carità sono nati da
Dio, quelli che non l’hanno non sono nati da Dio. E’ questo il grande criterio
di discernimento”[1].
Tale
convinzione è fondata in modo esplicito nella scrittura già a partire
dall’Antico Testamento, ma ancor più evidentemente nel Nuovo[2]. La recente Enciclica Deus caritas est mette in luce la novità dell’amore come “il centro
della fede cristiana”[3], mostrando come questa rivelazione si trovi proprio
al cuore dell’esperienza depositata nella sacra scrittura.
Come
spesso accade, a livello di riflessione teologica e filosofica, il cammino che
formalizza questa esperienza non è stato sempre così uniforme. Ne è consapevole
Benedetto XVI quando nella recente Enciclica Caritas in veritate, al n 2 scrive:
“Sono consapevole
degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va
incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal
vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In
ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti
più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l'irrilevanza a
interpretare e a dirigere le responsabilità morali”.
Sappiamo,
infatti, che facilmente la necessità di trovare una soluzione tecnica ai
problemi effettivamente complessi dell’economia e più in generale quelli legati
alla crisi ancora per tanti versi in atto rischia di far apparire irrilevante o
almeno generico il principio della carità. Inoltre, la svolta impressa alla
morale ad opera di Kant ha messo in primo piano la perfezione dell’atto, misurata
sulla base della coerenza con la legge, lasciando in penombra la perfezione del
soggetto. Da qui si è rafforzata, anche in teologia, quella «morale degli
atti», nata in seguito agli sviluppi del Concilio di Trento[4] e, secondo alcuni, ancora parzialmente presente nella
proposta magisteriale[5]. Da tempo, però, sia la riflessione filosofica in
campo etico, sia la teologia morale stanno riportando in primo piano quella che
comunemente viene chiamata «l’etica della virtù»[6]. In questo orizzonte, si spiega più facilmente il
giusto recupero della virtù della carità, come elemento unificante di tutta la
vita cristiana. Innanzitutto la carità è accolta come il dono grazie al quale
L’obiettivo
delle riflessioni che seguono non è quello di ricostruire l’itinerario storico
del problema, né quello di presentare un quadro sintetico della questione.
Molto più modestamente, desidero sottolineare alcuni aspetti che, secondo la
mia sensibilità, sono di particolare interesse ed importanza per la
comprensione dell’intera vita morale. Pertanto, il cammino si snoderà a partire
dall’esperienza iniziale di un amore che si riceve, per riflettere
sull’esperienza successiva di questo amore che è accolto, corrisposto e donato.
1. Dall’amore accolto…
“All’inizio
dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì
l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo
orizzonte e con ciò una direzione decisiva”[8].
Penso
che questa sorta di incipit della
Enciclica Deus caritas est possa
costituire una giusta impostazione del problema: la base della vita morale non
è né «un ragionamento senza cose», né «un’insieme di cose senza anima», ma
piuttosto una questione di essere e di essere «in relazione». Del resto, pur
tenendo conto delle dovute cautele imposte dal passaggio non automatico e
meccanico dal piano dell’essere a quello dell’agire[9], questa esigenza era già presente nell’adagio
scolastico dell’agere sequitur esse.
L’antropologia cristiana si configura necessariamente come un’antropologia
teologica, dal momento che è il dono dell’amore della Trinità che sta
all’origine della vita dell’uomo. La comprensione del mistero dell’uomo,
pertanto, non può essere disgiunta dall’autorivelazione del mistero di Dio in
Gesù Cristo.
“In realtà solamente nel mistero del Verbo
incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo,
era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo,
proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente
l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (Concilio Ecumenico Vaticano II,
Costituzione pastorale Gaudium et spes,
7 dicembre 1965, 22).
È
lui, Cristo, il volto umano dell’amore trinitario che previene ogni attività da
parte dell’uomo[10], anzi, si manifesta proprio là dove l’uomo è incapace
di amare[11]. Senza questa rivelazione di Gesù, non sarebbe certo
venuto meno l’amore della Trinità, eppure esso sarebbe rimasto sconosciuto per
l’uomo. Questa esperienza è resa possibile soltanto dal fatto che il Verbo
invisibile di Dio si è consegnato nelle mani della nostra capacità umana di
vederlo e di toccarlo[12].
Si
manifestano così alcune caratteristiche dell’amore divino: esso non è legato
alla bontà morale dell’uomo, per cui, sotto questo punto di vista, esso è va
oltre il merito o il demerito dell’uomo. Non è il buon comportamento dell’uomo
a commuovere Dio e determinare un atteggiamento amorevole: il suo è un amore assolutamente
libero e gratuito. Inoltre l’amore di Dio non è mai un «amore per delega»,
poiché è reso presente non da un altro diverso da Lui, non da un «ambasciatore
che non porta pena», ma da colui che “pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza
da ciò che soffrì”[13]. Infine è un amore «sino alla fine», come mostra
l’itinerario che dal cenacolo conduce al Calvario; nella prospettiva di
Giovanni, infatti, il gesto di amore fino alla fine della lavanda dei piedi[14] trova il suo compimento nelle ultime parole che l’evangelista
mette in bocca a Gesù morente: “tutto è compiuto”[15]. L’icona del Crocifisso è la manifestazione di un
amore che abbraccia tutta la vita fino all’ultimo respiro, ma anche di un amore
così intenso che non se ne può pensare uno maggiore.
La
breve meditazione teologica deve ora provocare la riflessione morale,
inducendola a riflettere sulla natura e sul ruolo dell’amore nella vita
cristiana. In tal senso, mi pare di capire come il punto di partenza della
morale cristiana sia non la domanda, ma «la risposta». Infatti, la persona,
incontrata dall’amore di Dio, deve decidersi nei suoi confronti. Non si tratta
di riportare indietro la discussione sul rapporto tra autonomia morale ed etica
di fede. Vorrei piuttosto sottolineare il fatto che la dimensione morale del
cristiano è segnata dalla decisione assunta nei confronti dell’esperienza che
Dio dona del suo amore e che l’uomo percepisce tramite la profondità della
propria coscienza secondo tempi e forme diversi[16]. Infatti, il cammino che porta ad un tale traguardo
non solo non è mai identico per ciascuna persona, ma nemmeno necessariamente
sfocia per tutti nel riconoscimento esplicito e formale di Gesù Cristo e della
sua Chiesa[17]. Per questo l’esperienza dell’amore di Dio è
un’esperienza insieme di fede, perché essa trascende la capacità umana e di
morale, perché l’accoglienza del dono non può avvenire in modo magico, ma solo
e sempre attraverso la decisione della coscienza. Non si tratta di una
riduzione antropologica della fede, come se l’esperienza dell’incontro con
l’amore di Dio fosse un diritto dovuto. Non si tratta, però, nemmeno di una
imposizione e di una forzatura che Dio impone a dispetto della libera e
consapevole responsabilità della persona, anche se ciò dovesse avvenire per il
suo bene.
Questo
è il punto centrale per comprendere il ruolo della carità nella vita morale del
cristiano: esso non va inteso prima di tutto come un comandamento che anima il
suo rapporto con Dio e con gli altri, ma come l’accoglienza di un dono. La
responsabilità, prima ancora che nell’esercizio della carità, consiste
nell’atteggiamento assunto nei confronti dell’offerta dell’amore divino
percepito tramite la coscienza. Sono convinto che la profondità dell’amore
vissuto è proporzionata non tanto alla buona volontà della persona, ma
soprattutto alla disponibilità a ricevere l’esperienza dell’amore donato da
Dio. Per questo appare quanto mai credibile l’osservazione di Benedetto XVI:
“Il «comandamento»
dell'amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l'amore può
essere «comandato» perché prima è donato […] Egli per primo ci ha amati e
continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con
l'amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi
stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo
«prima» di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche in noi”[18].
Non
riusciremo a sottolineare mai abbastanza questo dato che fonda la centralità
dell’amore nella vita morale cristiana: il messaggio evangelico pone in primo
piano l’amore che Dio riversa sull’uomo. Questo è il vangelo di Gesù Cristo, il
Vangelo dell’amore di Dio per
l’umanità[19]. Staccata da questo riferimento fondante la vita
morale del cristiano si riduce al lodevole esercizio stoico di una volontà che
non va oltre un rapporto «corretto» con Dio e con gli altri; corretto, ma senza
amore[20]. Certamente è l’amore il principio della vita morale
del cristiano; ma non il nostro amore, bensì l’amore di Dio.
L’accoglienza
dell’amore come centro della vita cristiana chiama in causa la morale anche
perché coinvolge la mediazione della coscienza. Si tratta di sviluppare questo
punto particolarmente delicato, cui abbiamo già fatto cenno in precedenza.
L’accoglienza del dono non avviene bypassando
il dinamismo della coscienza morale, ma è frutto del suo esercizio; infatti
l'adesione di fede all’amore di Dio si inserisce dentro le preesistenti
strutture dell'agire umano responsabile[21]. La persona accoglie il dono divino dopo aver
esaminato e valutato il significato che essa comporta per la realizzazione
della sua esistenza. Tale decisione suppone che il credente abbia giudicato
tale evento come un bene che è di estrema importanza per lui, anzi è
irrinunciabile. Una volta accolto nella fede, l’amore trinitario, diventa il
principio unificante della vita morale, aprendo al cristiano un corrispondente orizzonte
di senso, che informerà il comportamento successivo. Pertanto, l’avvenuta
«decisione sull’amore trinitario» accolto, immediatamente determina le
successive decisioni morali come «decisioni di amore», componendo l’unità della
coscienza. Per questo occorre coniugare insieme una dimensione «morale» della
coscienza, che rende umanamente possibile l’accoglienza dell’amore divino, e
una dimensione «cristiana» della stessa, che rende possibile le decisioni nella
carità di Cristo. Naturalmente la «dimensione
morale della coscienza cristiana e la dimensione
cristiana della coscienza morale» non sono esperienze separate ma sono
ricondotte all’unità nell’esperienza di fede.
Dalla
centralità dell’amore di Dio deriva una dimensione decisiva dell’antropologia
in chiave morale: la sottolineatura che l’uomo è suscitato dall’amore di Dio;
possiamo esprimerlo dicendo brevemente che «l’uomo è l’essere della risposta».
Infatti, la sua vita morale si snoda proprio a partire dalla risposta che egli
dà a Dio che lo ha amato: da qui la sua scelta di fondo che, come è
testimoniato in tutta la storia sacra, lo porta ad aprirsi a Dio, oppure
rinchiudersi nella sua orgogliosa ostinazione[22]. Sotto questo punto di vista, mi pare di poter dire
che la vita morale è una vita teologale alla radice e che prima «del fare» essa
si esprime «nell’accogliere». Una tale struttura fondamentale naturalmente si
riflette anche nel rapporto con gli altri e mette in luce come la carità si
manifesti nel «porsi come risposta al bisogno dell’altro»[23].
2. All’amore donato
L’esperienza
dell’essere amati da Dio costituisce anche la sorgente e il motivo dell’amore
vissuto dall’uomo e con il quale dimostra di avere effettivamente aperto il suo
cuore a Dio. L’amore verso il prossimo, dunque, non può essere diverso
dall’amore ricevuto come dono da Dio: è in questo amore che “io amo, in Dio e
con Dio, anche la persona che non gradisco e neanche conosco”[24]. Pertanto, si capisce come il dinamismo
dell’esperienza morale esiga il passaggio da un amore accolto a un amore
donato. Si capisce anche come, senza l’esperienza del primo diventa difficile,
se non addirittura impossibile, praticare il secondo. Credo che la riflessione
morale soffra di un deficit per
quanto concerne l’esperienza dell’amore accolto, nel senso che la sua proposta
si sbilancia sul comandamento dell’amore rispetto all’amore donato da Dio. Il
capitolo più studiato, infatti, è quello dell’amore come impegno attivo del cristiano
nei confronti di Dio, degli altri, di se stessi[25]. In una parola, si nota una sproporzione dell’amore
dell’uomo verso Dio piuttosto che il contrario, sebbene la scrittura testimoni
in modo evidente la priorità dell’amore che Dio effonde sull’umanità[26].
Questa
sproporzione non può essere giustificata dal fatto che l’oggetto della morale
non verte sulla descrizione della vita divina, quanto piuttosto sull’uomo nel
suo agire in libera e consapevole responsabilità. Infatti, è proprio per questo
che è importante l’esperienza dell’amore che si riceve: perché esso condiziona
l’atteggiamento nei confronti dell’altro. La mancanza di amore è sempre il
fallimento della persona[27], ma è precisamente su questa mancanza che occorre
riflettere con più calma. Che alla base di ogni peccato ci sia sempre una
mancanza di amore è una verità sulla quale tutti si trovano d’accordo[28]. Possiamo, però, senz’altro affermare il contrario,
cioè che ogni mancanza di amore è peccato? Naturalmente non si tratta di
giocare con i termini, ma penso che esista una «mancanza di amore» che non sia
colpevole quando una persona, in un momento particolare della sua vita,
potrebbe trovarsi nell’incapacità oggettiva di amare non per propria colpa, ma
perché non ha vissuto l’esperienza dell’amore. La dimensione della
responsabilità personale non può darsi senza le condizioni di possibilità che
già la teologia morale classica vedeva non solo nella capacità di comprendere
la malizia di un’azione, ma anche nella capacità piena di compierla, cioè nella
sufficiente libertà di azione. Credo che proprio questa sia da verificare nel
caso in cui la persona manca di una condizione necessaria per poter amare:
quella di essere stato amato. D’altro canto non si può ingenuamente affermare
che sia sufficiente una tale esperienza per poter amare senza alcuno sforzo. Il
fatto, però, che ci sia stata l’esperienza di un amore ricevuto vuol dire che
la persona si trova nelle condizioni di possibilità per decidere di donare il
proprio amore oppure per chiudersi nel suo egoismo.
Una
delle conseguenze salutari di questa attenzione è il superamento di un vena di
pelagianesimo che, talvolta, è presente nell’impostazione morale. Si tratta di
una eccessiva fiducia nella buona volontà che sarebbe capace di mettere in
pratica i comandamenti. Si sorvola con troppa facilità la condizione storica
della persona che è condizionata in tanti modi e alla quale non basta conoscere
la regola per poterla seguire[29]. Abbiamo preso coscienza che non basta una rigorosa argomentazione che dimostri la validità
delle norme perché essi suscitino l’adesione interiore della persona. A questo
scopo si dimostra, invece, fondamentale la motivazione
che spinge la volontà a decidersi sulla base della norma nella quale la persona
vede riflessa l’esigenza della realizzazione della sua dignità personale[30].
Possiamo
raccogliere qui una delle lezioni fondamentali di Blondel a proposito del
rapporto atto e persona, rapporto che per lui è così stretto da considerare
l’atto come la «sostanza» della persona[31]. In particolare il filosofo francese ricorda che:
“Niente agisce su di
noi o tramite noi che non sia veramente soggettivo, che non sia stato digerito,
vivificato, organizzato in noi stessi; se non passa attraverso il sentimento,
l’idea rimane lettera morta […] Esso [il motivo dell’azione] non spunta,
diciamo così, all’improvviso e come per generazione spontanea. È ì1 deputato di
una folla di tendenze elementari che lo sostengono e lo sospingono. È il
risultato di cause più remote e più generali. E la conclusione di tutto un
sistema anteriore, e funge da intermediario tra le disposizioni abituali e le
circostanze particolari che ne sono l’occasione”[32].
Quando
un motivo diventa per la persona così importante da determinare la decisione e
la deliberazione della volontà, è segno che la posta in gioco non è più la
semplice libertà di questo o quello, ma, ben più radicalmente, la libertà di
volere noi stessi: “in quello che desideriamo al di fuori di noi cerchiamo
sempre noi stessi […] al di sopra di ciò che brama l’uomo si interessa a ciò
che in lui brama e gode. Egli si preferisce al mondo, perché di fatto vale più
del mondo”[33].
È
la motivazione, dunque, che riconduce al soggetto tutte le azioni deliberate e,
almeno nella prospettiva cristiana, è l’amore la motivazione ultima che
determina la bontà morale dell’agire. Da qui la necessità che la persona, per
motivare le sue decisioni a partire dall’amore, debba averne già avuto
l’esperienza, la quale non sarà possibile fino a quando non ci si è sentiti
amati[34]. Pertanto, sotto il profilo della formazione morale,
prima ancora che richiedere l’amore come motivazione delle azioni, ci si
dovrebbe preoccupare che la persona si trovi nella condizione di poterlo capire
e di poterlo vivere, poiché ha fatto esperienza di essere amata. Si scorge, in
tal modo, l’inestricabile unità dell’amore accolto e donato, nonché il suo
dinamismo di reciprocità. Nel momento in cui qualcuno vive l’esperienza
dell’accoglienza nell’amore non può sottrarsi alla responsabilità di donarlo a
sua volta, senza, con ciò, rendere vana e inefficace quell’esperienza ricevuta.
D’altro canto, nel momento in cui qualcuno si concepisce come dono di amore e
risposta alle necessità degli altri è segno che egli ha sperimentato
l’accoglienza da parte di un altro.
Del
resto questa reciprocità dell’amore accolto e donato è insita nella logica
della decisione personale che non si esaurisce nel raggio del soggetto, ma
coinvolge necessariamente gli altri. L’azione, infatti, non si limita a vivere
solo all’interno dell’intenzione soggettiva della volontà che l’ha deliberata e
l’ha eseguita della pratica. Essa varca le soglie dell’agente e cade già dentro
un contesto più ampio. Per questo è
“una strana
illusione quella di credere […] di farsi del male senza farne a nessun altro
[…] è un errore ingenuo immaginare che si possa mancare senza nuocere agli
altri […] Ma allo stesso modo qualunque cosa facciamo […] farlo
bene significa compiere un servizio pubblico”[35].
In
fondo, nessuna azione è «astratta» nel senso letterale del termine, cioè compiuta
astraendo e prescindendo da qualsiasi legame con un conteso circostante. Al
contrario, essa, nell’esprimere l’intenzione e la volontà soggettiva, è allo
stesso tempo condizionata dal contesto in cui viene posta e tende a
condizionare quel contesto esprimendo in esso la volontà da cui è stata
deliberata. Citando ancora una volta Blondel, possiamo dire che: “in ciò che
facciamo c’è sempre quello che facciamo fare, e in quello che facciamo fare
esiste sempre una riserva latente di energia che sfugge alla nostra previdenza
e al nostro governo”[36]. Applicando il discorso alla nostra riflessione,
possiamo concludere che il «dono» dell’amore è condizionato dall’«accoglienza»
che, a sua volta, comporta l’esigenza del dono. Quando noi presentiamo l’amore
come cuore della vita morale non possiamo separare i due momenti e sbilanciare
il discorso su l’uno o sull’altro, ma dobbiamo mantenere viva la reciprocità
che è loro propria.
La
concretezza storica dentro cui la carità diventa principio che unifica le
decisioni morali del credente suggerisce anche una ulteriore riflessione, circa
il rapporto carità, giustizia e legge[37]. Abbiamo già ricordato che l’accoglienza e il dono
dell’amore non avviene mai in modo astratto, cioè al di fuori delle
ristrettezze di una storia che è segnata dal mistero dell’iniquità. Le
relazioni tra le persone sono condizionate da strutture che tendono a rendere
impraticabile o incomprensibile l’amore. Lo ricordava Giovanni Paolo II, quando
scriveva che:
“La somma dei
fattori negativi, che agiscono in senso contrario a una vera coscienza del bene
comune universale e all'esigenza di favorirlo, dà l'impressione di creare, in
persone e istituzioni, un ostacolo difficile da superare. […] non è fuori luogo
parlare di «strutture di peccato», le quali […] si radicano nel peccato
personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che
le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere. E così esse
si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando
la condotta degli uomini”[38].
All’interno
di queste relazioni occorre certo affermare l’amore, ma senza ingenuità, cioè
tenendo conto delle limitazioni che le «strutture di peccato» impongono alla
buona volontà della persona. Amare
incondizionatamente non significa amare al di fuori di ogni condizione, ma
significa amare in qualunque condizione possiamo venire a trovarci. Da qui
la necessità di un amore che sappia farsi calcolo non per limitare la sua
intensità, ma proprio per trovare la sua massima espressione concretamente possibile. In questo
senso, da qualche tempo si ripensa al discorso del compromesso come un
possibile modo di esprimere nella storia la radicalità evangelica[39]. Naturalmente il compromesso non consiste nello
scendere a patti con la propria coscienza, ma nella ponderazione di
quest’ultima per trovare la decisione che, all’interno delle situazioni
concrete, meglio di ogni altra realizza il bene e il valore desiderato[40]. Il compromesso, dunque, non serve a giustificare
l’ingiustizia di una particolare situazione[41], ma a penetrare in essa per piantare il germe del
bene che in futuro tenderà a sanare quella situazione.
Se,
però, da una parte il compromesso può considerarsi esigito dall’amore,
dall’altra, se dimentica questo suo principio ispiratore, esso ne rappresenta
la morte. In questo senso l’amore diventa quasi un «principio maieutico» perché
non si accontenta mai della misura del bene raggiunto e insegna a spostare
sempre più in il limite della realizzazione fino ad allora raggiunto. Nessuna
misura è sufficiente per saziare l’amore e questo determina nella vita morale
una sana inquietudine per cercarne sempre migliori e più perfette
realizzazioni. In questo contesto si inserisce il rapporto tra le norme e
l’amore, che rappresenta il compimento iperbolico del bene, di cui la legge è soltanto una delle possibili
specificazioni e interpretazioni[42]. Infatti il comandamento dell’amore, come l’esigenza
etica delle beatitudini e della sequela, introduce un cambiamento di paradigma
rispetto all’osservanza esteriore e materiale della legge. Gesù ha vinto il
male in modo radicale e ha reso presente una storia nella quale realmente le
ristrettezze imposte dal peccato sono in lui già distrutte[43].
Da
qui deriva, come conseguenza, che il discepolo di Gesù non ha paura di
accettare il contrasto tra la storia attuale e l’ideale dell’amore, anzi nella
misura in cui egli si impegna per vivere l’amore di Cristo sperimenta quanto è
tragica la condizione negativa in cui si trova attualmente la storia. È vero
che l’amore espande l’orizzonte del regno di Dio, ma è anche vero che esso
lascia emergere quanto sia distante da questo ideale la storia presente. Del
resto, nella croce di Gesù, che pure è il segno più alto del suo amore per
l’umanità, “la drammaticità della storia è pensata fino in fondo, lo stato di
abbandono del giusto in questo mondo si palesa in tutta la sua crudezza”[44]. Eppure, proprio questa certezza della vittoria di
Cristo impegna il discepolo ad andare costantemente oltre una formulazione
normativa dell’amore, alla ricerca di alternative sempre più valide che meglio
rispondano all’iperbolico superamento della storia della colpevolezza che è
stato già operato da Gesù. L’amore non si accontenta del compimento del bene
secondo la legge, ma spinge più avanti il desiderio per trovare una forma
sempre nuova e più rispondente alla pienezza del bene. Se il cuore della vita
morale del cristiano è l’amore, come si fa a segnare il limite di sufficienza
dell’amore nel concreto agire morale? Pertanto, esiste una tensione continua
tra legge e carità; questo va inteso non nel senso che la carità distrugge la
legge, ma nel senso che la carità impegna il discepolo di Cristo a spostare
sempre più avanti il limite del bene segnato dalla legge.
La
carità è creativa: senza rinunciare alla verità e alla norma riesce a trovare
alternative sempre migliori perché, nella storia condizionata dal peccato, il
bene possa affermarsi in modo più pieno. È in questo contesto che mi pare si
possa collocare anche il capitolo sulla casistica che sta uscendo dalla
clandestinità cui lo aveva relegato un cattivo uso e sta trovando una giusta
collocazione all’interno della teologia morale[45]. La casistica, nel suo compito di archiviazione di
modelli etici che offrono un primo riferimento nella complessità della vita,
non sclerotizza la carità, la rende operativa e concreta. Anzi, è la stessa
carità che deve motivare dall’interno la schematizzazione dei casi
paradigmatici. Così, da una parte la carità si pone come stimolo alla casistica
e, dall’altra, quest’ultima si concepisce come un servizio alla carità, senza
la pretesa di esaurirla, ma nella consapevolezza di tipicizzarne le esigenze
all’interno della complessità della storia.
Abbiamo
messo in evidenza la necessità di una serie di vie concrete attraverso cui la
carità possa risultare praticabile. Prima di terminare la riflessione,
comunque, è necessario riaffermare che, nonostante tutte le conquiste della
giustizia, esisterà sempre un’eccedenza della carità nei confronti di ogni
legge e di ogni forma di giustizia. Lo pone in evidenza Benedetto XVI quando
mette in guardia dall’errata convinzione che la giustizia potrebbe fare a meno
dell’amore. Anche se “c’è del vero” nell’affermazione che “i poveri […] non
avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia”, tuttavia:
“L'amore -caritas- sarà sempre
necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale
giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole
sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci
sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà
solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle
quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il
prossimo [...] L'affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero
superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica
dell'uomo: il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe «di solo pane» (Mt 4,
4; cfr Dt 8, 3), convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò
che è più specificamente umano”[46].
Lo
stesso Pontefice riprende il discorso nella più recente Caritas in veritate, quando
proprio all’inizio scrive, al n. 6:
“La carità eccede
la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all'altro; ma non è
mai senza la giustizia, la quale induce a dare all'altro ciò che è “suo”, ciò
che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso «donare»
all'altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete
secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di
loro. […] La “città dell'uomo”
non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor
prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità
manifesta sempre anche nelle relazioni umane l'amore di Dio, essa dà valore
teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo”
3. Conclusione
Parafrasando
Un’ultima
conclusione è vicinissima a quella della
Caritas in veritate: il legame così
stretto tra l’amore trinitario accolto dall’uomo e da lui donato e testimoniato
conduce alla consapevolezza che la crisi del nostro mondo è una crisi
teologale. Ascoltiamo Benedetto XVI:
“Senza Dio l'uomo
non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. […] La
maggiore forza a servizio dello sviluppo è quindi un umanesimo cristiano, che
ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l'una e l'altra
come dono permanente di Dio. La disponibilità verso Dio apre alla disponibilità
verso i fratelli e verso una vita intesa come compito solidale e gioioso […]
L'umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano. Solo un umanesimo
aperto all'Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di
vita sociale e civile -nell'ambito delle strutture, delle istituzioni, della
cultura, dell'ethos- salvaguardandoci dal rischio di cadere prigionieri
delle mode del momento” (Caritas in
veritate, 78)
Secondo
la mia sensibilità, il recupero della carità come cuore della vita morale del
cristiano dovrebbe oggi avvenire
soprattutto a partire dalla consapevolezza che è Dio che ci ama. Più che
nostra, è sua la carità che si trova al centro della nostra vita.
- [1] Agostino, Commento alla prima
lettera di Giovanni, 5, 7.
- [1] Mi limito a segnalare V.
Warnach, Agape: die Liebe als Grundmotiv der neutestamentlichen Theologie, Patmos, Düsseldorf 1951; G. Quell-Stauffer,
«agapaô – agapè», in G. Kittel - G.
Friedrich, edd. Grande Lessico
del Nuovo Testamento I, Paideia, Brescia 1965, 57-146; C. Spicq,
Agapé dans le NT. Analyses des
texetes, Gabalda – Lecoffre, Paris
1966³; V. P. Furnisch, The Love Command in the New Testament,
Abingdon, New York 1972; J. Beutler,
«Das Hauptgebot im Johannesevangelium», in K. Kertelge, ed. Das Gesetz im Neuen Testament, Herder, Freiburg 1987, 222-236 e S.
Legasse, «Et qui est mon prochain?». Etude sur l'objet de l'agapè dans le
Nouveau Testament, Cerf, Paris 1989; T.
Soding, Das Liebesgebot bei Paulus: die Mahnung zur Agape im Rahmen der
paulinischen Ethik, Aschendorff, Münster 1995.
- [1] Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, 25 dicembre 2005,
1.
- [1] Cfr. la
raccolta di L. Vereecke, Da Guglielmo d’Ockam a Sant’Alfonso de
Liguori. Saggi di storia della teologia morale moderna (1300-1787),
Paoline, Cinisello Balsamo 1990 e la storia del concetto di legge naturale
ricostruita da J. R. Mahoney, The Making of Moral Theology: A Study
of Roman Catholic Tradition, Clarendon, Oxford 1987.
- [1] Mi riferisco
all’opinabile commento di M. Vidal, La proposta morale di Giovanni Paolo
II. Commento teologico-morale all’enciclica «Veritatis Splendor»,
Dehoniane, Bologna 1994 e Id.,
«La morale nel “Catechismo della Chiesa Cattolica”», in Rivista di teologia morale 98
(1993) 199-228.
- [1] Sotto il
profilo filosofico si deve menzionare il classico di A. MacIntyre, After virtue. A study in moral theology, University of Notre
Dame Press, Notre Dame 1984² e A. Da
Re, «Il ritorno dell’etica nel pensiero contemporaneo», in Id., ed. Etica oggi: comportamenti collettivi e modelli culturali,
Gregoriana, Padova 1989, 103-233. Riguardo alla teologia mi limito a
ricordare S. Pinckaers, Il rinnovamento della morale,
Borla, Torino 1968 e gli sforzi di Keenan, di cui segnalo: J. F. Keenan, «L'etica delle virtù:
per una sua promozione tra i teologi moralisti italiani», in Rassegna
di teologia 44 (2003) 569-590; D.
Harrington - J. Keenan, Jesus
and Virtue Ethics. Building Bridge between New Testament Studies and Moral Theology, Sheed and Ward, New York 2002 e J.F.
Keenan, «Wath does Virtue Ethics Bring to Genetics?», in L.S. Cahill, ed. Genetic, Theology and Ethics. An
Interdisciplinary Conversation, Herder & Herder, New York 2005,
97-113. Si può vedere, infine, il tentativo di R. Gerardi, Alla sequela di Gesù. Etica delle beatitudini, doni dello Spirito,
virtù, Dehoniane, Bologna 1999.
- [1] Si possono
vedere le osservazioni specifiche sul tema ad opera di G. Gilleman, Il primato della carità in teologia morale, Morcelliana,
Brescia 1959; cfr. anche negli stessi anni J.
Fuchs, «Die Liebe als Aufbauprinzip der Moraltheologie. Ein
Bericht», in Scholastik 29
(1954) 79-87. Più tardi vedi anche L.
Janssens, «Norm and Priorities in Love ethics», in Louvain Studies 9 (1977), 115-156
e, infine, è tornato sul tema R.
Caseri, Il principio della
carità in teologia morale. Dal contributo di G. Gilleman a una vita di
riproposta, Glossa, Milano 1995; M.
C. McKenzie, Paul Ramsey's Ethics: the Power of
'Agape' in a postmodern World, Westport, London 2001.
- [1] Benedetto XVI, Deus caritas est,
1.
- [1] Sulla
problematica si può vedere W.D.
Udson, ed. The Is/ought
Question. A Collection of Papers on th Central Problems in Moral
Philosophy, Macmillan, London 1969 e J.
Gründel, Mutevole e immutabile nella teologia morale. Considerazioni
sulla teologia morale alla luce dell’assioma “agere sequitur esse”,
Morcelliana, Brescia 1976.
- [1] “In questo si è
manifestato l' amore: noi non abbiamo amato Dio, ma egli ha amato noi e ha
inviato il Figlio suo come propiziazione per i nostri peccati” (Gv. 4,
10).
- [1] “Ma Dio ci dà
prova del suo amore per noi nel fatto che, mentre ancora eravamo
peccatori, Cristo morì per noi” (Rom. 5, 8).
- [1] “Colui che era
fin dal principio, colui che noi abbiamo sentito, colui che abbiamo veduto
con i nostri occhi, colui che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno
toccato, cioè il Verbo della vita -poiché la vita si è manifestata e noi
l'abbiamo veduta e ne diamo testimonianza e vi annunziamo questa vita
eterna che era presso il Padre e che si è manifestata a noi-, colui che
abbiamo veduto e sentito lo annunziamo a voi, affinché anche voi abbiate
comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il suo Figlio
Gesù Cristo” (Gv. 1, 1-3).
- [1] Eb. 5, 8.
- [1] Cfr. Gv. 13,
1-5.
- [1] Gv. 19, 30.
- [1] “La coscienza è il nucleo più segreto e il
sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona
nell'intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo
mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del
prossimo” (Concilio Ecumenico
Vaticano II, Gaudium et spes,
16).
- [1] “Quelli che
senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia
cercano sinceramente Dio; e sotto l'influsso della grazia si sforzano di
compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame
della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina
Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza
colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di
Dio, e si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita
retta” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen
gentium, 21 novembre 1964, 16). E ancora da ricordare l’Ad gentes quando scrive che la
necessità della missione evangelizzatrice non esclude che “Dio, attraverso
vie a lui note, possa portare gli uomini, che senza loro colpa ignorano il
vangelo, alla fede, senza la quale è impossibile piacergli” (Concilio Ecumenico Vaticano II,
Decreto Ad gentes, 7 dicembre
1965, 8).
- Benedetto XVI, Deus
caritas est, 14 e 17. Scrive Basilio "L'amore di Dio non è un
atto imposto all'uomo dall'esterno, ma sorge spontaneo dal cuore come
altri beni rispondenti alla nostra natura […] Diciamo in primo luogo che
noi abbiamo ricevuto antecedentemente la forza e la capacità di osservare
tutti i comandamenti divini, per cui non li sopportiamo a malincuore, come
se da noi si esigesse qualcosa di superiore alle nostre forze, né siamo
obbligati a ripagare di più di quanto ci sia stato elargito" (Basilio, Regole più ampie, in PG
31, 909-910).
- [1] Su questo mi
permetto il rimando al mio C.
Zuccaro, Cristologia e
morale. Senso, interpretazione, prospettive, Dehoniane, Bologna 2003,
con relativa bibliografia.
- [1] Cfr. Benedetto XVI, Deus caritas est, 18.
- [1] Si può vedere S. Bastianel, «Una opzione
fondamentale di fede-carità», in Coffele
G. - G. Gatti, edd. Problemi
morali dei giovani oggi, LAS, Roma 1990, 65-79.
- [1] Cfr. A. Di Giovanni, «L’ “opzione
fondamentale” nella Bibbia», in Associazione
Biblica Italiana, edd. Fondamenti biblici della teologia
morale, Paideia, Brescia 1973, 61-82.
- [1] Utile la
lettura di E. Quarello, La vocazione dell’uomo: l’amore
cristiano, Dehoniane, Bologna 1971.
- [1] Benedetto XVI, Deus caritas est,
18.
- [1][1] Per esempio,
anche Häring, che pure mostra la sensibilità programmatica nell’introdurre
il discorso sull’amore partendo dalla necessità di “trattare dell’amore
con cui Dio ci ama”, tuttavia sviluppa soprattutto il dovere del nostro
amore verso Dio: cfr. B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia
morale per preti e laici, 2. La verità vi farà liberi, Edizioni
Paoline, Roma 1980, 501-586. Ancora più evidente è lo sbilanciamento sul
versante dell’amore per Dio, piuttosto che il contrario, nel manuale di A. Günthör, Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale, 2. Morale
speciale: le relazioni del cristiano verso Dio, Edizioni Paoline, Alba
1975, 239-320. Il fenomeno è tuttavia inequivocabile nella manualista
preconciliare: si veda, come esempio, G.
Mausbach, Teologia morale,
Paoline, Alba 1959, 571-640.
- [1] Si può vedere
il volume Parola Spirito e Vita
10 (1984) che tratta il tema sotto vari punti di vista; A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino 1969 che attualizza
la lettura veterotestamentario e A.
Rizzi, Dio in cerca
dell’uomo. Rifare la spiritualità, Paoline, Cinisello Balsamo 1989²
che è utile anche per la riflessione morale.
- [1] Cfr. E. Quarello,
L'amore e il peccato. Affermazione e negazione dell'uomo, Dehoniane,
Bologna 1971.
- [1] Rimando come
esempio a P. Schoonenberg, «L’uomo
nel peccato», in J. Feiner – M.
Löhrer, edd. Mysterium
Salutis, 4 La storia della salvezza prima di Cristo, Queriniana,
Brescia 1970, 589-719. L’autore mostra come il peccato contro Dio è sempre
un peccato contro le virtù teologali, soprattutto contro la carità che è
“l’unico amore a Dio e al
prossimo e [che] che è anche l’anima la ‘forma’ delle virtù morali che
riguardano le nostre relazioni intramondano […] Il rifiuto della carità
del prossimo implica tutti i peccati del catalogo dell’Apostolo Paolo in Rom. 1” (Ibid., 595-596).
Interessante anche la prospettiva di Keenan che da teologo morale
intravede nelle storie evangeliche che parlano del peccato sempre una
mancanza di amore: “Sin is in the failure to bother to love” (J.F. Keenan, Moral Wisdom. Lessons and Texts from the Catholic Tradition, Sheed and Ward, New York 2004, 57; il capitolo che parla del peccato
si trova alle pp. 47-65).
- [1] Sottolinea
questo aspetto, anche se in modo tendenzialmente unilaterale, E. Drewermann, Psicanalisi e teologia morale, Queriniana, Brescia 1992.
- [1] Cfr. D. C. Maguire, The Moral Choice, Doubleday, Garden City 1978 e D. Pagliacci, Volere e amare. Agostino e la conversione del desiderio, Città
Nuova, Roma 2003.
- [1] “Si è molto
discusso sull’idea di sostanza: ricondotta ciò che in questa sede ne
evidenzia l’analisi, la sostanza dell’uomo è l’azione, ciò che egli fa. En to ergo to on. Noi non siamo,
non conosciamo, non viviamo che sub
specie actionis. Non soltanto l’azione manifesta ciò che eravamo già,
ma essa ci fa anche crescere e ci fa per così dire, uscire da noi stessi”
(M. Blondel, L’azione. Saggio di una critica della
vita e di una scienza della prassi, San Paolo, Cinisello Balsamo
1997², 293).
- [1] Ibid., 197-200 passim.
- [1] Ibid., 202 e
220.
- [1] “S. Agostino,
volendo descriverci il successivo perfezionarsi del dono dell’amore
cristico in noi, tratteggia i tre gradi personali dell’amore umano, i
quali condizionano lo stesso esercizio caritativo cristico. L’infante ama
essere semplicemente amato («amare amari»). Attraverso questa esperienza
egocentrica egli principia a conoscere l’amore. L’adolescente ama amare
l’altro («amare amare») magari per piacere proprio. L’adulto in modo
ablativo ama l’altro («amare») (T.
Goffi, Etica cristiana
trinitaria, Dehoniane, Bologna 1995, 58).
- [1] M. Blondel, L’azione, 327.
- [1] Ibid., 346.
- [1] Utili stimoli
alla riflessione possono venire dalla lettura di A. Rizzi, «La carità come giustizia», in Rassegna di Teologia 26 (1985)
226-244.
- [1] Giovanni Paolo II, Lettera
Enciclica Sollecitudo rei socialis,
30 dicembre 1987, 36.
- [1] Si veda G. Lohfink, «Gesetzeserfüllung
und Nachfolge», in H. Weber, ed.
Der ethische Kompromiss,
Universitätsverlag & Herder, Freiburg 1984, 15-58.
- [1] Rimando, per esempio, a K.
Demmer, «Entscheidung und Kompromiss», in Gregorianum 53 (1972) 332-351.
- [1] Richiama questa
attenzione E. Quarello, «L’amore
come unico principio della vita morale in alcuni rappresentanti dell’etica
della situazione», in Rassegna di
Teologia 3 (1971) 299-313.
- [1] Cfr. F. Schmitz, «La regola aurea:
chiave per il contesto etico», in K.
Demmer - B. Schüller, edd. Fede
cristiana e agire morale, Cittadella, Assisi 1980, 247-264.
- [1] “Ma in questa
economia il peccato non è protagonista né, tantomeno, vincitore. Esso
contrasta come antagonista con un altro principio operante, che […]
possiamo chiamare il «mysterium», o «sacramentum pietatis».
- [1] K. Demmer, Fondamenti di etica teologica, Cittadella, Assisi 2004, 80.
- [1] Il tema, anche
a causa della riflessione bioetica,
è visto sempre con maggiore interesse; mi limito a ricordare A.R. Jonsen - S. Toulmin, The abuse of casuistry. A history of
moral reasoning, University of
California Press, Berkeley 1988. Secondo gli autori la casistica come
metodo di ragionamento morale ha risentito dell’influsso negativo
soprattutto ad opera delle «Lettres Provinciales» (1656) di Pascal, il
quale l’ha etichettato come ridicolo e come un tentativo di sotterfugio
per eludere la legge. L’«abuso» della casistica consiste nel fatto che
proprio in seguito a questa brutta fama si è rigettato il metodo
casistico. Cfr. inoltre J.F. Keenan - T.A. Shannon, edd. The Context of Casuistry. Moral
Tradition and moral Arguments, Georgetown University
- [1] Benedetto XVI, Deusa caritas est, 28. Il Pontefice continua scrivendo: “non
ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun
singolo cristiano, perché l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà
sempre bisogno dell'amore” (Ibid., 29).
- [1] Scrive S.
Tommaso: “Ad primum ergo dicendum quod caritas dicitur esse forma aliarum
virtutum […] inquantum scilicet formam imponit secundum modum praedictum
[…] Ad secundum dicendum quod caritas comparatur fundamento et radici
inquantum ex ea sustentantur et nutriuntur omnes alias virtutes […] Ad tertium dicendum quod caritas dicitur finis aliarum virtutum quia
omnes alias virtutes ordinat ad finem suum” (Summa theologiae, II-II, q. 23, a. 8). Per un commento cfr. la tesi di A.
J. Falanga, Charity the form
of the virtues according to St. Thomas, Catholic University of America
Press, Washington 1948. Si veda anche R.
Carpentier, «Le primat de l’amour dans la vie morale», in Nouvelle Revue Théologique 83
(1961) 3-24: nell’annata ci sono anche altri suoi saggi sullo stesso tema.
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C
mie
riflessioni.
Perché
continuare ad essere cristiani e che cosa fare da cristiani, come singoli e nei
gruppi sociali nei quali siamo già inseriti o che pensiamo di creare? Questo il
problema che si pone ad un certo punto ogni persona che ha avuto un’educazione
religiosa. Esso non riguarda solo i teologi, con le loro argomentazioni
rigorose e informate. Né può essere risolto semplicemente obbedendo ai capi
religiosi. Ogni persona ha infatti una propria via, un posto nell’umanità, una
propria storia, una propria personale fine: difficilmente sopporta a lungo la
completa assimilazione ad una comunità. Questo significa che cultura e autorità
non soccorrono fino in fondo, anche se possono aiutare, dare sollievo e
consiglio. E che gli sforzi che dotti e capi fanno per unificare il gregge
interessano fino ad un certo punto chi si pone quel problema.
Nel
corso dell’incontro del 26 novembre scorso ho detto che, a mio parere,
l’esperienza religiosa fondante per il
cristiano è la compassione per il sofferente. E’ un sentimento che nei Vangeli
viene attribuito spesso allo stesso Gesù. Il Dio dei cristiani nessuno l’ha mai
visto, è scritto così. La vicinanza con
i sofferenti ci fa però desiderare che esista. E’ allora che ci raggiungono le storie della
Bibbia e la dottrina bimillenaria, per fondare la speranza che egli esista
veramente. E che, sulla base di quanto ci è stato raccontato e insegnato,
stabiliamo anche che fare, che direzione dare alla nostra vita. Infatti la
compassione in genere spinge a muovere verso gli altri, in loro difesa e
soccorso. Lo stare fermi è sentito come colpa. Da qui in poi sorgono però dei
problemi, perché, una volta inseriti in una comunità di credenti, che educa e sostiene, ma ci si
vuole muovere verso gli altri, ci si trova davanti a molte limitazioni, a molte
vie sbarrate. Le Chiese cristiane hanno avuto infatti fin dagli inizi una vera
fissazione per l’uniformità, sia sotto il profilo concettuale sia sotto quello
etico. L’imposizione dell’uniformità è stata storicamente giustificata con il
possesso della verità, esposta in una dottrina che nei secoli si è fatta sempre
più compiuta e minuziosa, pazientemente adattata al mutare dei tempi ma con un
nucleo immutato, considerato come “deposito di fede” connotante l’esperienza
cristiana, da trasmettere di generazione
in generazione. Oggi la Chiesa vive un’epoca nella quale, nonostante il
frequente utilizzo del termine “carità”, lo si legge anche nei titoli delle due
encicliche del Papa regnante, si pensa sia necessario prioritariamente
ricondurre i fedeli alla conoscenza e all’osservanza della verità. E’ un
proposito chiaramente espresso nella “Caritas
in veritate”: “…bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella
direzione, segnata da san Paolo della –veritas
in caritate-, ma anche con quella, inversa e complementare della –caritas in veritate-". Del resto le
due finalità erano già presenti nell’espressione paolina che nella lettera agli
Efesini, cap.14, vers.15, definisce il concetto: “alethéuontes de en agàpe”, in
greco, cioè “proclamare/agire secondo verità nella carità”. Si teme infatti che
il credente, spinto da ciò che si fa rientrare nel concetto di carità, finisca
per scompaginare l’ordine ecclesiale. Un timore antico, molto presente, ad
esempio, già negli scritti paolini. Che in passato ha determinato molte delle
azioni delle quali ci si è poi dovuti pentire, come mancanze verso la carità,
da ultimo durante l’ultimo Giubileo, quello dell’anno 2000.
E’ scritto che Dio è amore, “O Theòs agàpe estìn” in greco, “Deus càritas est” in latino, e che chi vive nell’amore è unito a
Dio e Dio è presente in lui (prima lettera di Giovanni, cap. 4, vers.15). Il termine
carità, traduce il latino “càritas",
che a sua volta traduce il greco “agàpe”.
Ma che cos’è questo amore di cui si parla e che ci dicono poterci far capire
che cosa è il Dio dei cristiani? Può esserci utile, come credenti cristiani,
per risolvere il nostro problema che ho detto? Ci dicono che la carità è, tra
le cose fondamentali, più grande della fede e della speranza e che essa non
tramonterà mai, anche se ad un certo momento non sapremo più dire che cosa sta
succedendo e interpretarne il senso per noi; è scritto. Per la verità che cosa
sia esattamente la carità non è molto chiaro, come anche non lo sono,
nonostante la compiutezza formale, le dottrine che esprimono le verità cristiane
fondamentali. Infatti si ragiona su ciò che è inconoscibile per definizione.
Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, cap.13, vers.1-7 ci fa degli esempi di
come è chi “ha” la carità: è paziente, premuroso, non è geloso, non si vanta,
non si gonfia di orgoglio, è rispettoso, non va in cerca del proprio interesse,
non conosce la collera, dimentica i torti, rifiuta l’ingiustizia, la verità è
la sua gioia, tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sopporta, non perde mai
la speranza. Ma perché dovremmo essere così? E’ scritto che Dio ci ama (prima
lettera di Giovanni, cap. 4, vers.10-12), che l’amore vero è quello che Dio ha
avuto per noi, non il nostro amore verso Dio. Per questo amore di
Dio verso di noi ci è stato mandato Gesù, in ciò si è manifestato l’amore di
Dio per noi (“en tòuto efaneròthe e agàpe
en emìn”). Dio nessuno l’ha mai visto (“theòn
oudèis pòpote tethèatai”: prima lettera di Giovanni,cap.4, vers.12; la
stessa espressione si trova all’inizio del Vangelo di Giovanni, cap.1, vers.18).
Dio ci ha amati? Come convincersene? Dico, non solo come risultato intellettuale,
derivante da un ragionamento, ma anche dal punto di vista esistenziale, anche
emozionale, che è quello che più conta
nelle decisioni fondamentali di ciascuno, come appunto quando ci convinciamo
che un altro, non ancora Dio, ci vuole bene.
Certo,
dal punto di vista razionale ci sono buoni motivi per fare affidamento sul Dio
dei cristiani. Ma ce ne sono altrettanti per non credere. Innanzi tutto Dio non
si vede. Dicono che operi, ma poi non vi è generale accordo su che cosa
esattamente debba ricondursi alla sua volontà e alla sua azione, salvo che per
la missione terrena di Gesù, sulla quale abbiamo riscontri storici piuttosto
imprecisi, anche se sappiamo con certezza che essa ha avuto effetti importanti
per l’umanità, anche solo dal punto di vista dei costumi religiosi e dei
mutamenti prodotti nelle società e nelle politiche. Dicono che ci ami, ma
l’esistenza umana è sempre piuttosto precaria, in preda a forze della natura e
sociali preponderanti che spesso la sopprimono. E, più in generale, tutta la
vita sul pianeta appare dominata dalla spinta di tutti i viventi a lottare
contro tutti gli altri, della propria specie o di altre specie, per mangiarsi
gli uni con gli altri e per difendersi
dalle aggressioni degli altri uccidendoli, un travaglio inteso e violento nel
quale può essere arduo, alla fine, riconoscere un’intenzione amorevole di chi
si dice che lo abbia progettato e lo sostenga.
Ma è pur
vero che c’è chi vive con sofferenza questo mondo com’è. La sofferenza è un
sentimento, un’emozione, come l’amore. Forse si è avuto modo di imparare
l’amore da piccoli, proprio quando si è ricevuta la prima educazione religiosa, e, da adulti, si
scopre che quegli insegnamenti consentono di dare voce ad aspirazioni profonde.
E quindi li si approfondisce, mentre si cerca di farsi largo nella società in
cui si è capitati a vivere. Per mezzo di essi si giunge a poter parlare di un
altro mondo possibile, di nuovi cieli e di nuova terra, dove non ci siano più
né lutto, né pianto, né dolore. La persona religiosa è consapevole che si
tratta di una realtà al di fuori della portata delle forze dell’uomo:
l’esperienza storica lo conferma, l’analisi delle forze in campo pure. In ciò
sta appunto il carattere religioso di queste convinzioni. In effetti il
mutamento prodotto da esse è innanzi tutto di carattere interiore. Esso
assicura spazi di libertà personale, possibilità di azione individuale. Certe
volte, come in Francesco d’Assisi, irrompe nella società e determina fratture
con il contesto umano contemporaneo, salvo poi consentire successive
ricomposizioni sulla base di diverse intese umane. La religione come fatto
collettivo può essere una forma di mutamento della società. Ma quella cristiana
determina sempre un mutamento interiore e, innanzi tutto, guida la persona al
mutamento interiore secondo le sue più profonde e vitali aspettative. Non si
può mai dire però che cosa ne uscirà, alla fine. A volte l’organizzazione della
comunità religiosa ha guidato verso il mutamento nel senso evangelico, a volte
no. Così anche nell’esperienza individuale la religione cristiana può essere
utilizzata per meri scopi di integrazione sociale. Ho visto in televisione un
vecchio programma di Enzo Biagi sull’Inghilterra, intervistò lo scrittore
Anthony Burgess sull’esperienza religiosa della Chiesa d’Inghilterra, gli
anglicani soggetti formalmente alla Regina d’Inghilterra dopo lo scisma di
Enrico VIII, e lui disse che nella Chiesa d’Inghilterra i più forti moventi
religiosi cristiani non erano più importanti, essa era diventata come il club
del “cricket” e rassicurava gli
inglesi di vivere nel mondo migliore possibile, che Dio era un inglese. Dal
punto di vista del mantenimento della pace sociale anche una religione così
organizzata può avere una sua utilità, noi non dobbiamo disprezzarla a priori. Così,
quando ci propongono il compromesso come obiettivo tattico accettabile, che
consente di realizzare il massimo bene possibile in una determinata situazione,
noi in fondo non possiamo ragionevolmente opporci a questa prospettiva. Ma
bisogna avere consapevolezza che nella decisione religiosa personale possono
anche aver peso altri moventi, altre esigenze, a volte contrastanti con lo
scopo di mantenere stabile e pacifica una determinata società. E che questi
altri moventi possano essere diversi da quelli proposti come prioritari
dall’autorità, nell’esercizio della funzione di governo della comunità dei
credenti. Che, addirittura, alcune
strade sbarrate dall’autorità possano venir percorse da un credente, alla
ricerca di un suo spazio di azione durante il processo di conversione. Questo è
appunto ciò di cui oggi si ha paura, nella Chiesa cattolica, in particolare in
quella italiana, guidata da persone molto anziane, il cui progetto di vita è
quindi in gran parte concluso e che,
sostanzialmente, vivono nel passato. Si cerca di imporre l’uniformità nei
ragionamenti e nelle consuetudini di vita, allo scopo di mantenere l’unità del
popolo cristiano. In questo l’uso della ragione ha assunto un carattere
autoritario: in base ad esso si pensa infatti di poter imporre una soluzione
unica, o un certo ventaglio di soluzioni, ad ogni problema. E certamente
percorrere strade diverse presenta dei rischi. Ma ciascuno poi, quasi sempre,
percorrerà la propria, così come ciascuno quasi sempre sceglie l’amata o
l’amato senza tener conto di consigli e ordini, comunque vivendoli con
sofferenza, e poi dai frutti si vedrà se ha agito bene o male.
Mario
Ardigò
[1]
Agostino, Commento alla prima
lettera di Giovanni, 5, 7.
[2] Mi limito a segnalare V. Warnach,
Agape: die Liebe als Grundmotiv der
neutestamentlichen Theologie, Patmos,
Düsseldorf 1951; G. Quell-Stauffer, «agapaô – agapè», in G. Kittel - G. Friedrich, edd. Grande Lessico del Nuovo Testamento I,
Paideia, Brescia 1965, 57-146; C. Spicq, Agapé dans le NT. Analyses des texetes, Gabalda – Lecoffre, Paris 1966³; V. P. Furnisch, The Love Command in the New Testament, Abingdon, New York 1972; J. Beutler, «Das Hauptgebot im
Johannesevangelium», in K. Kertelge, ed.
Das Gesetz im Neuen Testament, Herder, Freiburg 1987, 222-236 e S.
Legasse, «Et qui est mon prochain?». Etude
sur l'objet de l'agapè dans le Nouveau Testament, Cerf, Paris 1989; T. Soding,
Das Liebesgebot bei Paulus: die Mahnung
zur Agape im Rahmen der paulinischen Ethik, Aschendorff, Münster 1995.
[3]
Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, 25 dicembre 2005, 1.
[4]
Cfr. la raccolta di L. Vereecke, Da Guglielmo d’Ockam a Sant’Alfonso de
Liguori. Saggi di storia della teologia morale moderna (1300-1787),
Paoline, Cinisello Balsamo 1990 e la storia del concetto di legge naturale
ricostruita da J. R. Mahoney, The Making of Moral Theology: A Study of
Roman Catholic Tradition, Clarendon, Oxford 1987.
[5]
Mi riferisco all’opinabile commento di M.
Vidal, La proposta morale di
Giovanni Paolo II. Commento teologico-morale all’enciclica «Veritatis Splendor»,
Dehoniane, Bologna 1994 e Id., «La
morale nel “Catechismo della Chiesa Cattolica”», in Rivista di teologia morale 98 (1993) 199-228.
[6]
Sotto il profilo filosofico si deve menzionare il classico di A. MacIntyre, After virtue. A study in moral theology, University of Notre Dame
Press, Notre Dame 1984² e A. Da Re, «Il
ritorno dell’etica nel pensiero contemporaneo», in Id., ed. Etica oggi:
comportamenti collettivi e modelli culturali, Gregoriana, Padova 1989,
103-233. Riguardo alla teologia mi limito a ricordare S. Pinckaers, Il
rinnovamento della morale, Borla, Torino 1968 e gli sforzi di Keenan, di
cui segnalo: J. F. Keenan,
«L'etica delle virtù: per una sua promozione tra i teologi moralisti italiani», in Rassegna di teologia 44 (2003) 569-590; D. Harrington - J. Keenan, Jesus and Virtue Ethics. Building Bridge between New Testament Studies and Moral Theology, Sheed and Ward, New York 2002 e J.F. Keenan, «Wath does Virtue Ethics
Bring to Genetics?», in L.S. Cahill, ed.
Genetic, Theology and Ethics. An
Interdisciplinary Conversation, Herder & Herder, New York 2005, 97-113.
Si può vedere, infine, il tentativo di R. Gerardi, Alla sequela di Gesù. Etica delle beatitudini, doni dello Spirito,
virtù, Dehoniane, Bologna 1999.
[7]
Si possono vedere le osservazioni specifiche sul tema ad opera di G. Gilleman, Il primato della carità in teologia morale, Morcelliana, Brescia
1959; cfr. anche negli stessi anni J.
Fuchs, «Die Liebe als Aufbauprinzip der Moraltheologie. Ein Bericht», in
Scholastik 29 (1954) 79-87. Più tardi
vedi anche L. Janssens, «Norm and
Priorities in Love ethics», in Louvain
Studies 9 (1977), 115-156 e, infine, è tornato sul tema R. Caseri, Il principio della carità in teologia morale. Dal contributo di G.
Gilleman a una vita di riproposta, Glossa, Milano 1995; M. C. McKenzie,
Paul Ramsey's Ethics: the Power of
'Agape' in a postmodern World, Westport, London 2001.
[8] Benedetto XVI, Deus caritas est, 1.
[9]
Sulla problematica si può vedere W.D.
Udson, ed. The Is/ought
Question. A Collection of Papers on th Central Problems in Moral Philosophy,
Macmillan, London 1969 e J. Gründel, Mutevole
e immutabile nella teologia morale. Considerazioni sulla teologia morale
alla luce dell’assioma “agere sequitur esse”, Morcelliana, Brescia 1976.
[10]
“In questo si è manifestato l' amore: noi non abbiamo amato Dio, ma egli ha
amato noi e ha inviato il Figlio suo come propiziazione per i nostri peccati”
(Gv. 4, 10).
[11]
“Ma Dio ci dà prova del suo amore per noi nel fatto che, mentre ancora eravamo
peccatori, Cristo morì per noi” (Rom. 5, 8).
[12]
“Colui che era fin dal principio, colui che noi abbiamo sentito, colui che
abbiamo veduto con i nostri occhi, colui che abbiamo contemplato e che le
nostre mani hanno toccato, cioè il Verbo della vita -poiché la vita si è
manifestata e noi l'abbiamo veduta e ne diamo testimonianza e vi annunziamo
questa vita eterna che era presso il Padre e che si è manifestata a noi-, colui
che abbiamo veduto e sentito lo annunziamo a voi, affinché anche voi abbiate
comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il suo Figlio Gesù
Cristo” (Gv. 1, 1-3).
[13]
Eb. 5, 8.
[14]
Cfr. Gv. 13, 1-5.
[15]
Gv. 19, 30.
[16]
“La coscienza è il nucleo più segreto e il
sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità
propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge,
che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 16).
[17]
“Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e
tuttavia cercano sinceramente Dio; e sotto l'influsso della grazia si sforzano
di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame
della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina Provvidenza
nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza colpa da parte loro
non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano, non
senza la grazia divina, di condurre una vita retta” (Concilio Ecumenico
Vaticano
II, Costituzione dogmatica Lumen gentium,
21 novembre 1964, 16). E ancora da ricordare l’Ad gentes quando scrive che la necessità della missione
evangelizzatrice non esclude che “Dio, attraverso vie a lui note, possa portare
gli uomini, che senza loro colpa ignorano il vangelo, alla fede, senza la quale
è impossibile piacergli” (Concilio
Ecumenico Vaticano II, Decreto Ad
gentes, 7 dicembre 1965, 8).
[18]
Benedetto XVI, Deus caritas est, 14 e 17. Scrive
Basilio "L'amore di Dio non è un atto imposto all'uomo dall'esterno, ma
sorge spontaneo dal cuore come altri beni rispondenti alla nostra natura […]
Diciamo in primo luogo che noi abbiamo ricevuto antecedentemente la forza e la
capacità di osservare tutti i comandamenti divini, per cui non li sopportiamo a
malincuore, come se da noi si esigesse qualcosa di superiore alle nostre forze,
né siamo obbligati a ripagare di più di quanto ci sia stato elargito" (Basilio, Regole più ampie, in PG
31, 909-910).
[19]
Su questo mi permetto il rimando al mio C.
Zuccaro, Cristologia e morale. Senso,
interpretazione, prospettive, Dehoniane, Bologna 2003, con relativa
bibliografia.
[20]
Cfr. Benedetto XVI, Deus caritas est, 18.
[21]
Si può vedere S. Bastianel, «Una
opzione fondamentale di fede-carità», in Coffele
G. - G. Gatti, edd. Problemi
morali dei giovani oggi, LAS, Roma 1990, 65-79.
[22]
Cfr. A. Di Giovanni, «L’ “opzione
fondamentale” nella Bibbia», in Associazione
Biblica Italiana, edd. Fondamenti biblici della teologia morale,
Paideia, Brescia 1973, 61-82.
[23]
Utile la lettura di E. Quarello, La vocazione dell’uomo: l’amore cristiano,
Dehoniane, Bologna 1971.
[24] Benedetto XVI, Deus caritas est, 18.
[25]
Per esempio, anche Häring, che pure mostra la sensibilità programmatica
nell’introdurre il discorso sull’amore partendo dalla necessità di “trattare dell’amore
con cui Dio ci ama”, tuttavia sviluppa soprattutto il dovere del nostro amore
verso Dio: cfr. B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale
per preti e laici, 2. La verità vi farà liberi, Edizioni Paoline, Roma
1980, 501-586. Ancora più evidente è lo sbilanciamento sul versante dell’amore
per Dio, piuttosto che il contrario, nel manuale di A. Günthör, Chiamata e
risposta. Una nuova teologia morale, 2. Morale speciale: le relazioni del
cristiano verso Dio, Edizioni Paoline, Alba 1975, 239-320. Il fenomeno è
tuttavia inequivocabile nella manualista preconciliare: si veda, come esempio, G. Mausbach, Teologia morale, Paoline, Alba 1959, 571-640.
[26]
Si può vedere il volume Parola Spirito e
Vita 10 (1984) che tratta il tema sotto vari punti di vista; A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino 1969 che attualizza la
lettura veterotestamentario e A. Rizzi, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la
spiritualità, Paoline, Cinisello Balsamo 1989² che è utile anche per la
riflessione morale.
[27]
Cfr. E. Quarello, L'amore e il peccato. Affermazione e negazione
dell'uomo, Dehoniane, Bologna 1971.
[28]
Rimando come esempio a P. Schoonenberg, «L’uomo
nel peccato», in J. Feiner – M. Löhrer, edd.
Mysterium Salutis, 4 La storia della
salvezza prima di Cristo, Queriniana, Brescia 1970, 589-719. L’autore
mostra come il peccato contro Dio è sempre un peccato contro le virtù
teologali, soprattutto contro la carità che è “l’unico amore a Dio e al prossimo e [che] che è anche l’anima la
‘forma’ delle virtù morali che riguardano le nostre relazioni intramondano […]
Il rifiuto della carità del prossimo implica tutti i peccati del catalogo
dell’Apostolo Paolo in Rom. 1”
(Ibid., 595-596). Interessante anche la prospettiva di Keenan che da teologo
morale intravede nelle storie evangeliche che parlano del peccato sempre una
mancanza di amore: “Sin is in the failure to bother to love” (J.F. Keenan, Moral Wisdom. Lessons and Texts from the Catholic
Tradition, Sheed
and Ward, New York 2004, 57; il capitolo che parla
[29]
Sottolinea questo aspetto, anche se in modo tendenzialmente unilaterale, E. Drewermann, Psicanalisi e teologia morale, Queriniana, Brescia 1992.
[30]
Cfr. D. C. Maguire, The Moral Choice, Doubleday, Garden City
1978 e D. Pagliacci, Volere e amare. Agostino e la conversione
del desiderio, Città Nuova, Roma 2003.
[31]
“Si è molto discusso sull’idea di sostanza: ricondotta ciò che in questa sede
ne evidenzia l’analisi, la sostanza dell’uomo è l’azione, ciò che egli fa. En to ergo to on. Noi non siamo, non
conosciamo, non viviamo che sub specie
actionis. Non soltanto l’azione manifesta ciò che eravamo già, ma essa ci
fa anche crescere e ci fa per così dire, uscire da noi stessi” (M. Blondel, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della
prassi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997², 293).
[32]
Ibid., 197-200 passim.
[33]
Ibid., 202 e 220.
[34]
“S. Agostino, volendo descriverci il successivo perfezionarsi del dono
dell’amore cristico in noi, tratteggia i tre gradi personali dell’amore umano,
i quali condizionano lo stesso esercizio caritativo cristico. L’infante ama
essere semplicemente amato («amare amari»). Attraverso questa esperienza
egocentrica egli principia a conoscere l’amore. L’adolescente ama amare l’altro
(«amare amare») magari per piacere proprio. L’adulto in modo ablativo ama
l’altro («amare») (T. Goffi, Etica cristiana trinitaria, Dehoniane,
Bologna 1995, 58).
[35]
M. Blondel, L’azione, 327.
[36]
Ibid., 346.
[37]
Utili stimoli alla riflessione possono venire dalla lettura di A. Rizzi, «La carità come giustizia», in
Rassegna di Teologia 26 (1985)
226-244.
[38]
Giovanni Paolo II, Lettera
Enciclica Sollecitudo rei socialis,
30 dicembre 1987, 36.
[39] Si veda G.
Lohfink, «Gesetzeserfüllung und Nachfolge», in H. Weber, ed. Der
ethische Kompromiss, Universitätsverlag & Herder, Freiburg 1984, 15-58.
[40] Rimando, per esempio, a K. Demmer, «Entscheidung und
Kompromiss», in Gregorianum 53 (1972)
332-351.
[41]
Richiama questa attenzione E. Quarello, «L’amore
come unico principio della vita morale in alcuni rappresentanti dell’etica
della situazione», in Rassegna di
Teologia 3 (1971) 299-313.
[42]
Cfr. F. Schmitz, «La regola aurea:
chiave per il contesto etico», in K.
Demmer - B. Schüller, edd. Fede
cristiana e agire morale, Cittadella, Assisi 1980, 247-264.
[43]
“Ma in questa economia il peccato non è protagonista né, tantomeno, vincitore.
Esso contrasta come antagonista con un altro principio operante, che […]
possiamo chiamare il «mysterium», o «sacramentum pietatis». Il peccato
dell'uomo sarebbe vincente e alla fine distruttivo, il disegno salvifico di Dio
rimarrebbe incompiuto o, addirittura, sconfitto, se questo «mysterium pietatis»
non si fosse inserito nel dinamismo della storia per vincere il peccato
dell'uomo […] Riferendosi senza dubbio a questo mistero, anche san Giovanni,
pur col suo caratteristico linguaggio, che è diverso da quello di san Paolo,
poteva scrivere che «chiunque è nato da Dio, non pecca»: il Figlio di Dio lo
salva e «il maligno non lo tocca» (1Gv 5,18s). In questa affermazione giovannea
c'è un'indicazione di speranza, fondata sulle promesse divine: il cristiano ha
ricevuto la garanzia e le forze necessarie per non peccare” (Giovanni Polo II, Esortazione apostolica
Reconcilatio et paenitentia, 2
dicembre 1984, 19-20).
[44]
K. Demmer, Fondamenti di etica teologica, Cittadella, Assisi 2004, 80.
[45]
Il tema, anche a causa della riflessione bioetica, è visto sempre con maggiore interesse; mi
limito a ricordare A.R. Jonsen - S.
Toulmin, The abuse of casuistry. A history of moral reasoning,
[46] Benedetto XVI, Deusa caritas est,
28. Il Pontefice continua scrivendo: “non ci sarà mai una
situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano,
perché l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell'amore”
(Ibid., 29).
[47]
Scrive S. Tommaso: “Ad primum ergo dicendum quod caritas dicitur esse forma
aliarum virtutum […] inquantum scilicet formam imponit secundum modum
praedictum […] Ad secundum dicendum quod caritas comparatur fundamento et
radici inquantum ex ea sustentantur et nutriuntur omnes alias virtutes […] Ad tertium dicendum quod caritas
dicitur finis aliarum virtutum quia omnes alias virtutes ordinat ad finem suum”
(Summa theologiae, II-II, q. 23, a.
8). Per un commento
cfr. la tesi di A. J. Falanga, Charity the form of the virtues according to