Problemi di costruzione sociale - 2 -
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1. Siamo certamente un prodotto della natura,
vale a dire di un biologia: siamo infatti dei viventi. Ed è come se abitassimo nel nostro corpo, che si
regola per conto suo, in un modo che le scienze contemporanee cercano di
comprendere, ed ha una sua evoluzione che non dipende che solo in parte dalla
nostra volontà. In particolare, i processi
fisiologici della nostra vita determinano invecchiamento e morte, come in ogni
altro vivente che conosciamo sulla Terra. Finora i tentativi delle scienze di
contrastarli per ritardare la fine hanno avuto limitati successi. Viviamo un
po’ più a lungo che nei secoli passati, ma tuttavia invecchiamo e poi moriamo.
Questa rimarrà la condizione della mia generazione e probabilmente anche delle
altre generazioni più giovani viventi. Non è possibile fare previsioni
affidabili per un futuro più lontano. Rimarremo quindi viventi condizionati
dalla natura, dalla biologia che condividiamo con altri viventi, in particolare
con i mammiferi. Ma che cosa ci
distingue da loro?
La nostra fede ci dice che è una particolare
relazione con il Creatore. Fummo fatti, a sua immagine, a sua somiglianza,
affinché potessimo dominare sugli altri viventi, si legge nel Libro della
Genesi, cap. 1, versetto 26. Al capitolo 2, versetto 15, si legge che il primo
uomo fu posto nel giardino di Eden, perché lo custodisse. Naturalmente poi la
teologia biblica ebraica e cristiana ha sviluppato molto questo argomento, ma,
al dunque, l’idea religiosa della nostra diversità come umani sta in quella
relazione soprannaturale.
Per le scienze ci distinguono la struttura e conformazione
dell’encefalo, che sostengono una mente,
un processo fisiologico di elaborazione dei
dati molto efficiente che è parte del nostro organismo biologico dal quale
riceve importantissimi impulsi, che vengono definiti nel complesso emozioni. La nostra è una mente
emotiva. Mediante i collegamenti biologici con il resto dell’organismo, la
nostra mente ci consente di sentirci
vivere. È un senso che si aggiunge
ai cinque che ci collegano con l’ambiente esterno, e con gli altri viventi
umani e non: vista, udito, tatto, gusto e odorato.
Gli altri viventi non hanno delle menti? Le neuroscienze che studiano le
facoltà cognitive degli animali non ne sono più tanto convinte, specie riguardo
i viventi più simili a noi, i mammiferi.
Creiamo società, come anche altri viventi non umani. Ci combattiamo come
anche accade nelle altre specie sociali e più o meno per gli stessi motivi: il
dominio sociale, la ripartizione delle risorse sociali.
Possono essere individuati elementi che sicuramente appaiono
distinguerci dagli altri viventi: la cultura sociale, intesa come il complesso
di concezioni, costumi, istituzioni che si tramandano insegnandoli e
apprendendoli di generazione in generazione, in essa compresi la scrittura e il
mercato. I viventi non umani comunicano tra loro: alcuni, come ad esempio le
balene, hanno sviluppato veri e propri linguaggi. Esperimenti condotti sulle
scimmie antropomorfe sembrano aver dimostrato la capacità di quegli animali di apprendere e utilizzare un sistema elementare di segni
per comunicare con noi. Non esiste, però, che io sappia, un’altra specie che
abbia mostrato di saper organizzare il mercato, come istituzione in cui si
effettuano scambi per equivalenti, senza limitarsi a predare, a rapinare chi possiede
quello che si desidera ma non si ha.
A
questo punto lascio ai filosofi e ai teologi i complicati problemi suscitati
dalla nostra esistenza come viventi parte della natura ma anche dotati di
spirito e sviluppo alcune considerazione sul mercato, che da molti è mitizzato
e da molti altri demonizzato. Per i primi non guasta la nostra relazione
soprannaturale, per gli altri sì. Ma, comunque, bisogna considerare che la
nostra civiltà ne dipende. Chi ha tentato di farne a meno, cercando di
rimediare ai suoi risultati ingiusti, non ha avuto un successo duraturo e ha
prodotto molta sofferenza e un generale impoverimento sociale. Bisogna sempre
lasciarsi ammaestrare dalla storia. Eppure, se in definitiva la nostra umanità
consistesse proprio nel saper fare mercato,
ne saremmo in fondo delusi, perché il nostro spirito, che riteniamo essere ciò
che di noi è più prezioso, non ne
sarebbe sufficientemente appagato. Pensiamo infatti alle cose spirituali solo dopo aver provveduto alle altre per le
quali il mercato serve. Ma, in effetti, nel mercato c’è più del mero interesse
materiale che regola gli scambi. Dunque anche dal mercato possiamo trarre una
lezione profondamente umana e insieme spirituale, che per di più ci distingue
nettamente dalle altre specie viventi, alle quali di solito riserviamo
l’appellativo di animali per
intendere che noi, in quanto umani, siamo diversi.
2. Spesso, a proposito di mercato, si ricorda
l’episodio evangelico di quando il Maestro, entrato nel Tempio di Gerusalemme,
interruppe un mercato che vi si teneva, rovesciando i banchi di cambiavalute e
venditori. Viene ricordato da tutti e quattro i Vangeli.
Eccola la narrazione del Vangelo secondo Marco, nel capitolo 11,
versetti 15-18, nella versione TILC - Traduzione interconfessionale in lingua
corrente:
«(15) Intanto erano arrivati a Gerusalemme. Gesù entrò nel cortile del
Tempio e cominciò a cacciar via tutti quelli che stavano là a vendere e a
comprare. Buttò all’aria i tavoli di quelli che cambiavano i soldi e rovesciò
le sedie dei venditori di colombe.
(16) Non permetteva a nessuno di trasportare carichi di robe
attraverso il Tempio. (17) Poi si mise a insegnare dicendo alla gente: -sta forse scritto nella Bibbia: La mia casa
sarà casa di preghiera per tutti i popoli? Voi, invece, ne avete fatto un covo
di briganti. (18) Quando i capi dei sacerdoti e i maestri della Legge vennero a
conoscenza di questi fatti cercavano un modo per far morire Gesù. Però avevano
paura di lui perché tutta la gente era molto impressionata del suo
insegnamento.»
In questo racconto, il Maestro sembra
condannare il mercato in sé, non tanto perché si svolgeva nel Tempio, che
doveva essere una casa di preghiera. Non viene precisato se
le contrattazioni che vi si svolgevano erano fraudolente o se i venditori
abusassero delle condizioni di bisogno degli acquirenti per ottenere vantaggi
sproporzionati. Nel Vangelo secondo Giovanni, però, si aggiungono particolari che
hanno indotto di solito i commentatori e i predicatori a propendere per
interpretare l’episodio come un’esigenza di tutela del carattere spirituale del
Tempio.
Ecco la narrazione che leggiamo nel Vangelo
secondo Giovanni, sempre secondo la versione TILC:
«(13) La festa ebraica
della *Pasqua si avvicinava, e Gesù salì a Gerusalemme. (14) Nel
cortile del Tempio trovò i mercanti che vendevano buoi, pecore e colombe.
C’erano anche i cambiamonete seduti dietro ai loro banchi. (15) Allora
Gesù fece una frusta di cordicelle, scacciò tutti dal Tempio, con le pecore e i
buoi, rovesciò i tavoli dei cambiamonete spargendo a terra i loro soldi. (16) Poi si
rivolse ai venditori di colombe e disse: «Portate via di qua questa roba! Non
riducete a un mercato la casa di mio Padre!». (17) Allora i suoi discepoli ricordarono la parola della Bibbia che
dice: l’amore per la tua casa è come un fuoco che mi consuma.»
Su ogni parola dei Vangeli è stata scritta una
sterminata letteratura e nessuna persona
è talmente sapiente da padroneggiarla tutta, figuriamoci io che non lo sono.
Certo è nel Tempio che si svolse quell’azione talmente emozionante da rimanere
ben impressa in chi vi assistette, nonostante sia accaduta in un contesto e con
modalità ben diversi dalle altre scene nelle quali sono ambientati gli
insegnamenti del Maestro, ma anche dalla sua vita quotidiana di predicazione
errante insieme ai discepoli. Non è narrato che egli abbia fatto irruzione in
altri mercati. Anzi: il mercato compare in due delle parabole evangeliche più
importanti sul Regno, quella del tesoro nascosto e quella della perla rara, che troviamo nel Vangelo
secondo Matteo, al capitolo 13, versetti 44-46. Ecco il brano nella versione
TILC:
«(44) Il regno di Dio è
simile a un tesoro nascosto in un campo. Un uomo lo trova, lo nasconde di
nuovo, poi, pieno di gioia corre a vendere tutto quello che ha e compra quel
campo. (45) «Il regno di Dio è simile a un mercante che va in cerca di perle
preziose. (46) Quando ha trovato una perla di grande valore, egli va, vende
tutto quel che ha e compra quella perla.»
Qui non viene citato il mercato, ma il comprare e vendere. Nel caso del
tesoro prezioso è possibile pensare che il Maestro non abbia ritenuto
necessariamente dire che l’uomo fortunato che lo aveva trovato si fosse rivolto
a un mercato per vendere ciò che aveva e per procurarsi ciò che gli occorreva
per comprare il terreno in qui aveva rinvenuto il tesoro. Nel caso del mercante
è diverso, perché il protagonista è una
persona che di professione praticava i mercati. E poi dove i due uomini della
parabola avrebbero potuto vendere tutto
ciò che avevano, beni mobili e immobili come si dice giuridicamente, la
casa, il bestiame, il mobilio, gli attrezzi da lavoro, eccetera, se non rivolgendosi
a un mercato dove avrebbero potuto
trovare acquirenti per i diversi tipi di cose offerte in vendita? E dove si
deve pensare che, secondo l’ambientazione del racconto evangelico, il mercante
abbia potuto trovare la perla rara, in mani altrui evidentemente
altrimenti non avrebbe avuto necessità di comprarla, se non sul banco o in un
negozio di un mercato? Ci si potrebbe
scrivere un libro sopra, se si fosse passata la vita per procurarsi la sapienza
necessaria a ragionarci sopra con competenza. Ma pensate che non sia accaduto?
Io sarei pronto a scommettere di sì. Quando si accostano le Scritture bisogna
sempre tener conto delle moltitudini che le hanno amate nei secoli passati e vi
hanno la speso la vita sopra, dialogando e anche scontrandosi con grande
sapienza: dunque conviene praticare l’umiltà e lasciare ogni questione aperta,
soprattutto se, come me, si è, pur da anziani, ancora alle prime armi. Di tutto
ciò che so in questo campo sono debitore alla predicazione di tanti maestri che
in religione ho avuto, in particolare nella mia Chiesa. Questo tutti loro mi
hanno spinto a diventare: un discepolo.
Dicevo che nei Vangeli non si legge, mi pare di aver capito, una condanna del mercato in sé, quanto del praticarlo in tempi e luoghi sconvenienti dal punto
di vista spirituale, ma anche in modo da profittare della debolezza altrui, per
procurarsi profitti ingiusti. Mi
sovviene l’episodio evangelico riguardante l’incontro del Maestro con Zaccheo
narrato nel Vangelo secondo Luca, al capitolo 19, 1-10. Eccone la versione
della TILC:
«(1) Gesù entrò nella
città di Gèrico e la stava attraversando. (2) Qui viveva un certo Zaccheo. Era un capo degli agenti delle
tasse ed era molto ricco. (3) Desiderava però vedere chi fosse Gesù, ma non ci riusciva: c’era
molta gente attorno a Gesù e lui era troppo piccolo. (4) Allora
corse un po’ avanti e si arrampicò sopra un albero in un punto dove Gesù doveva
passare: sperava così di poterlo vedere. (5) Quando arrivò in quel punto, Gesù guardò in alto e gli disse:
«Zaccheo, scendi in fretta, perché oggi devo fermarmi a casa tua!». (6) Zaccheo
scese subito dall’albero e con grande gioia accolse Gesù in casa sua. (7) I
presenti vedendo queste cose si misero a mormorare contro Gesù. Dicevano: «È
andato ad alloggiare da uno strozzino».
(8) Zaccheo invece, stando davanti al
Signore, gli disse: — Signore, do ai poveri la metà dei miei beni e se ho
rubato a qualcuno gli restituisco quattro volte tanto.»
Dove TILC traduce con ho rubato, la versione CEI 2008 rendeva
con se ho frodato
qualcuno, richiamando un ingiusto profitto traendo in inganno
in una contrattazione come quelle del mercato. Il testo greco ha καὶ εἴ τινός
τι ἐσυκοφάντησα [che si legge cai
èi tinòs ti esukofàntesa] in cui il
termine esukofàntesa e una forma passata del verbo συκοφαντέω [si legge sucofantèo],
per il quale i dizionari riportano i significati di calunnio, denunzio, defraudo,
estorco. Il Maestro non si esprimeva in greco, ma in aramaico, l’antica
lingua semitica parlata correntemente nella parte del Vicino Oriente in cui
egli viveva. Ma quella parola greca esukofàntesa è ciò che abbiamo di più vicino alle sue
parole. Essa, nel contesto del brano evangelico in cui venne usata, richiama
l’idea di frode, estorsione, quindi di sopraffazione in una qualche transazione in
cui la volontà di chi cede è ingiustamente piegata, profittando di una
situazione di superiorità di chi riceve. Il semplice rubare può farsi anche in un
contesto in cui si sottrae la cosa altrui senza che i proprietario se ne
avveda. esukofàntesa.
Ma che cosa
caratterizza il mercato, per cui esso, a parte l’utilità pratica negli scambi, viene ad avere un’importanza addirittura
spirituale?
Il
mercato è un’istituzione molto antica, ma anche molto evoluta quanto a civiltà.
Nella
legge di natura il più forte mangia il più debole o lo rapina. Nella
spartizione delle risorse conquistata con un’azione sociale, come accade
appunti nei viventi che si organizzano in quel modo, ha la meglio usando la
violenza. E’ stato osservato, ad esempio, che nei gruppi di grandi felini
sociali come i leoni (i nostri gatti domestici non lo sono) il maschio mangia
per primo della preda catturata e ucciso. Tra i lupi e i primati non umani, che
formano gruppi con più maschi, è il maschio dominante a mangiare per primo.
Nelle società umane accade ancora più o meno così: chi comanda ha la parte
migliore e più cospicua delle risorse prodotte collettivamente. Sotto questo
profilo l’etica evangelica ci appare del tutto opposta. Ma confrontiamo quella spietata legge di
natura con quella che regola il mercato. Anch’essa è un’etica, ma non di spoliazione altruistica
come quella evangelica. Il mercato può esistere solo quando una collettività
sociale riesce a bandire la violenza e la frode dalle contrattazioni per
realizzare scambi di beni, in modo che chi ne produce un sovrappiù rispetto
alle sue esigenze possa cederli acquistandone altri che gli necessitano e che
sono in mani altrui. Questo scambio è regolato dal mercato, sulla base di
consensi liberi che determinano un’equivalenza nel valore dei beni. In questo
gli operatori del mercato sono sul piano di pari dignità, altrimenti non vi
sarebbe libertà, e godono di una garanzia di sicurezza dalla violenza altrui,
altrimenti al posto del mercato ci sarebbe una guerra di rapina.
Il
mercante pratica i mercati solo se vi può portare in sicurezza ciò che
commercia, gli acquirenti li praticano solo se pensano di non esservi derubati
o frodati.
Spesso
si ha una imprecisa idea del mercato
come di una giungla in cui prevale il più forte, ma questa è invece una sua
degenerazione, contro la quale le istituzioni che reggono i mercati da millenni
apprestano misure di prevenzione.
Nei
mercati globali di oggi, complesse istituzioni sono state costituite per
impedire che un operatore, fattosi molto grosso, possa abusare di posizioni
dominanti e il diritto commerciale e la relativa giurisdizione sono preposti a
rendere giustizia a chi lamenti di essere rimasto vittima, nelle transazioni
commerciali di mercato dell’abuso, della frode
o dell’estorsione altrui.
Storicamente l’idea di democrazia come oggi lo intendiamo, vale a dire di un governo
largamente partecipato su basi di pari dignità delle persone, si sviluppò
nell’antica Grecia anche a partire dalle esperienze di mercato. Le antiche
civiltà mediterranee erano animate dai mercanti e dai mercati. Per il controllo
dei mercati si facevano guerre. Ma nei mercati erano ammessi ad operare anche
gli stranieri, altrimenti merci prodotte molto lontano non sarebbero potute
giungere dove le si desiderava. Da qui poi lo sviluppo di una concezione di una
comune umanità, derivata da tutto quel frequentarsi in condizioni di sicurezza
e pari dignità.
L’attuale
problema del mercato, che poi è stato un problema di sempre, è quello di chi è
escluso o sfavorito, per non avere beni da scambiare o per averne di quelli ai
quali è attribuito poco valore, come oggi accade, ad esempio, al lavoro. Qui la
logica dell’etica evangelica colpisce duro, perché esige di trattare gli altri,
in particolare in quelle condizioni, come fratelli e, quindi, in certe
condizioni di sospendere l’etica del mercato. Da qui poi la dottrina
sociale raccomanda dei correttivi alle logiche puramente commerciali che è
compito di chi comanda, della politica dunque, istituire. E anche le scienze
economiche li raccomandano, perché in questo modo, si è sperimentato, si garantisce il benessere duraturo della
società, prevenendo le fasi sfavorevoli dei cicli in cui si articolano le
dinamiche di mercato lasciate a se stesse: un’estensione delle concezioni di
dignità e sicurezza che sono implicate originariamente nell’idea di mercato.
Qualcosa di simile è narrato nell’episodio biblico di Giuseppe e del Faraone
che leggiamo nel capitolo 41 del Libro della Genesi, in cui troviamo esposte
dinamiche di mercato e si racconta di un
re che cerca di dominarle con provvedimenti adeguati, anche mediante prelievi
tributari e l’istituzione di un’apposita burocrazia statale.
Eccolo nella versione TILC:
«(1) Passarono due lunghi
anni e anche il faraone ebbe un sogno: (2) si
trovava sulla riva del Nilo e vide uscire dal fiume sette vacche belle, molto
grasse, che mangiavano l’erba della riva. (3) Improvvisamente dietro di loro uscirono dal fiume altre sette
vacche, brutte e terribilmente magre, che si fermarono accanto alle prime sulla
riva del Nilo. (4) Le vacche magre divorarono le grasse. A questo punto il faraone
si svegliò. (5) Poi si riaddormentò e sognò di nuovo: Sette spighe belle, gonfie
di grano, crescevano su un unico stelo. (6) Dopo di loro spuntarono altre sette spighe, striminzite e
rinsecchite a causa del vento del deserto. (7) Le spighe esili ingoiarono le sette spighe grosse e gonfie. A
questo punto il faraone si svegliò e si rese conto che era stato un sogno. (8) Appena fu
giorno il faraone, profondamente turbato, fece chiamare tutti gli indovini e i
sapienti dell’Egitto e gli raccontò quello che aveva sognato. Ma nessuno fu in
grado di dargliene una spiegazione. (9) Allora intervenne il capo dei coppieri, responsabile della
cantina del re. Disse: «Oggi devo per forza ricordare i miei errori. (10) Un giorno
Vostra Maestà era andato in collera contro i suoi servitori e mi aveva fatto
rinchiudere nella casa del comandante delle guardie insieme al capo dei
panettieri. (11) In una stessa notte abbiamo fatto tutti e due un sogno con un
significato particolare. (12) In prigione con noi c’era un giovane schiavo ebreo, un servitore
del capo delle guardie. Noi gli abbiamo raccontato i nostri sogni e lui ce li
ha spiegati dando a ciascuno la giusta interpretazione. (13) Infatti è
accaduto esattamente quel che egli aveva previsto: io sono stato ristabilito
nel mio incarico e l’altro è stato impiccato». (14) Allora il faraone fece chiamare Giuseppe che fu immediatamente
scarcerato. Si tagliò la barba, si cambiò i vestiti e si presentò al faraone (15) che gli
disse: — Ho fatto un sogno, ma nessuno sa darmene la spiegazione. Ho sentito
dire che tu sei capace di interpretare i sogni non appena te li raccontano. (16) Giuseppe
rispose: — Non io, ma Dio stesso darà a Vostra Maestà una spiegazione
favorevole. (17) Il faraone disse a Giuseppe: «Nel mio sogno stavo sulla riva del
Nilo. (18) Vidi uscire dal fiume sette vacche belle, molto grasse, che
mangiavano l’erba della riva. (19) Improvvisamente dal fiume salirono dietro di loro altre sette
vacche, ma così magre e brutte che in Egitto non ne ho mai visto di uguali. (20) Queste
ultime divorarono le prime sette, quelle belle e grasse. (21) Ma
sebbene le avessero ingoiate non si vedeva affatto: il loro aspetto era brutto
come prima. A questo punto mi sono svegliato. (22) «Poi sognai di nuovo: Vidi sette spighe belle, gonfie di grano,
che crescevano su di un unico stelo. (23) Ma dietro di loro spuntarono altre sette spighe esili e
striminzite, rinsecchite a causa del vento del deserto. (24) Queste
ultime inghiottirono le sette spighe belle. Ho già raccontato tutti questi
sogni agli indovini, ma nessuno è stato capace di spiegarmeli». (25) Giuseppe
disse: «I due sogni hanno lo stesso significato. Con essi il Signore vi fa
sapere quello che sta per fare. (26) Le sette vacche belle e le sette spighe belle rappresentano
sette anni. Si tratta quindi di un unico sogno. (27) Le sette vacche brutte e malconce e le sette spighe esili e
riarse dal vento del deserto rappresentano anch’esse sette anni: sette anni di
carestia. (28) Proprio come ho detto prima, il Signore vi fa sapere quel che
sta per fare.(29) Nei prossimi sette anni vi sarà grande abbondanza in tutto
l’Egitto. (30) Poi seguiranno sette anni di carestia che cancelleranno in
Egitto ogni ricordo dell’abbondanza precedente. La fame consumerà il paese (31) e sarà
così grande che non si saprà più che cos’è l’abbondanza.(32) Il fatto
che Vostra Maestà ha avuto un solo sogno ripetutosi in due modi diversi,
significa che Dio ha preso una decisione irrevocabile e che egli sta per
realizzarla. (33) Perciò Vostra Maestà cerchi ora un uomo intelligente e saggio e
gli conferisca autorità su tutto l’Egitto. (34) Stabilisca inoltre funzionari incaricati di prelevare un quinto
dei raccolti della terra durante i sette anni di abbondanza. (35) I
funzionari dovranno accumulare molti viveri durante le prossime annate buone.
Mettano e conservino il grano nei magazzini del re per l’approvvigionamento
futuro delle città. (36) Così l’Egitto avrà provviste nei successivi sette anni di
carestia e il paese non sarà distrutto dalla fame». (37) Il
faraone e i suoi ministri apprezzarono il discorso di Giuseppe (38) e il
faraone disse loro: «Quest’uomo ha in sé lo spirito di Dio. Potremmo forse
trovare qualcuno migliore di lui?». (39) Allora si rivolse a Giuseppe: «Siccome Dio ti ha fatto conoscere
tutte queste cose, nessuno può essere intelligente e saggio come te. (40) Perciò tu
stesso sarai l’amministratore del mio regno, e tutto il mio popolo ubbidirà ai
tuoi ordini. Soltanto io, dato che sono il re, avrò un potere superiore al
tuo». (41) E aggiunse: «Ti conferisco autorità su tutto l’Egitto». (42) Poi il
faraone si tolse l’anello dal dito e lo mise a quello di Giuseppe, lo fece
vestire di abiti di lino finissimo e gli pose attorno al collo la collana
d’oro. (43) Lo fece salire sul suo secondo carro. Davanti a lui si gridava:
«Largo! Largo!». Fu così che il faraone mise Giuseppe a capo di tutto l’Egitto. (44) Disse
ancora a Giuseppe: «Io sono il faraone. Nessuno oserà muovere anche solo il
dito mignolo senza il tuo permesso». (45) Il faraone diede a Giuseppe il nome egiziano di Safnat-Panèach e
gli fece sposare Asenat, figlia di Potifera, sacerdote di Eliòpoli. Poi
Giuseppe cominciò a fare giri di ispezione nei territori dell’Egitto (46) Aveva
trent’anni quando fu condotto alla presenza del faraone, re d’Egitto. Giuseppe
lasciò il faraone e si mise a viaggiare per tutta la regione. (47) Durante
le sette annate di abbondanza la terra produsse ottimi raccolti, (48) e in quel
periodo Giuseppe ammassò nel paese d’Egitto grandi riserve di viveri. In ogni
città faceva conservare i raccolti della campagna circostante. (49) Accumulò
tanto grano che smise di tenerne il conto perché era incalcolabile come la
sabbia del mare. (50) Prima dell’inizio della carestia Asenat, moglie di Giuseppe,
figlia di Potifera, sacerdote di Eliòpoli, ebbe due figli. (51) Al
maggiore Giuseppe diede il nome di Manasse: «Perché — disse — Dio mi ha
ricompensato di tutte le mie sofferenze e dell’allontanamento dalla casa di mio
padre». (52) Il secondo lo chiamò Èfraim: «Perché — disse — Dio mi ha dato
figli in questo paese nel quale sono stato infelice». (53) Terminati
in Egitto i sette anni di abbondanza (54) cominciarono i sette anni di carestia. Come Giuseppe aveva previsto
vi fu fame dappertutto, ma il pane non mancava nel territorio egiziano. (55) Poi anche
in tutto l’Egitto si fece sentire la mancanza di viveri. Il popolo reclamò cibo
dal faraone, che disse agli Egiziani: «Andate da Giuseppe e fate tutto quel che
vi comanderà». (56) Quando la
fame si estese ovunque, Giuseppe fece aprire i depositi e fece vendere
grano agli Egiziani mentre la fame continuava ad aggravarsi in Egitto. (57) Da tutti
i paesi la gente andava in Egitto per comprare grano perché la carestia
era grande.»
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli