Problemi di costruzione ecclesiale 5
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Teologia e riforma ecclesiale
1.
Fino a che punto la teologia è implicata nei processi di riforma
ecclesiale?
E’ importante saperlo, perché i più non sono teologi.
La teologia cristiana dal Medioevo europeo è costruita come
scienza: si manifesta, dunque, come un
complesso di argomentazioni razionali, organizzate secondo metodologie
condivise dalla comunità degli specialisti e scrupolosamente osservate dal
principio alla fine, vale a dire, in questo senso, “rigorose”. In esse sono comprese le regole della logica, da quelle
fondamentali conosciute fin dall’antichità, che possono essere riassunte nel
principio di non contraddizione, a
tutte le altre che nell’esercizio del pensiero razionale sono state individuate.
Ma si pretende anche che ogni argomentazione sia sviluppata tenendo conto del
dibattito tra gli studiosi, anche del passato, e delle nozioni di fatto
correnti nella società e ritenute indispensabili per gli specialisti del ramo,
come quelle storiche e relative a varie
classi di documenti, ad esempio le Scritture e le deliberazione dei Concili.
Per proporre un discorso teologico occorre
quindi, come nelle altre scienze, studiare molto, in particolare leggere molto,
e procedere citando con precisione ciò che si è letto, in particolare quei
documenti più importanti che vengono definite fonti. Gran parte del lavoro di uno studioso che procede secondo
questo metodo consiste nella documentazione.
Nel post del 5 novembre, nella sezione B, ho proposto
un articolo di teologia su “La centralità
dell’amore nella vita del cristiano”, del prof. Cataldo Zuccaro, e, nella sezione A, una conferenza sul
medesimo tema svolta dallo stesso
autore. E molto chiara la differenza nell’argomentare, che nella
conferenza si avvicina di più al discorrere comune.
La teologia cristiana si sviluppò, nei primi tre secoli della nostra
era, a partire dall’antica filosofia, in particolare dalla grande filosofia
greca. Ne risentono i dogmi fondamentali della nostra fede, in particolare
quelli Trinitari e Cristologici.
Agostino d’Ippona, vescovo di Ippona
(nell’attuale Algeria, dove era stata costituita la Provincia romana di
Numidia) tra il Quarto e il Quinto secolo, catalogato tra i Padri della Chiesa latini, fu prima
filosofo e poi teologo. Sviluppò anche una teologia
politica, in particolare nell’opera La
città di Dio - Civitas dei, che influenzò molto il modo di concepire il
rapporto Chiesa - società civile nei secoli seguenti.
La caratteristica fondamentale della teologia cristiana, addirittura fin
dal Primo secolo, è di essere divenuta
molto importante nelle questioni politiche, sia ecclesiali che civili, dunque per
stabilire chi comanda, chi obbedisce e dove si va. Solo il marxismo, il complesso dei vari
filoni filosofici, sociologici, economici, politici che si richiamano al
pensiero del filosofo e rivoluzionario tedesco Karl Marx (1818-1883) ha avuto
uno sviluppo simile. In un certo senso,
le teologie cristiane e le dottrine politiche che ne sono derivate sono state
il modello di tutti i totalitarismi europei e di quelli manifestati nella
colonizzazione europea del mondo o prendendo a modello quelli europei. In
particolare nell’ossessione di bandire e perseguitare gli eretici, vale a dire quelli che manifestano pubblicamente di non
condividere la linea imposta da un’autorità indiscutibile e, in questo senso,
sacrale.
Questo processo politico è stato sostenuto dallo sviluppo delle teologie
di impostazione filosofica riguardanti il Regno,
che poi si sono ibridate con la sofisticata dottrina giuridica dell’antica
civiltà romana. Il complesso culturale e
politico che ne è derivato è
progressivamente venuto meno solo nel corso dell’Ottocento, con l’estendersi,
tra le culture europee, di processi democratici in cui ebbero un ruolo molto
importanti vari socialismi e nazionalismi. Nell’antichità, i sovrani
presentavano se stessi come padri della loro gente, secondo la concezione
tribale, e mediatori con le divinità che, in un contesto
politeistico, comprendeva il dio
protettore di quella gente e, anche qualche volta, gli stessi monarchi (gli dei
del politeismo non venivano pensati come onnipotenti, dunque anche a una persona eccezionale in società, come appunto un
monarca, potevano essere riconosciute qualità divine). Nelle dottrine politiche
costruite sui cristianesimi, il monarca era invece mandatario del Cielo, nel contesto di una religione monoteistica in
cui alla divinità veniva riconosciuta l’onnipotenza
ed anche un particolare interesse
per l’ordine politico delle società, in vista dell’evangelizzazione. Chi
comanda, in quest’ottica, deve essere come colui che serve, ma il
servizio va vissuto nella dimensione sacrale della carità - agàpe. Da lì alla sacralizzazione
dell’intero sistema politico di governo l’evoluzione fu fatale ed avvenne
in un contesto che oggi diremmo di
governance, vale a dire di interrelazione
tra poteri pubblici, di tipo feudale feudale,
sviluppatosi nella seconda metà del Primo millennio della nostra era, in cui ad
ogni livello dinastico di potere veniva riconosciuta un’ampia autonomia, salva
la supremazia della dinastia imperiale. Grosso modo è ancora questa l’organizzazione
della Chiesa cattolica (salvo che nella successione dinastica che solo in
alcune epoche medievali vi fu praticata, quando il Papato cadde nel dominio di
dinastie nobiliari nella città di Roma), non dissimile in questo dalla politica
che, con riferimento a ciò che in Europa precedette la nuova politica estesasi
in Europa dalla fine del Settecento per influsso delle concezioni rivoluzionari
veicolate dal regime francese di Napoleone Bonaparte, venne chiamata l’Antico regime e che regolò tra gli
europei la vita pubblica interna e le relazioni internazionali degli stati
fino, appunto, al trapasso storico verso un nuovo ordine.
Storicamente bisogna purtroppo riconoscere che la teologia cristiana, nelle sue connessioni
con la politica e il diritto, è stata anche altamente letale, ha provocato
guerre sanguinose e genocidi, in
particolare quello immane prodotto durante la conquista europea delle Americhe,
dal Cinquecento.
Le rivendicazioni politiche del Papato, tra il 1870 e il 1929,
complessivamente riassunte nell’espressione Questione
romana furono proposte con argomentazioni teologiche e, quindi, il processo
della nostra unità nazionale ebbe la teologia cattolica, in genere, come
nemica, fino alla scomunica irrogata al re Vittorio Emanuele 2° e al conte
Camillo Benso di Cavour, rispettivamente il monarca e li Presidente del
consigli dei ministri che deliberarono la conquista militare di Roma.
Motivi teologici furono posti a base della
decisione della gerarchia di allontanare dall’Italia, nel 1924, il prete Luigi
Sturzo, tra i fondatori e primo segretario politico del Partito Popolare
Italiano fino al 1923, e di spedire in una sperduta parrocchia di montagna, nel
1953, un prete del carisma e delle capacità di Lorenzo Milani, e via dicendo in
un triste elenco di perseguitati su scala globale.
Ma per circa mille anni, dal Secondo
millennio, ebbe base teologica la spietata polizia politica e teologica
denominata Inquisizione, modello insuperato per pervicacia ed estensione di
ogni altra burocrazia del genere.
Le questioni di dominio politico tra gli
europei, dal Quarto al Diciottesimo secolo della nostra era, ebbero in genere
anche connotati politici, in particolare perché le dinastie sovrane europee si
erano sacralizzate, e pretendevano di regnare per Grazia di Dio, in esse comprese naturalmente il Papato e il suo
piccolo regno nell’Italia centrale.
Quando liberali, di scuola illuminista, e i socialisti di scuola
marxista iniziarono a promuovere agitazioni sociali per costruire processi
democratici venne condannati anche come eretici
e senza Dio. Anche i primi
fautori di una democrazia cristiana, a cavallo tra
Ottocento e Novecento, furono condannati su base teologica, in particolare con
l’enciclica Graves de Communi re [Le gravi controversie sociali], deliberata
nel 1901 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci -
Leone 13°. Il più noto di quei democratici
cristiani, il prete Romolo Murri,
venne scomunicato nel 1909, durante l’ultima grande persecuzione, quelle contro
il cosiddetto modernismo.
Dunque, sì, la teologia, purtroppo, è piuttosto integrata nei processi
di riforma ecclesiale che riguardano le modifiche dell’organizzazione di
governo a vari livelli della Chiesa.
Tra le decisioni urgenti che vennero prese
dopo la conquista di Roma, vi fu l’abolizione delle facoltà di teologia nelle
Università statali italiane, in applicazione principio della laicità dello
Stato come separazione dello Stato dalla Chiesa. Questo per l’aspra polemica
della teologia universitaria dell’epoca contro il nuovo stato nazionale, su
istigazione del Papato. Questo portò la teologia universitaria cattolica sotto
l’integrale controllo del Papato, un organismo autocratico organizzato nel
contesto antico sopra descritto, e ne impedì una indipendente, conseguenza che
molti ora deprecano, in quanto la rese, in genere, piuttosto reazionaria e,
comunque, almeno pregiudizialmente conservatrice.
2. Dunque, si può
progettare la riforma ecclesiale solo da teologi, in particolare da teologi
cattolici? L’esperienza dell’attuazione dei principi di riforma ecclesiale
deliberati durante il Concilio Vaticano 2° indica che è assolutamente
controindicato che quella riforma sia diretta
da teologi, sebbene certamente la loro collaborazione sia utile, in particolare
per distinguere ciò che, tra le incrostazioni del nostro tragico passato, deve
essere mantenuto, per l’integrità del deposito
di fede, e che cosa non.
Naturalmente questo vale a maggior ragione, e direi con più forza, nella
riforma che abbia ad oggetto realtà di prossimità, dove non si sia oppressi
dall’esigenza di amministrazione patrimoniale e del personale.
Bisognerebbe acquisire la
capacità di sviluppare un discorso colto in materia di organizzazione
ecclesiale liberandosi da una certa tirannia che la teologia da sempre ha
preteso di esercitare, asservendo tutto. Un discorso millenario! Da quando di
voleva che la filosofia divenisse serva (ancilla,
in latino) della teologia, in realtà dei feudatari che la controllavano.
Adesso
papa Francesco insegna che bisogna cambiare. Certo, che bisognerebbe! Ma non
basta cambiare interiormente, occorre cambiare l’organizzazione e, innanzi
tutto, liberarla dalle incrostazioni teologiche del passato che la paralizzano
riproponendo l’autocrazia di sempre, ma poi, anche, sviluppare processi
democratici, perché solo mediante essi è possibile una reale compartecipazione
alle decisioni.
Pensare che il popolo abbia la capacità di intuire la via giusta è una
bella e suggestiva immagine, ma è mitologia,
dice molto ma non tutto. Se fosse stato realmente
così, non ci sarebbe stato bisogno
dell’immane violenza politica e teologica che ha caratterizzato le nostre
Chiese, non solo quella cattolica, fino ad epoca piuttosto recente. Il conformismo (per evitare il peggio) è
stato purtroppo, in genere, il prodotto di quella violenza, che ai tempi nostri
si presenta più sotto il profilo morale, che porta all’emarginazione dei
dissenzienti, e anche al loro licenziamento se predicatori, insegnanti teologi
o funzionari ecclesiali professionisti. Con il senno del poi, certamente,
possiamo essere d’accordo che certe idee mostrano la capacità di persistere
nella società nonostante tutta la violenza esercitata per silenziarle e
sopprimerle.
Il popolo è una creazione
politica. L’antico regime lo pensava come un insieme di sudditi sottomesso alle
burocrazie pubbliche fondate su concezioni autocratiche e, in questo contesto,
il suo fattore unificante, ciò che lo rendeva popolo, a partire da una popolazione
stanziata su un territorio, era l’ubbidienza
a poteri sovrani. Una riforma non può che essere fondata sull’introduzione, a
partire dalle realtà di prossimità, di processi democratici, che consentano la
condivisione delle decisioni sulla base del riconoscimento di una pari dignità
dei chiamati ad essere decisori.
Dal punto di vista teologico, in un contesto culturale e sociale che fu
favorevole allo sviluppo di processi democratici, furono poste le basi
dottrinali di questo processo tra i cattolici con l’enciclica dogmatica sulla
Chiesa Luce per le genti - Lumen gentium, deliberata durante il
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), mediante i seguenti enunciati:
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32. La santa Chiesa è, per divina
istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà. «A quel modo, infatti,
che in uno- stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno tutte le
stessa funzione, così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo, e
individualmente siano membri gli uni degli altri » (Rm 12,4-5).
Non c'è quindi che un
popolo di Dio scelto da lui: « un solo Signore, una sola fede, un solo
battesimo » (Ef 4,5); comune è la
dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di
adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che una sola
salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza
quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla
condizione sociale o al sesso, poiché « non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è
né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo
Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).
Se quindi nella Chiesa non
tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e
hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce nella giustizia di Dio
(cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti
dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra
tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i
fedeli nell'edificare il corpo di Cristo. La distinzione infatti posta dal
Signore tra i sacri ministri e il resto del popolo di Dio comporta in sé
unione, essendo i pastori e gli altri fedeli legati tra di loro da una comunità
di rapporto: che i pastori della Chiesa sull'esempio di Cristo sono a servizio
gli uni degli altri e a servizio degli altri fedeli, e questi a loro volta
prestano volenterosi la loro collaborazione ai pastori e ai maestri. Così,
nella diversità stessa, tutti danno testimonianza della mirabile unità nel
corpo di Cristo: poiché la stessa diversità di grazie, di ministeri e di
operazioni raccoglie in un tutto i figli di Dio, dato che « tutte queste cose opera...
un unico e medesimo Spirito» (1 Cor 12,11).
I laici quindi, come per
benevolenza divina hanno per fratello Cristo, il quale, pur essendo Signore di
tutte le cose, non è venuto per essere servito, ma per servire (cfr. Mt 20,28),
così anche hanno per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando
e santificando e reggendo per autorità di Cristo, svolgono presso la famiglia
di Dio l'ufficio di pastori, in modo che sia da tutti adempito il nuovo
precetto della carità. A questo proposito dice molto bene sant'Agostino: « Se
mi spaventa l'essere per voi, mi rassicura l'essere con voi. Perché per voi
sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di ufficio, questo di
grazia; quello è nome di pericolo, questo di salvezza ».
Un equilibrio che si è mostrato di difficile attuazione pratica, a tutti i livelli, senza abbandonare l’Antico regime che ancora regge il nostro sistema ecclesiale.
Fatto sta che, come riconosciuto anche dai Papi che hanno cercato di riformare,
si è ancora più o meno all’inizio del processo, a cinquant’anni da quegli
esordi, e si manifestano anche
resistenze molto forti in senso contrario.
I problemi non ci sono solo ai vertici o ai livelli intermedi di potere,
ma anche nelle realtà di base. Ad esempio: nella nostra parrocchia il potere è
rimasto sempre monarchico, accentrato
sul parroco. Il primo rimase al potere ventisette anni, il secondo trentadue
anni. Il popolo della parrocchia, in tutto questa era, durata
oltre mezzo secolo, non è mai stato consultato, non si è mai reso presente come
tale, è rimasto sempre allo stato di massa indistinta, emergendo da esso, solo
per cooptazione, qualche consulente illuminato. Nessuna decisione è mai stata
condivisa con il popolo né ad esso
rendicontata, se si eccettua, che io ricordi,
il bilancio finale fatto quando furono completati i lavori per la nuova
chiesa parrocchiale. Si decise l’architettura della chiesa, in un certo stile
caratteristico che richiamava, ancora una volta, una ben precisa teologia,
senza alcuna consultazione popolare, e così accadde quando si decise di
realizzare il grande altare in posizione centrale, abolendo una cinquantina di
posti a sedere che oggi ci sarebbero tornati utili. Ad un certo punto, si
decise di chiudere la ricca biblioteca parrocchiale, e la decisione non venne
pubblicizzata, in modo, anche, da capire se si potesse proseguire
quell’importante servizio chiedendo un contributo economico e un impegno
personale ai parrocchiani. Nessuna
teologia riuscirà mai a convincermi che tutto questo sia indispensabile per l’integrità del deposito di fede. In passato, prima del
nuovo corso iniziato nel 2015, che tante cose ha indubbiamente corretto, si predicava l’ubbidienza e, insomma, tutto doveva
accettarsi per ubbidienza, al che io
rispondevo, con Milani, che l’ubbidienza
non è più una virtù, ma poi più di dirlo non feci molto di più.
Ma bisogna anche aggiungere che la completa ignoranza di qualsiasi
tematica teologica da parte dei laici non aiuta, perché poi li si può
facilmente confondere con il teologhese piuttosto praticato negli ambienti ecclesiali.
Bisogna quindi sforzarsi di acculturarsi maggiormente in questo campo,
acquisendo una informazione di base, ed
è appunto uno dei campi in cui l’Azione Cattolica lavora, senza
necessità, però, anzi evitando, di impelagarsi nella teologia di livello
scientifico. C’è poi una sapienza, dunque un sapere
sperimentale che si conquista nelle
relazioni interpersonali quando si cerca di ispirarle all’agàpe-carità, che aiuta molto a trovare vie nuove dove la teologia
accademica non vede ancora pista. Questo perché il suo principale fattore
critico è la scarsa capacità di aderenza
ai fatti sociali emergenti; guarda prevalentemente al passato e non riesce ad
indagare con animo aperto il presente, del quale sospetta, anche se è dal
presente che sono sempre scaturite le
riforme del passato. Sempre, quindi,
la teologia segue, spiega a posteriori, dopo aver magari considerate
pericolose le novità del presente. Nelle scienze della natura e della società è
diverso, così come nelle tecnologie, compresa quella che riguarda la
costruzione sociale, la riforma delle istituzioni. Eppure l’imperativo
evangelico non è forse seguire Colui al quale si attribuiscono le parole “Ecco,
ho fatto una cosa nuova, proprio ora”?
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli