KÜNG Hans, “Religioni universali –
pace mondiale – etica mondiale” - Sintesi della conferenza tenuta nell'Aula
Magna dell'Università degli Studi di Genova il 28 Novembre 2001 e organizzata
dal Dipartimento
di Filosofia in collaborazione con l'Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici e il Consolato Svizzero. Il testo integrale della
conferenza, a cura del Prof. Giovanni Moretto, è statp pubblicato all'interno
della Serie di Testi e Studi "Ethos e Poiesis" presso l'editore
"Il melangolo". La presente stintesi è curata da Alberto Pirni
1. L’anno
internazionale del Dialogo tra le civiltà
Tra le realizzazioni più notevoli di questo
secolo vanno annoverati l’ammissione della necessità e dell’importanza del
dialogo e il rifiuto della forza, la promozione della comprensione in campo
culturale, economico e politico, e il consolidamento delle fondamenta della
libertà, della giustizia e dei diritti umani. L’instaurazione e il
miglioramento della civiltà, sia a livello nazionale che a livello internazionale,
dipendono dal dialogo tra società e civiltà rappresentanti vedute, inclinazioni
e approcci diversi.
Gli orribili avvenimenti dell’11 settembre
2001 hanno manifestato in un modo crudele che il pensiero e l’azione politica
oggi devono prendere in seria considerazione certi aspetti politici, economici,
culturali e religiosi. I terroristi non hanno attaccato luoghi simbolici della
cristianità o di un’altra religione, bensì edifici che sono simbolo del potere
economico e militare degli Stati Uniti. Per combattere il terrorismo non basta
bombardare un paese povero come l’Afghanistan. Si dovrebbe riflettere di più
sulle radici del terrorismo: – sulla lunga storia del colonialismo e
dell’imperialismo occidentali; – sul problema della Palestina e – sulla presenza
delle truppe americane sui luoghi santi dell’Arabia. Ma non abbiamo a questo
proposito a che fare con un conflitto di civiltà?
2. Guerra di
civiltà?
Samuel P. Huntington, Direttore
dell’Institute of Strategic Studies della Harvard University, ha ragione quando
nel suo importante saggio del 1993 "The
Clash of Civilizations?" afferma che delle contese territoriali, degli
interessi politici e della concorrenza economica le rivalità etnico-religiose
costituiscono le strutture sotterranee, continuamente presenti, da cui i
conflitti politico-economico-militari possono sempre venire giustificati,
ispirati e inaspriti. Concordo nel ritenere che esse costituiscono la dimensione
culturale profonda, continuamente presente in tutti gli antagonismi e
conflitti dei popoli e perciò non devono in nessun caso venire trascurate.
In breve, Huntington ha
ragione su due punti decisivi: a) alle religioni va attribuito un ruolo
fondamentale; b) le religioni non tendono verso un’unica religione, ma
piuttosto a mantenere il loro potenziale conflittuale.
Ma, una volta
riconosciuti i meriti di Huntington, devo ora formulare il mio dissenso di
fondo che si articola fondamentalmente in tre punti:
i) la "clash
theory" è troppo semplicistica: tematizza solo i conflitti fra civiltà
e non tiene conto dei conflitti interni alle singole civiltà;
ii) la "clash
theory" favorisce un pensiero in blocchi: delimita le
"civiltà" come se fossero dei monoliti e non ci fossero in molte
situazioni delle sovrapposizioni, degli intermezzi e persino delle fusioni tra
le diverse culture;
iii) la "clash
theory", infine, non prende in considerazione gli elementi
comuni: ovunque egli sottolinea gli antagonismi tra le culture senza
riflettere sugli elementi comuni, come ad esempio gli elementi comuni esistenti
nella cristianità, nell’ebraismo e nell’Islam.
3. L’alternativa:
dialogo e pace tra le religioni
Se tali conflitti tra civiltà e religioni
fossero realmente inevitabili, l’avvenire dell’umanità non potrebbe che
presentarsi estremamente fosco: se in futuro i conflitti dovranno essere
primariamente conflitti tra civiltà, allora essi si presenteranno come dati
naturali, e perciò anche inevitabili: in questo caso l’avvenire
dell’umanità dovrebbe essere costantemente e senza fine la guerra.
È necessario pensare un’alternativa. I
conflitti di civiltà possono e devono essere evitati. È da questo
punto di vista necessario sviluppare una più profonda comprensione dei presupposti
religiosi e filosofici che stanno alla base delle altre civiltà e delle vie per
cui un popolo individua il proprio interesse in tali civiltà. Ho posto le
fondamenta teoriche di questa alternativa già nel mio libro del 1984
"Cristianesimo e religioni universali" (trad. it. di G. Moretto,
Milano, 1984) con lo slogan "No world peace without religious peace".
Per oltre un decennio il mio punto di partenza è stato: "Non c’è pace
tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza
dialogo tra le religioni". Proprio tre religioni come l’ebraismo, il
cristianesimo e l’Islam, che storicamente si sono di continuo confrontate tra
loro, hanno nondimeno in comune numerosi aspetti di fede e ancor più di etica.
4. Mancanza di
orientamento – un problema mondiale
In senso generale si lamenta spesso un vuoto
di orientamento: nonostante, e in parte anche a causa della
globalizzazione, viviamo in un tempo lacerato dal punto di vista
politico-religioso, pieno di guerre e conflitti e insieme povero di
orientamento; in un tempo in cui molte autorità morali hanno perduto
credibilità; in un tempo in cui molte istituzioni sono cadute nel vortice di
una profonda crisi di identità; in un tempo in cui molti criteri e norme hanno
incominciato a vacillare, così che molti, anche giovani, non sanno più che cosa
sia bene e male nei diversi campi della vita.
Questa è la nostra fondamentale indicazione
per questo passaggio epocale: c’è bisogno di un’etica elementare, comune a
tutti gli uomini, un’etica dell’umanità che pervada la cultura, un’etica
mondiale (Weltethos). Ciò vale sia nel piccolo che nel
grande: se vogliamo che abbia successo la convivenza delle nazioni, abbiamo
bisogno di una nuova politica della responsabilità: al di là sia
dell’immorale Realpolitik che della moraleggiante Idealpolitik.
Una politica della responsabilità presuppone una disposizione etica, ma
s’interroga sulle possibilità e sulle conseguenze dell’agire politico.
Ma con questo è anche
già manifesto che l’espressione "etica mondiale" non denota,
in realtà, una nuova ideologia mondiale, una nuova cultura
dell’unità mondiale, tanto meno il tentativo di una uniforme religione
dell’umanità.
L’etica mondiale è piuttosto un elementare
consenso di fondo su alcuni valori vincolanti, criteri irrevocabili e
atteggiamenti di fondo personali, che vengono affermati da tutte le tradizioni
religiose ed etiche dell’umanità e devono essere condivisi di comune accordo da
credenti e non-credenti, da persone religiose e non-religiose.
E nessuno può oggi dubitare che proprio nell’epoca
della globalizzazione sia assolutamente necessaria un’etica globale.
Infatti una globalizzazione dell’economia, della tecnologia e della
comunicazione comporta anche una globalizzazione dei problemi che, a livello
mondiale, minacciano di travolgerci. Ciò non vale soltanto per i problemi
globalizzati dell’ecologia, ma anche per quelli del crimine globalizzato, del
commercio globalizzato della droga – per non parlare qui di complessi ambiti
problematici come la tecnologia genetica o la tecnologia atomica. In una simile
epoca è urgentemente necessario che la globalizzazione di economia, tecnologia
e comunicazione venga sostenuta da una globalizzazione dell’etica.
5. Verso un’etica
mondiale vincolante
Ma, in fondo, è possibile elaborare e
formulare un’etica globale? Le norme etiche delle diverse nazioni,
culture e religioni non sono tra loro incompatibili? Naturalmente esse
differiscono tra loro su molti punti concreti. D’altra parte ho scoperto che
alla base di tutte le grandi tradizioni etiche e religiose dell’umanità si
possono trovare molti elementi comuni.
Esistono tre documenti molto importanti, che
testimoniano una sensibilità e una convergenza internazionali su questo punto:
la "Dichiarazione per un’etica mondiale" (Chicago, 1993); la
"Dichiarazione universale delle responsabilità umane" (1997);
"Appello alle nostre istituzioni direttrici" (Città del Capo, 1999).
6. Un nuovo
paradigma di relazioni internazionali
Ad onta di tutte le difficoltà e guerre che
hanno caratterizzato l’ultimo secolo, non possiamo trascurare il lato positivo
del XX secolo: non soltanto nell’Unione Europea, ma nell’intera OECD (Organization
of Economic Cooperation and Development) non c’è stata per mezzo secolo una
sola guerra nella vasta area che va da Berlino e Londra a Tokyo e Sydney. Qui è
già visibile quello che chiamiamo un nuovo paradigma di relazioni
internazionali.
Questa nuova globale costellazione politica
richiede un cambiamento di mentalità, che ovviamente raggiunge livelli
più profondi di quelli della politica del giorno-per-giorno. Non si devono
continuare a vedere le differenze nazionali, etniche e religiose come
una minaccia, vanno viste piuttosto come possibilità di arricchimento.
Mentre il vecchio paradigma pensa in termini di avversari, il nuovo paradigma
non ha più bisogno del nemico: esso vede invece nell’altro un partner,
un competitore, o nel peggiore dei casi, un oppositore in una comune situazione
di gioco, inteso come una pluralità di somme, nel quale tutti sono
vincitori.
Naturalmente tale nuovo paradigma richiede un
consenso sociale su valori, diritti e doveri fondamentali. Questo
consenso fondamentale deve essere ripartito tra tutti gli elementi della
società, tra credenti e non credenti, tra gli aderenti di tutte le religioni,
filosofie e ideologie che si trovano nella società. L’etica globale non è però
orientata verso una responsabilità collettiva che diminuisca la responsabilità
individuale. L’etica globale rivolge la responsabilità individuale di ogni
membro della società verso il suo posto concreto in quella società; in
particolare, naturalmente, essa dirige la responsabilità personale dei leaders
politici.
Ma non si deve parlare soltanto dei nostri
leaders politici; questa è facilmente una scusa per evitare la responsabilità
individuale di ciascuno. Ovviamente, il libero riconoscimento personale di una
tale etica comune non esclude, bensì include la possibilità di un supporto
giuridico nelle applicazioni particolari – di qui la creazione di diritti
rivendicabili giuridicamente. L’attuazione dell’etica globale non dipende dalle
organizzazioni o dai leaders, dipende invece da ciascuno. Ciascuno può cercare
di realizzare la Regola Aurea in famiglia, in una comunità, in un istituto, in
un posto di lavoro, in una nazione, tra gruppi etnici.
7. L’etica mondiale
all’ONU
Ciò che conclusivamente mi preme sottolineare
è che, ai nostri giorni, le religioni tornano a presentarsi come attori nella
politica mondiale. È vero, nel corso della storia le religioni hanno spesso
mostrato il loro volto distruttivo. Esse hanno provocato e legittimato l’odio,
l’ostilità, la violenza, anzi, le guerre. Ma in molti casi hanno provocato e
legittimato l’intesa, la riconciliazione, la collaborazione e la pace. Negli
ultimi decenni sono nate di continuo e si sono consolidate nel mondo iniziative
di dialogo interreligioso e di collaborazione tra le religioni. In questo
dialogo le religioni del mondo hanno riscoperto le loro proprie asserzioni
etiche fondamentali: hanno sostenuto e approfondito quei valori etici secolari
che sono contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti umani.
Nel Parlamento delle religioni universali di
Chicago del 1993 oltre duecento rappresentanti di tutte le religioni del mondo
hanno dichiarato per la prima volta nella storia il loro consenso su alcuni
valori, modelli e comportamenti comuni come base di un’etica mondiale, che poi
vennero raccolti nel rapporto stilato dal gruppo di cui anch’io faccio parte –
insieme, fra gli altri, a Richard von Weizsäcker, Jacques Delors, Hanan
Ashrawi, Nadine Gordimer, Javad Zarif, Amartya Sen – per il Segretario
Generale e per l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Quale allora la base per un’etica mondiale,
che gli uomini possono condividere alla luce di tutte le grandi religioni e
tradizioni etiche? Anzitutto e fondamentalmente il principio dell’umanità:
"Ogni uomo – maschio o femmina, bianco o di colore, ricco o povero,
giovane o vecchio – deve venire trattato umanamente". Ciò è espresso più
chiaramente nella "Regola Aurea" della reciprocità: "Quello che
non vuoi che sia fatto a te, non farlo ad altri".
Questi principi vengono
sviluppati in quattro ambiti centrali della vita e invitano ogni uomo, ogni
istituzione, ogni nazione ad assumere la propria responsabilità,
– per una cultura della
non violenza e del rispetto di ogni vita;
– per una cultura della
solidarietà e di un giusto ordine economico;
– per una cultura della
tolleranza e di una vita nella veracità;
– per una cultura della
parità dei diritti e della solidarietà tra uomo e donna.
Proprio nell’epoca della globalizzazione è
assolutamente necessario un tale ethos globale. Infatti la
globalizzazione dell’economia, della tecnologia e della comunicazione implica
anche una globalizzazione dei problemi del mondo intero, problemi che
minacciano di sopraffarci. La globalizzazione ha dunque bisogno di un ethos
globale, non come peso supplementare, bensì come fondamento e aiuto per gli
uomini e per l’intera società civile.
Genova, 28
novembre 2001
Per un
approfondimento delle tematiche qui presentate e per un’informazione completa
circa le attività del Centro di Ricerca diretto e coordinato dal Prof. Dr. Hans
Küng si veda il sito: http://www.weltethos.org.