Perché “no” la teologia?
Nell’organizzare il ciclo di incontri sulla
sperimentazione della sinodalità ecclesiale nelle realtà di base, ho proposto di
porre questi limiti: non trattare questioni teologiche, né usare il gergo
teologico.
Perché?
La Commissione teologica internazionale,
organo consultivo del Dicastero per la dottrina della fede, organismo che
svolge funzioni di polizia teologica e politica nei poteri ecclesiastici
centrali, ha dato il nulla osta allo sviluppo di una sinodalità con il documento
“La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa”, pubblicato il
2 marzo 2018, spiegandone le ragioni teologiche.
Tanto
ci basta per ciò che dobbiamo fare in una realtà di base come la nostra
parrocchia.
In
quell’ambito non dobbiamo riformare nessuna struttura ecclesiale
costituita, in particolare quelle che esercitano poteri ecclesiastici di qualsiasi
tipo e amministrano i beni ecclesiastici, compreso l’ufficio del parroco. Che
continuino a farlo, finché ne avranno forza e voglia.
Dobbiamo invece provare a vivere sinodalmente la nostra fede. Per questo
obiettivo la teologia che c’è basta e avanza. Il di più ci ostacolerebbe.
Il principale problema della teologia è divenuto,
nel corso di un processo che va avanti del Cinquecento, quello di giustificare,
legittimandolo dal suo punto di vista, quindi sacralizzandolo, un
ordinamento ecclesiastico autocratico. Quest’ultimo da metà Ottocento è
divenuto fortemente assolutistico nella contrapposizione politica frontale con
i processi democratici sorretti dal liberalismo e dai socialismi europei. Esso, così com’è ora, è sicuramente
incompatibile con la sinodalità come la si vuole sviluppare di questi tempi, in
modi che non sono mai stati vissuti prima. Per questo se ne è avviata la
riforma, cercando anche di trovarne precedenti nella storia delle nostre
Chiese. Ma questo tema non ci riguarda se vogliamo proporci di creare in una realtà di base modi sinodali di vivere
insieme la fede. Se ne occuperanno la gerarchia e i suoi teologi di corte, con procedure
che già si annunciano piuttosto travagliate e controverse, che vedranno
scontrarsi duramente le varie fazioni che si contendono il predominio del
potere, come in genere è sempre accaduto
in queste cose.
La teologia cattolica non ci può più essere
di aiuto in ciò che intendiamo fare, proprio perché si occupa prevalentemente
di sacralizzare poteri ecclesiastici e, in questo lavoro, non è libera, perché
condizionata dalla struttura assolutistica che ancora la gerarchia ecclesiastica
ha e continuerà a lungo ad avere, né ha
come principale riferimento la popolazione di fede. Risponde alla domanda “Chi
comanda?”. I suoi committenti diffidano dell’autonomia di coloro che si
vuole che si mantengano solo assoggettati ai poteri ecclesiastici. Ed è invece
proprio questa autonomia del gregge che è cruciale sviluppare nei processi
sinodali secondo il principio “Non senza di noi, non solo da noi”, che
consente di conciliare autonomia e relazione. Dal punto di vista sociale, la Chiesa
si presenta come una rete di relazioni, una bella tela che richiede abili
tessitori, per mantenerne l’armonia e l’integrità. La violenza la strappa, la
deturpa.
Inoltre
la teologia, quella cattolica ma in genere quella espressa dalla Chiese cristiane,
è diventata una scienza, con il suo metodo e i suoi requisiti. Ogni questione
teologica deve essere sviluppata secondo quei principi o lascia il tempo che
trova. La fede, tuttavia, non coincide con la teologia: può essere comunicata
anche con il linguaggio comune, perché ogni persona vive la fede, anche se non è capace di comunicarla
con il rigore che in teologia si richiede, ed è appunto a questo vivere che dobbiamo riferirci costruendo una sinodalità
di base. La domenica, nella messa, ci fanno recitare il Credo faticosamente costruito nel Quarto secolo: lì
c’è tutta la teologia che ci serve.
Il riunirsi per dialogare su come sperimentare una sinodalità di base è
già un tirocinio di vita sinodale. E’ stato osservato infatti che la
sinodalità si costituisce a diversi livelli facendone tirocinio, provando e
correggendosi sulla base dell’esperienza.
Ad un certo punto anche la teologia, forse, sarà autorizzata ad occuparsene sotto questo aspetto,
ma dopo, la teologia storicamente è venuta sempre dopo, e in
passato, ad essere realisti, ciò che ne è uscito non è stato poi tanto
positivo. Così poi ci si pente e si celebrano liturgie chiedendo il perdono,
dopo tanto sangue versato. E quelle liturgie, tutto sommato, sembrano piuttosto
miserelle a confronto di tutto il male che si è fatto. Questo
perché, almeno fino ad oggi, i poteri pubblici hanno fatto ampio ricorso alla
violenza politica per affermarsi, e le nostre Chiese non hanno fatto certamente
eccezione, anche se oggi le democrazie le hanno private del diritto di vita e
di morte sulla gente e viene più che altro usata la violenza dell’emarginazione, dell’esclusione,
che per i teologi di professione può significare perdere il posto e le altre
fonti di reddito, con il divieto di pubblicare. La teologia in genere è stata
la lingua del potere e, quando non lo è stata, di solito si è cercato di tagliarla.
Nella società europea di oggi, nella cultura comune,
abbiamo tutto ciò che occorre per tessere
pazientemente procedure per vivere insieme la fede in forma più partecipata,
condivisa: è il modo in cui si crea cultura.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli