Il dialogo secondo Bruno Forte
Sul numero 22\2022 della rivista Il Regno è stato pubblicato un articolo del teologo napoletano Bruno Forte, di 73 anni, vescovo di Chieti, dal titolo “Chiesa – sinodalità: il dialogo come stile. La proposta di un decalogo”.
Le comunità cristiane sono pervase da tensioni e conflitti, scrive l’autore, ciò che ostacola quel procedere insieme in cui si fa consistere la sinodalità. Per attuarla, superando i contrasti, serve il dialogo, che significa etimologicamente incontrarsi mediante la parola (la parola ci viene dal gergo antico diá-logos [διάλογος], composta da diá, mediante, e da logos, parola [ma anche ragionamento e scienza], e originariamente significava conversazione).
Dialogare per risolvere i conflitti non è facile però. Quali sono le condizioni che rendono possibile e autentico il dialogo?
Bisogna anzitutto allargare il proprio punto di vista individuando un interesse superiore e comune alle parti, insegna Forte. Non c’è vero dialogo quando si cerca di farne uno strumento di dominio. Presupposto del dialogo autentico è il riconoscere dignità alle persone con le quali si entra in relazione. Senza di questo manca la reciprocità delle coscienze e il tentativo di dialogare non produce nulla, è vano. Questo comporta, sia nelle relazioni interpersonali che in quelle fra gruppi, di superare l’idea che le altre persone siano un rischio da cui difendersi. Inoltre vi deve essere la reale possibilità di dare e ricevere, vale a dire di uno scambio dialogico.
Forte richiama il pensiero del filosofo austriaco di fede ebraica Martin Buber [morto a Gerusalemme nel 1965 a 87 anni], il quale in diversi scritti, in particolare nel saggio Io e tu [raccolto in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, 2014] ha trattato del dialogo come condizione della realizzazione della persona umana, nell’apertura e nella reciprocità, per superare visuali parziali. Per Buber, scrive Forte, «soltanto nella relazione interpersonale la prigionia dell’io è infranta e si coglie la realtà non come dominio, ma come incontro». L’uomo, infatti, non è per la solitudine. La relazione più realizzante è quella col Tu supremo. Per Buber, quindi, la religione stessa è interpretata in chiave dialogica. Tuttavia, osserva Forte, Buber non fa i conti con la durezza dei rapporti con gli altri, vale a dire con come va il mondo.
La Chiesa, concepita secondo il Vangelo, fornirebbe, secondo Forte, una soluzione. È basata su un duplice movimento, dal basso e dall’alto. L’iniziativa verrebbe dall’alto e, in questa concezione, andrebbe incontro alla nostra storia, che si muove dal basso. La Chiesa, per Forte, sarebbe il luogo dell’incontro tra quei due movimenti, a partire da Gesù il Cristo, «colui nel quale questo incontro è originariamente e sommamente realizzato». In quest’ottica, la comunione ecclesiale, intesa come prevenzione e risoluzione dei conflitti, sarebbe dono dall’alto che attenderebbe una risposta, come ascesi, dal basso. La risposta dal basso dovrebbe essere libera, in un dialogo in cui il dono venga liberamente accolto.
A questo punto Forte affronta il tema della verità, che pare opporsi ad un dialogo libero. Non c’è opposizione, sostiene però Forte. Su questo non bisognerebbe cedere, a costo del rischio di far fallire la convergenza cercata. Così si sarebbe veramente liberi, non facendosi soggiogare dai poteri forti e se ne uscirebbe più credibili, perché onestamente obbedienti al giusto e al vero.
La Chiesa dovrebbe farsi, al suo interno, icona della Trinità, concepita come modello del dialogo che si propone di attuare. Nel dialogo con la comunità degli uomini, anche in politica, dovrebbe annunciare ciò che le è stato rivelato e donato. Forte richiama, in merito, i ragionamenti svolti dal papa Giovanni 23º nel discorso di apertura del Concilio Vaticano 2º l’11 ottobre 1962, e l’Esortazione apostolica Ecclesiam suam, del 1964, diffusa sotto l’autorità del papa Paolo 6º.
Per Forte, per un’autentico dialogo sinodale, occorrono umiltà, ascolto, stupore (per il fatto che il vero può venire da dove non ce se l’aspetta), una lingua comune (nel senso di imparare anche quella delle altre persone), silenzio (per ascoltare e riflettere e farsi prossimi anche a gesti), libertà (liberi da sé stessi e dai condizionamenti altrui, per obbedire solo alla verità, che rende liberi), perdono reciproco, conoscenza reciproca, senso di responsabilità nei confronti del bene di tutti, verità (non ne viene data una definizione, si dà per conosciuta). Questo, dunque, il Decalogo di Forte per il dialogo che dovrebbe caratterizzare la sinodalità ecclesiale.
L’articolo si chiude con un suggestivo richiamo al brano del libro dell’Apocalisse, capitolo 22, versetti 17 e 20, che presenta un dialogo nel Cielo “sulla linea di confine tra il tempo e l’eternità”: «Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni! […] Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni Signore Gesú».
Osservo che il discorso di Forte parte dall’Uomo dell’antropologia teologica e non dalle persone umane come realmente appaiono. Certo, queste ultime sono viventi che costruiscono società e di esse necessitano per orientarsi, ma il mondo vitale della singola persona, quello che le è indispensabile per pensarsi come tale, quindi per realizzarsi nel senso spiegato da Buber, è molto piccolo, mentre le altre relazioni, in particolare quelle fra i gruppi sociali sono essenzialmente contrapposizioni di potere. Le relazioni interpersonali rispondono a una logica molto diversa rispetto a quella delle relazioni tra gruppi, così come il dialogo. Il dialogo sociale al di fuori dei piccoli gruppi di mondo vitale è molto più formalizzato, facendo ricorso a miti e diritto. Puntare a relazioni dialogiche molto profonde e intense tra e nei gruppi maggiori può rivelarsi controproducente, in particolare se si mira alla pacificazione.
C’è poi il problema della verità, che, se intesa come sistema di definizioni enunciato dalla gerarchia come condizione per essere considerat@ dentro la Chiesa, ostacola sicuramente un processo sinodale in cui è al centro del dialogo il modo di esercizio dell’autorità gerarchica. La libertà è solo quella di obbedire a quella cosiddetta verità? Si comincerebbe male.
Umiltà, silenzio, obbedienza: sono tutti ostacoli seri al dialogo con le autorità costituite, assai propense ai monologhi, specie se si tratta di autorità sacralizzate, come quelle espresse dalla cosiddetta gerarchia ecclesiastica. Più utile la parresìa, la franchezza.
La verità, nel senso di cui sopra, è stata ed è costruzione sociale, organizzata prevalentemente per sacralizzare sistemi di potere sociali, ecclesiastici e civili. La sinodalità, quale oggi viene proposta, richiede di allentare quella sacralizzazione, in modo da riorganizzare alcune attività superando l’attuale assolutismo clericale. Non occorre porre mano a faccende di verità per cambiare in quei limiti l’attuale ordinamento ecclesiastico cattolico che umilia ancora in una condizione sub-umana, in quanto privata di libertà di parola e quindi di reale dialogo, tutte le persone che si dedicano a ruoli ecclesiali diversi da quelli ordinati. È solo il portato della nostra tremenda storia ecclesiastica.
Infine: sognare di una sinodalità ecclesiale costruita sul modello divino della Trinità è irrealistico. In questo Forte e le persone che ragionano come lui vanno incontro alla stessa obiezione di irrealismo che Forte ha proposto nei confronti del pensiero di Buber. Infatti non si è mai riusciti ad attuare nella vita vera quel modello, addirittura fin da prima della Resurrezione. Nonostante tutti i discorsi suggestivi dei teologi in materia di unione tra divino e umano, pretendere caratteristiche divine nelle società umane è disumano e, di fatto, al dunque si è sempre cercato inutilmente di riuscire ad ottenerle mediante violenza, repressione e, come minimo, emarginazione. Questa la sorte di tante nostre grandi anime.
L’articolo di Forte è interessante perché proviene da un gerarca ecclesiastico molto sapiente e illuminato: esprime la posizione di quella parte della gerarchia con la quale il dialogo può essere più facile. Con altre è francamente impossibile. Eppure con tutte occorre, se si vuole veramente rimanere insieme almeno in qualche cosa, trovare un sistema per convivere, non necessariamente troppo vicini. A volte la pace sociale richiede di distanziarsi un po’.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli