Comandare da soli
A ciò che sappiamo dalla
paleoantropologia, dall’antropologia e dalla sociologia di tutte le epoche
storiche, dalla storia delle organizzazioni politiche, nessun essere umano, mai,
ha governato da solo.
In effetti ci pensiamo sempre in cerchie di altri individui e questo corrisponde
effettivamente a una realtà naturale, vale a dire da ciò che ci
determina per come siamo fatti, mente e corpo, l’una e l’altro compresi nel
concetto di organismo. In questo non differiamo da ciò che si osserva
negli altri Primati, gli organismi più simili a noi in ogni senso. L’evoluzione
della nostra mente, sia su base organica che su base sociale, ci ha solo resi
capaci di governare collettività
molto più grandi delle cerchie ancestrali. Nel passaggio dalla zoologia
all’antropologia esse vennero delineandosi, così, come società. L’umanità
superò i limiti biologici che la confinava in piccole cerchie, di una trentina
di individui circa, sviluppando quelle relazioni sociali particolari che
comprendiamo nella religione e
nel diritto. Entrambi si fondano su miti, su narrazioni che riguardano
il senso della vita insieme ad
altri individui. Entrambi sono produzioni sociali e guardano alle società di riferimento, mutano con esse. Nelle
cerchie dei Primati osserviamo il predominio di alcuni maschi, basato sulla
violenza fisica. L’antropologia riferisce che questa sembra essere stata la
base antica dello sviluppo del governo sociale: l’espansione delle società
primitive sembra sia avvenuta prevalentemente e ancora avvenga mediante produzioni di miti
coerenti con essa. I miti di governo delle società europee sono stati sviluppati come
culture su quell'impostazione. Le culture del Vicino Oriente, in particolare in quelle
della Palestina del Primo secolo, hanno quella stessa caratteristica. Le
narrazioni bibliche ne sono fortemente improntate. Dall’Ottocento, in Europa, i
miti di governo hanno cominciato a cambiare cercando di integrare le donne e di
liberare le funzioni di comando dalla violenza che storicamente le aveva sempre
sorrette e che continuava a riflettere le loro origini ancestrali. La violenza
delle origini è ancora rimasta nei rapporti tra gli ordinamenti politici che
sono insofferenti di limiti al di sopra di sé, gli stati, le unioni o federazioni
di stati, le organizzazioni considerate criminali secondo ordinamenti giuridici
maggiori. Al vertice di ogni governo non troviamo, però, nessun individuo solo
al comando, anche se nel mito viene presentato come tale.
Quando viene ricordato, in modo molto
affidabile dal punto di vista storico, che la sinodalità, una forma di
governo condivisa, è stata una caratteristica costante delle nostre comunità
ecclesiali fin dalle origini, si conferma appunto che non vi è mai stato
nessun individuo che sia stato da solo al comando. In un lunghissimo processo che va
dall’Undicesimo secolo al Diciannovesimo, nella nostra Chiesa si è però
costruito proprio il mito dell’uomo da solo al comando, e ciò con
particolare forza dalla metà del Diciannovesimo, in esplicita contrapposizione
culturale con la costruzione dei miti democratici dell’uguaglianza e della cittadinanza sviluppati in Europa prima dal liberalismo e poi dal socialismo. Di
fatto, però, l’osservazione del corso della politica ecclesiastica dimostra
chiaramente che nessun uomo è mai stato da solo al comando, solo si sono
ristrette le cerchie di governo attorno a lui. Questo è caratteristico delle autocrazie,
vale a dire delle forme di governo i cui miti fondativi rifiutano di
riconoscere come legittimanti al potere altre cerchie al di fuori della
propria.
Due giorni fa l’arcivescovo Mario Delpini ha
diffuso un bellissimo Discorso alla città, in occasione della festa del santo patrono di
Milano, Ambrogio. L’ho trascritto ieri sul blog acvivearomavalli.blogspot.com.
E’ intitolato “E gli altri?”. Si conclude con questa frase:
Voglio fare l’elogio di voi, uomini delle
istituzioni, onesti, dedicati, responsabili, espressione di una democrazia seria,
faticosa e promettente, decisi a far funzionare il servizio che i cittadini vi
hanno affidato. Voglio fare l’elogio di voi, che sapete che cos’è il bene
comune e lo servite.
Faccio il vostro elogio, perché io vi stimo.
Il suo potere ecclesiastico, visto dal punto
di vista antropologico, sociologico, politico, giuridico, è quello di un autocrate,
costruito secondo il mito dell’uomo solo al comando per diritto
soprannaturale. Quella frase, tuttavia, esprime lo sforzo di evadere dalla piccola
cerchia in cui esso è confinato.
Poco prima ciò era espresso in modo ancora più
evidente:
Voglio fare l’elogio della democrazia
rappresentativa che convoca tutte le componenti della società a costituire un
“noi” radunato da un senso di appartenenza e di legittima pluralità per
praticare il realismo della speranza, per costruire la giustizia e la pace.
Voglio fare l’elogio della partecipazione che
non si accontenta di esprimere il voto per il proprio partito e il proprio
candidato, ma che discute, ascolta, offre le proprie idee, pretende supporto
per le forme di aggregazione e di presenza costruttiva nel sociale per
prendersi cura degli altri, soprattutto di quelli che non contano, non parlano,
non votano.
L’integrazione fra le cerchie del potere sociale
è il compito fondamentale del politico, ancor prima di decidere che fare con
quel potere. E, tuttavia, quando ci
poniamo veramente il problema del che fare ecco che fatalmente ci pensiamo
all’interno della cerchia che, in un certo momento storico, domina sulle altre
in quella materia. E se ne rimaniamo esclusi ci imbronciamo.
Ne accenna Delpini proprio in apertura del Discorso:
Con il passare degli anni trovo sempre più
insopportabile il malumore. Trovo irragionevole il lamento. Trovo irrespirabile
l’aria inquinata di frenesia e di aggressività, di suscettibilità e
risentimento.
E, se
potessi parlargli faccia a faccia, gli direi: “Questo parla di te”.
Le
cronache narrano che, durante una messa nella cattedrale di Como in occasione di una messa in occasione
della festa di sant’Abbondio, patrono della città, avrebbe dichiarato, rivolgendosi
al vescovo locale che presiedeva la celebrazione e riferendosi alla recente
nomina di quest’ultimo a cardinale:
«Ci sono state delle persone un po’ sfacciate
che si sono domandate perché il Papa non abbia scelto il metropolita per fare
il cardinale e abbia scelto invece il vescovo di Como. In questa scelta mi pare
si riveli chiaramente la sapienza del Santo Padre. Perché ha scelto il vescovo
di Como per essere un suo particolare consigliere? Io ho trovato almeno tre
ragioni. La prima è che il Papa deve
aver pensato che l'arcivescovo di Milano ha già tanto da fare, è sovraccarico
di lavoro, e quindi ha detto: “bisogna che lavori un po' anche il vescovo di
Como e quindi ha pensato di dare un po' di lavoro anche a te”. La seconda
ragione è che probabilmente il Papa ha pensato: quei 'bauscia” [bauscìa: parola del dialetto milanese
che significa fanfarone accentratore] di Milano non sanno neanche
dov'è Roma, quindi è meglio che non li coinvolga troppo nel governo della
Chiesa universale. E forse c'è anche un terzo motivo. Se mi ricordo bene, il
papa è tifoso del River [squadra di calcio argentina], che non ha mai
vinto niente, e forse ha pensato che quelli di Como potrebbero essere un po’ in
sintonia perché si sa che lo scudetto è a Milano»
Dopo una lunga evoluzione
storica, il ceto dei cardinali è
divenuto dall’Undicesimo secolo la cerchia che ha il potere di eleggere il Papa.
Vestono con una tonaca rosso porpora, il colore del potere supremo nell’antica
Roma. E’ divenuta poi consuetudine di scegliere il Papa tra i cardinali.
Dunque, ai nostri tempi, non essere
eletto cardinale significa non avere alcuna possibilità concreta di essere
eletto Papa, anche se, dal punto di vista del diritto canonico e anche teologico,
non vi è un impedimento assoluto. Se non altro perché, non facendo parte del
ceto cardinalizio non si ha la possibilità di partecipare alle trattative
che, nel corso del Concistoro, l’assemblea
convocata per eleggere il nuovo papa, determinano il formarsi di una
maggioranza intorno ad un nome. Essere
cardinali e arcivescovi di grandi
città è stato in passato un elemento qualificante per essere scelti per essere papa.
Da ultimo, era stato arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, nominato
a quella funzione nel 1956 (prima era stato a lungo stretto collaboratore del papa
Pio 12°) e poi cardinale nel 1958, dal papa Giovanni 23°, succeduto al papa Pio 12° quello stesso anno.
Stiamo
però vivendo una spettacolare evoluzione del sistema di potere ecclesiastico,
in cui si vorrebbe rafforzare la sinodalità dell’episcopato sull’esempio storico
del Primo millennio, dopo più di un secolo in cui, invece, era stata molto
rafforzata l’autocrazia papale, organizzata nella cerchia dei ceto dei
cardinali, che controlla la Curia romana, il complesso di ufficio tramite il
quale il Papato cerca di governare i modo autocratico l’organizzazione
ecclesiastica. Nell’episcopato mondiale,
l’arcivescovo di Milano ha sempre svolto un ruolo molto importante, che di
questi tempi, in cui si vuole di nuovo sviluppare una sinodalità nel ceto dei
vescovi, può esserlo ancora di più, svolgendo un ruolo trainante. In fondo fu
la cattedra di un personaggio molto importante come il vescovo Ambrogio, che
regnò nel fatale Quarto secolo producendo molta della cultura tuttora corrente
in teologia. Ma questo richiede che chi
ricopre quel ministero ecclesiale non sia assorbito nel ceto dei cardinali. Anche
se naturalmente non si può sapere se poi, ad un certo punto, il papa deciderà di cooptarlo in quella cerchia. Giuridicamente
il potere del papa in questo campo non incontra limiti se non nel fatto che il
prescelto deve essere un vescovo, ma il papa potrebbe variare questa regola.
Storicamente furono nominati cardinali anche delle persone non consacrate preti,
i cosiddetti cardinali laici. L’ultimo laico ad essere nominato
cardinale, dal papa Pio 9° nel 1858, fu un avvocato laziale, Teodolfo Mertel.
Nello
sviluppo dei processi sinodali dobbiamo attenderci che il ruolo del ceto episcopale
organizzato nel Sinodo dei vescovi cresca e diminuisca quello del ceto
cardinalizio, organizzato intorno alla Curia romana. Tutto questo non riguarda
direttamente noi persone laiche, alle quali in questa materia, come
praticamente in tutto ciò che concerne l’organizzazione dell’apparato
ecclesiastico, non è attribuito alcun ruolo. In realtà contiamo moltissimo da
un punto di vista dello sviluppo della cultura ecclesiale, quando riusciamo a
esprimerla e a viverla. Gran parte dell’evoluzione della cosiddetta dottrina
sociale ricalca quella del nostro pensiero
sociale. La stessa cultura della sinodalità come oggi viene proposta risente
moltissimo del pensiero sociale sviluppato tra le persone laiche negli ultimi
due secoli.
Il mito dell’uomo da solo al comando sta tramontando
e con esso, si spera, tutta la tremenda tradizione di efferata violenza
politica che l’ha accompagnato.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli