Tempo, riti, relazioni
1. Una vita di fede sinodale realizza un profondo cambiamento nelle prassi consuete. Non ve ne è una dettagliata descrizione: chi l’ha posta come obiettivo di un processo l’ha pensata emotivamente, più che altro in contrapposizione a come si fa ora, a ciò che non funziona più.
Parlarne come di una riforma significa rimanere attaccati al passato.
Una riforma infatti riguarda principalmente le strutture organizzative e qui, invece, si tratta di qualcosa di diverso. Per di più, storicamente, le riforme sono state decise da piccoli gruppi che erano riusciti a ottenere il potere di imporle: i riformatori. Nelle Chiese cristiane europee essi furono in genere teologi e questo ha creato molti problemi. Innanzi tutto per la teologia, che progressivamente si è data come principale funzione quella di decidere chi comanda, schierandosi sul lato dei riformatori o dei conservatori, divenendo quindi teologia delle loro corti. E poi perché la teologia dal Duecento europeo ha imparato a ragionare come i giuristi, cercando fonti, come se fossero leggi, nella Bibbia e negli scritti di vari autori ai quali si attribuiva particolare affidabilità. Si è posta quindi nella posizione del legislatore o del giudice, quindi ancor più si è legata ai poteri sociali, che sono sempre esercitati da gruppi limitati. Viste da quella prospettiva le popolazioni appaiono materia caotica e complessa, alla quale si vorrebbe dare ordine. Si pensa che sia una situazione che può essere padroneggiata solo da persone sapienti, il che, come dimostra la storia, non si è dimostrato veritiero. Se si pensa che la popolazione resiste al legislatore e che non possa essere convinta perché fatta da persone incolte, allora l’unica soluzione è quella di ricorrere alla violenza, per coartarla. E’ ciò che si è sempre fatto, oggi in forme meno efferate ma comunque dolorose e umilianti. In questo la teologia non ha imparato dal diritto, disciplina che cerca di normare la società trovandone le regole nelle sue consuetudini sociali. Il diritto vive nella società, prima di essere formalizzato dai giuristi, che sono maestri dei legislatori civili, almeno fin dove essi accettano di non essere tiranni. La teologia non è stata una buona maestra dei legislatori ecclesiastici. D’altra parte questi ultimi, in genere, si sono manifestati piuttosto propensi alla tirannia, anche detta autocrazia, che è quando un potere costituito non accetta altra legittimazione che nella propria volontà o in una volontà soprannaturale della quale si proclama interprete esclusivo.
Il problema della riforma delle obsolete strutture organizzative ecclesiali è diverso da quello di realizzare una nuova vita di fede sinodale. L’attuale autocrazia ecclesiastica, espressa da clero e religiosi, non è sinodalizzabile, lo dimostra l’esperienza degli ultimi sessant’anni. Una organizzazione sociale obsoleta finisce sempre per essere abbandonata, e questo accadrà anche per quella ecclesiale. Chi governerà, allora, lo staterello di quartiere vaticano? Chi amministrerà l’imponente patrimonio immobiliare ecclesiastico e quello finanziario, anch’esso imponente, del quale possiamo avere solo un’idea approssimativa? Queste cose non riguardano la vita di fede. Ora, addirittura, le sono di grosso ostacolo. Impegnano tanto tempo di clero e religiosi, quando, in definitiva, si tratta di affari per i quali non sono formati e, per di più, un potente fattore di corruzione personale, una fonte di tentazioni. Le difficoltà che l’apparato ecclesiastico incontra in quel campo sono le stesse che incontrano le altre istituzioni pubbliche. A noi persone laiche, però, questo deve interessare poco o nulla nello sforzo di attuare una vita di fede sinodale.
Questa nuova sinodalità non deve neanche essere confinata nelle mansioni ausiliarie di quelle che il clero pretende di dominare in esclusiva. Questa pretesa addirittura esclude che possano essere sinodalizzabili.
E’ sinodalizzabile solo ciò che possa essere organizzato secondo il principio “Non senza di noi, non solo da noi”.
Nell’ultimo mezzo secolo le funzioni sociali esercitate dal clero italiano di base si sono enormemente immiserite rispetto al passato, anche recente. Gli è vietato, in particolare, partecipare allo sviluppo delle società intorno, cosa che la gerarchia ecclesiastica vuole riservare solo a sé, nelle relazioni con i governanti. Per rendersi conto delle differenze storiche, basti considerare che l’idea di un movimento democratico cristiano vide tra i principali artefici un prete, don Romolo Murri (scomunicato durante la persecuzione anti-modernista) e che il primo partito politico democratico cristiano ebbe come primo segretario politico nazionale un altro prete, don Luigi Sturzo (indotto a trasferirsi in Gran Bretagna per non ostacolare il fascismo mussoliniano). Non stupisce, quindi, la disaffezione che spesso si manifesta nei giovani preti. Ma, anche qui: si tratta di un problema del quale si deve fare carico il clero, chi ha scelto quella forma di ministerialità, assoggettandosi ai relativi condizionamenti. Non è il caso delle persone laiche.
2. Siamo entrati in un mondo nuovo, in cui il principale problema è come creare una forma di convivenza sostenibile in grado di mantenere relazioni pacificate a livello globale, in una umanità di oltre otto miliardi di persone. E’ qualcosa che gerarchia ecclesiastica e teologi non si sono mai trovati a dover affrontare e di fronte alla quale la loro cultura si rivela manifestamente insufficiente. La cosiddetta tradizione serve a poco, la nostra terribile tradizione. Sono venuti meno i termini di raffronto.
La teologia cattolica corrente, imprigionata dai lacci istituzionali pervicacemente costruiti nel lungo inverno che abbiamo vissuto dagli anni ’80, serve a poco. Fosse libera, forse…
Sta a noi persone laiche, libere da quei lacci, pensare e praticare il nuovo.
Solo nelle realtà di base, quelle meno costrette in strutture formali, si può cominciare a viverlo.
Ma occorre tempo, ciò che ai nostri tempi manca, almeno fino a che, ormai molto anziani, se ne ha ma vengono a mancare le forze e la mente declina per ragioni organiche.
Vivere sinodalmente significa incontrarsi e farlo per un tempo sufficiente e sistematicamente.
Oggi quasi tutto il tempo che passiamo in chiesa è ingombrato da ruoli che ricopriamo come comparse liturgiche, vale a dire dai riti. Lì ascoltiamo, quando la mente non divaga, e recitiamo leggendo il foglietto.
Così è stata in genere condotta anche la fase di ascolto nei processi sinodali iniziati un anno fa. La gerarchia ha raccomandato che non si dialogasse, e in genere, per ciò che ho vissuto e ho saputo, non lo si è fatto. La fase di ascolto quindi, così ritualizzata, non c’è realmente stata. Si è cominciato male. Ma, d’altra parte, si trattava di una cosa veramente mai fatta prima e, va aggiunto, contro una tradizione di assolutismo efferato che risale ad oltre un secolo fa. Le cose la prossima volta miglioreranno, se noi persone laiche sapremo crescere sinodalmente. Ci sarà, dunque, una prossima volta? Certo, ci sarà. Perché, come hanno osservato i commentatori della cosa, la sinodalità, almeno nella concezione di papa Francesco, è considerata un processo non solo un evento.
Per fare in modo che quel processo non riguardi solo clero e religiosi, ma anche noi, che nella Chiesa svolgiamo altre attività molto importanti, dovremmo in primo luogo crescere nella comprensione del nostro tempo, e farlo dialogando insieme, quindi in modo sinodale. Ne sappiamo troppo poco. E poi dovremmo tentare di sinodalizzare qualche ulteriore attività che abbia a che fare con la costruzione sociale e farlo con continuità e assiduità, decidendo metodi e obiettivi.
Abbiamo di solito lo svantaggio di non maneggiare con sicurezza la teologia, che quindi è un linguaggio che dobbiamo abbandonare, almeno per ora, perché ci rende inferiori. Nella misura in cui è fondata su miti, in genere, storicamente, accreditati con la violenza politica, quindi con abusi nel governo, è anche controproducente.
L’autoformazione caratterizza l’Azione Cattolica. L’associazione produce cultura, intesa in senso antropologico come modi sociali di vivere e di relazionarsi. Una convincente sintesi del significato di cultura si trova nella Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo “La gioia e la speranza” deliberata durante il Concilio Vaticano 2º, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965:
Con il termine generico di « cultura » si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l'uomo affina e sviluppa le molteplici capacità della sua anima e del suo corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale, sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l'andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano.
Di conseguenza la cultura presenta necessariamente un aspetto storico e sociale e la voce « cultura » assume spesso un significato sociologico ed etnologico. In questo senso si parla di pluralità delle culture. Infatti dal diverso modo di far uso delle cose, di lavorare, di esprimersi, di praticare la religione e di formare i costumi, di fare le leggi e creare gli istituti giuridici, di sviluppare le scienze e le arti e di coltivare il bello, hanno origine i diversi stili di vita e le diverse scale di valori. Cosi dalle usanze tradizionali si forma il patrimonio proprio di ciascun gruppo umano. Così pure si costituisce l'ambiente storicamente definito in cui ogni uomo, di qualsiasi stirpe ed epoca, si inserisce, e da cui attinge i beni che gli consentono di promuovere la civiltà.
Anche il mangiare, il vestire, gli svaghi come il lavoro, l’intensità della violenza sociale, la tolleranza verso coloro che sotto qualche aspetto sono diversi, rientrano nella cultura. Ne fa parte quindi anche la cultura della sinodalità, che oggi in Italia, ma penso anche altrove, è poco diffusa.
Creare una cultura della sinodalità richiede di condividere il tempo in modo attivo, non semplicemente come comparse liturgiche, chiamate a recitare testi scritti da altri.
Preti e religiosi in genere mi sembrano pensare che noi sprechiamo il nostro tempo. A volte è vero. Ma per i più non è così. E da persone laiche possiamo vivere l’unica esperienza sacramentale che non è stata ancora esclusivamente ritualizzata in un certo atto: il matrimonio. Il matrimonio cristiano è vita sinodale vissuta, pur tra tutti i suoi alti e bassi, e anche in mezzo ai suoi fallimenti. Così è per la generazione e l’accudimento dei figli ai quali non si è mai nemmeno pensato di attribuire uno statuto sacramentale. Di sinodalità noi persone laiche abbiamo di solito un’esperienza ben maggiore e lunga di coloro che pretendono con supponenza teologica di insegnarcela.
Purtroppo come costruire il mondo nuovo non è scritto nella Bibbia e la tradizione, per quel che di buono se ne può ancora ricavare, in mezzo a tanti orrori, non ci aiuta, perché tempi come quelli che stiamo vivendo non ci sono mai stati.
Se però noi persone laiche siamo le sole a poter fare progredire la sinodalità, mentre gerarchi ecclesiastici, preti, religiosi e teologi si accapigliano per questioni di potere e non ne riescono a ricavare nulla, anzi più spesso sembrano arretrare, come accaduto in Italia dagli scorsi anni Ottanta, significa anche che sviluppare la nuova sinodalità che si sogna richiederà tempi lunghissimi, e tanta pazienza, tanta costanza, perché il tempo che possiamo dedicare a questo lavoro è poco. Ma è un tempo che dobbiamo sforzarci di vivere insieme, in relazione, senza scoraggiarci, cercando di non ricadere nella condizione di gregge in cui l’abbrivio del passato vorrebbe umiliarci, ma di riconquistare un volto umano.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli