Discorso alla città "E gli altri?" dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini, in
occasione della festa di sant’Ambrogio, patrono di Milano (7 dicembre) - diffuso
il 6 dicembre 2022
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E GLI ALTRI?
Tra ferite aperte e gemiti inascoltati: forse un
grido, forse un cantico
Introduzione
Questo discorso, chiamato
solennemente “discorso alla città”, è l’intervento più istituzionale
dell’Arcivescovo di Milano, grazie all’impegno che hanno profuso i grandi
Arcivescovi che mi hanno preceduto e grazie all’attenzione che gli uomini e le
donne delle istituzioni hanno rivolto a quegli interventi. È un momento
istituzionale. Eppure non posso trattenermi da una confidenza personale.
Con il passare degli anni trovo
sempre più insopportabile il malumore. Trovo irragionevole il lamento. Trovo
irrespirabile l’aria inquinata di frenesia e di aggressività, di suscettibilità
e risentimento.
Perciò anche in questo momento
solenne e in questa congiuntura singolare io vorrei dire le parole che mi sono
più congeniali e condividere i sentimenti più profondi. Vorrei dire che il
linguaggio di Milano e di questa nostra terra è la fierezza di poter affrontare
le sfide, è la generosità nell’accogliere e nel condividere, è la saggezza
pensosa che di fronte alle domande cerca le risposte, è la franchezza
nell’approvare e nel dissentire, è la compassione che non si accontenta di
elemosine ma crea soluzioni, stimola a darsi da fare, inventa e mantiene
istituzioni per farsi carico dei più fragili.
Milano e la gente che abita in
questo territorio non si stupirà se metto nel titolo di questo discorso un
punto di domanda: perché voglio fare l’elogio dell’inquietudine, voglio
condividere l’aspetto promettente di un realismo che custodisce la speranza e
che crede nella democrazia e nella vocazione della politica.
Lettura
del Libro dei Re (1Re 3,5-9)
A Gàbaon il
Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone disse: «Tu hai trattato il tuo
servo Davide, mio padre, con grande amore, perché egli aveva camminato davanti
a te con fedeltà, con giustizia e con cuore retto verso di te. Tu gli hai
conservato questo grande amore e gli hai dato un figlio che siede sul suo
trono, come avviene oggi. Ora, Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il
tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so
come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo
numeroso che per quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo
un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia
distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così
numeroso?».
Ambrogio, I
doveri, III, 3 (SAEMO, 13, 287)
[23] Che cos’è tanto contrario
alla natura quanto offendere un altro per il proprio interesse? Eppure il
sentimento naturale ci suggerisce di vegliare su tutti, di affrontare noie e
sopportare fatiche per tutti; e si considera per ciascuno motivo di lode procurare
con proprio rischio la tranquillità di tutti; e ognuno ritiene cosa di gran
lunga preferibile aver scongiurato la rovina della patria che l’aver trascorso,
lontano dagli affari, una vita tranquilla in mezzo ai piaceri.
[45] … ma anche quelli che escludono
i forestieri dalla città non meritano certo approvazione.
Ciò significa cacciarli proprio
quando si dovrebbero aiutare, impedire loro i rapporti con la madre comune,
rifiutare loro i frutti che la terra produce per tutti, troncare le relazioni
di vita già iniziate, non voler dividere in tempo di necessità le risorse con
quelli con i quali furono comuni i diritti.
[46] Agì assai meglio
quell’anziano che, siccome i cittadini soffrivano la fame e da ogni parte si
chiedeva, come suole avvenire in tali frangenti, l’allontanamento dei
forestieri, forte della sua responsabilità maggiore quale prefetto della città,
convocò gli uomini più autorevoli e ricchi e chiese loro di prendere
immediatamente una decisione dichiarando mostruoso il fatto che i forestieri
venissero scacciati, disumano chi rifiutava il cibo a un moribondo. Non
sopportiamo che i cani siano digiuni mentre mangiamo e scacciamo gli uomini.
[51] Nulla c’è di così conveniente
ed onesto che aiutare i poveri con le offerte raccolte tra i ricchi, distribuire
viveri agli affamati, assicurare a tutti il cibo. Nulla c’è di così utile come
conservare i coltivatori al loro campo e impedire che il popolo dei contadini
perisca.
[52] Ciò che è onesto, dunque, è
utile; e ciò che è utile, onesto. E, al contrario, ciò che non è utile è
sconveniente; e ciò che è sconveniente non è utile.
Elogio
dell’inquietudine
Se si
continua così, che cosa resterà di Milano?
Voglio fare l’elogio
dell’inquietudine che bussa alle porte della paura.
La paura serpeggia nella città e
nella nostra terra: è la paura di difficoltà reali che si devono affrontare e
non si sa come; è la paura indotta dalle notizie organizzate per deprimere, per
guadagnare consenso verso scelte d’emergenza, senza una visione lungimirante; è
la paura dell’ignoto; è la paura del futuro. La paura induce a chiudersi in sé
stessi, a costruire mura di protezione per arginare pericoli e nemici, ad
accumulare e ad affannarsi per mettere al sicuro quello di cui potremmo aver
bisogno, “non si sa mai”.
Alle porte della paura bussa
l’inquietudine con la sua provocazione: e gli altri?
L’antico segno della civiltà
imponeva un criterio: “prima le donne e i bambini”, cioè: prima devono essere
messi in salvo quelli che non possono salvarsi da soli. Si è smarrito il segno
della civiltà?
Voglio fare l’elogio
dell’inquietudine che bussa alle porte dei sogni che la città coltiva e
realizza, la città che corre, la città che riqualifica quartieri e palazzi, la
città che fa spazio all’innovazione e all’eccellenza, la città che seduce i
turisti e gli uomini d’affari, la città che demolisce le case popolari e
costruisce appartamenti a prezzi inaccessibili.
Alle porte della città bussa
l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri?
Dove troveranno casa le famiglie
giovani, il futuro della città? Dove troveranno casa coloro che in città devono
lavorare, studiare, invecchiare?
Voglio fare l’elogio
dell’inquietudine che bussa alle porte dei centri di ricerca dedicati
all’organizzazione del lavoro che controlla la produttività e ignora gli orari
della famiglia, che controlla l’ottimizzazione delle risorse e ignora la
qualità di vita delle persone, che prepara strumenti per valutare la sostenibilità
ambientale e ritiene secondaria la sostenibilità sociale.
Alle porte dell’organizzazione del
lavoro bussa l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri?
Come potranno vivere quegli onesti
lavoratori che si ritrovano a fine mese una paga che non copre le spese che la
vita urbana impone loro?
Voglio fare l’elogio
dell’inquietudine che bussa ai palazzi dove si decidono i rapporti con gli
altri Stati e si decidono le misure da adottare per gestire i destini dei
popoli e i fenomeni migratori per rassicurare i cittadini e ridurre i fastidi.
Ai palazzi del potere bussa
l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri?
Come si può giustificare un
sistema di vita che pretende il proprio benessere a spese delle risorse altrui?
Come si può immaginare una civiltà che si chiude e muore e lascia morire popoli
pieni di vita?
Faccio l’elogio dell’inquietudine
perché mi faccio voce della comunità cristiana, della tradizione europea e
italiana, della lungimiranza sui destini della civiltà occidentale e, d’altra
parte, non ho la pretesa di giudicare sbrigativamente o di disporre di ricette
risolutive. Elogio l’inquietudine perché pensieri, decisioni, interventi siano
attenti alla complessità e là dove sembra produttivo e popolare essere
sbrigativi e semplicisti, istintivi e presuntuosi, l’inquietudine suggerisca
saggezza e disponibilità al confronto, studio approfondito e concertazione
ampia, per quanto possibile.
Elogio del
realismo della speranza
Se
sapete di una promessa, perché vi disperate?
L’inquietudine non è
un’inclinazione depressiva che può paralizzare il pensiero e l’azione
nell’incertezza e nello scontento. È piuttosto un rimedio per contrastare la
soddisfazione narcisista che si assesta in un egocentrismo rovinoso. Il
confronto con “gli altri”, l’ascolto del gemito, la costruzione di rapporti
fondati sulla stima, sull’attenzione, sulla riconoscenza, sono fattori di
quell’umanesimo realista che rende desiderabili la convivenza civile e i
rapporti tra i popoli.
L’inquietudine e il realismo sono
le tracce della speranza che è stata seminata nella vicenda umana.
Infatti, senza una speranza non si
può vivere né si può desiderare di generare vita, di costruire il futuro, di
sostenere le fatiche e di celebrare le feste.
La speranza non è un’ingenuità
consolatoria, è piuttosto la risposta alla promessa che chiama a desiderare la
vita, la vita buona, la vita nella pace, la vita dono di Dio. La gente seria
pratica la speranza e accoglie la promessa perché è consapevole del proprio
limite radicale, dell’impossibilità dell’autosufficienza e, d’altra parte, non
può ammettere l’abbandono dell’impegno o l’immergersi in un ottuso attivismo.
La speranza autentica propizia non
tanto il futuro (ricercato e voluto con l’ottimismo dell’esito) quanto
l’avvenire (atteso e desiderato con la speranza di un senso e di un
significato). Non ricerca l’im-munità (come difesa dall’altro), ma la co-munità
(come difesa dell’altro).
Voglio perciò fare l’elogio del
realismo della speranza che risponde all’annuncio di una promessa. Opera,
infatti, nella storia la provvidenza di Dio che è promessa di vita, di vita
buona, di vita eterna. La speranza non si costruisce sulle proiezioni delle
statistiche, sulle previsioni degli intellettuali, sulle ideologie. C’è una
parola affidabile che rivela che la vita è promettente, che non siamo destinati
al nulla, che non siamo una presenza insensata in un universo insensato, ma
siamo persone uniche, con una originalità irripetibile, con una vocazione che
ci autorizza ad avere stima di noi stessi e ci chiama a mettere a frutto i
talenti ricevuti per il bene di tutti.
E la promessa che autorizza la
speranza giunge a noi in molti modi: nel silenzio della meditazione,
nell’evento che ci provoca, nelle Scritture che interpretano la storia e
annunciano la terra promessa verso la quale l’umanità può incamminarsi. Spesso
l’annuncio della promessa sono gli altri, le persone che vivono con noi, le
persone che ci vogliono bene, le persone che la vita ci fa incontrare e che
sono come messaggeri di insospettate possibilità.
Il realismo della speranza ama
sostare in preghiera e in silenzio, resiste alla tentazione della
superficialità e della fretta, percorre la via della sincerità, evita le
maschere, il conformismo, la viltà. Abbiamo bisogno di praticare una
spiritualità in cui venga alla coscienza la verità di noi stessi, degli altri,
di Dio.
Voglio fare l’elogio del realismo
della speranza che riconosce la vocazione alla fraternità iscritta in ogni vita
umana. Il realismo della speranza smaschera l’illusione dell’individualismo,
forse la radice più profonda dell’infelicità del nostro tempo.
L’individualismo non ci rende più
liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non
è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può
preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo
radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che
tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se
accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene
comune.
(Papa
Francesco, Fratelli tutti, 105)
Un essere umano è fatto in modo
tale che non si
realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza «se non
attraverso un dono sincero di sé». E ugualmente non giunge a riconoscere a
fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri.
(Papa
Francesco, Fratelli tutti, 87)
La vocazione alla fraternità è la
condizione di sopravvivenza dell’umanità e costruisce progetti di futuro perché
condivide la fiducia che la vita sia creata da una promessa. Infatti, la
solidarietà, pur decisiva nel nostro tempo, è il principio di organizzazione
sociale che consente ai diversi di diventare uguali; mentre la fraternità è il
principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di essere diversi,
cioè unici e irripetibili.
Il realismo della speranza rende
desiderabile che continuino a nascere da un papà e da una mamma bambini e
bambine, che siano circondati da ogni cura e introdotti nella vita come
promessa di futuro.
Si può comprendere così che una
mentalità individualistica che censura la speranza sia tra le ragioni profonde
della crisi demografica che invecchia la nostra società.
Voglio fare l’elogio del realismo
della speranza che consente di affrontare l’emergenza educativa, il disagio
delle giovani generazioni evitando di ridurre il tema in limiti troppo angusti.
C’è infatti il rischio che il
linguaggio dell’emergenza suggerisca di cercare rimedi in interventi
specialistici, in supporti farmacologici, in richiami moralistici.
Più che di emergenza e di disagio
si deve forse parlare di una invocazione che le giovani generazioni ci
rivolgono: «Dateci buone ragioni per diventare adulti! Testimoniate che vale la
pena di assumere responsabilità, di mettere a frutto le proprie capacità.
Dateci motivi per credere che sia possibile vivere rapporti di amore, stabili e
appassionati alla promessa di generare figli e figlie».
La responsabilità degli adulti è e
diventa quella di praticare il realismo della speranza. Non si deve certo
sottovalutare il contributo che possono offrire le competenze specialistiche
per affrontare le difficoltà che incontrano gli adolescenti. Ma è decisivo che
i genitori, gli insegnanti, gli educatori delle nostre comunità siano adulti
che, in rapporto con questi “altri” che sono le giovani generazioni, sappiano
testimoniare che vale la pena diventare adulti, essere padri e madri, assumere
responsabilità nella professione e nella vita sociale.
Voglio fare l’elogio del realismo
della speranza che consente di affrontare la tutela della salute e il prendersi
cura nelle situazioni limite della malattia. Vi è un’attesa quasi onnipotente
della vita, nella dis-attesa della morte (rimossa). Pure nella complessità,
nella frammentazione e nella frammentarietà del vivere postmoderno, il come è
altamente presidiato e coltivato. È più fragile la dimensione del dove della
cura, soprattutto nella malattia cronica, degenerativa e irreversibile. Essa
appare sempre più come un non luogo: la malattia cronica è come consegnata al
suo destino di irreversibilità e di contingenza. La cura si fa incerta, tra i
confini del curabile e del (non) guaribile. Il perché resta nel rumore
silenzioso del proprio dolore e della propria sofferenza. La dimensione della
cura, del prendersi cura e del farsi carico si rivolgono alla persona (e non
solo alla malattia o al malato); la dimensione della malattia non è solo un
evento clinico (del come e del dove), bensì è un evento esistenziale (dice del
perché).
Voglio fare l’elogio del realismo
della speranza per incoraggiare la riflessione e la pratica di quei tratti che
caratterizzano la nostra città, il nostro territorio. Il sistema produttivo, le
qualità dell’imprenditoria, l’eccellenza dei prodotti, sono motivi di fierezza
e meriti riconosciuti. Dalla bottega dei nonni agli orizzonti del mercato
globale il cammino è stato impegnativo, è costato sacrifici, ha rivelato
intelligenza e intraprendenza, si è giovato di forme di associazione tra
imprese. In questa avventura è avvenuto l’incontro con tanti “altri”: altre
persone e altri modi di pensare, altri Paesi e altri modi di vivere, altri
regimi politici e fiscali, altre organizzazioni economiche. È risultata così
evidente l’interdipendenza tra persone e sistemi.
Il realismo della speranza
convince a costruire rapporti che non si limitino al dare e all’avere, al
vendere e al comprare, ma diventino alleanze, interesse per il bene reciproco,
rispetto per tutti gli ambienti, onore per tutte le culture. Le esperienze
disastrose delle guerre convincono dell’assurdità dei conflitti e
dell’insensatezza di considerare nemiche persone con cui si è lavorato e
collaborato in modo così costruttivo. Le esperienze disastrose di imprese di
rapina che saccheggiano territori e riducono popoli in condizioni di schiavitù
e di miseria devono suscitare una opposizione determinata dalla persuasione che
o si cresce insieme o si perisce tutti.
Voglio fare l’elogio del realismo
della speranza per incoraggiare il pensiero e l’azione a interpretare la
vocazione della nostra terra alla solidarietà. In molti modi le risorse sono
state condivise: il tempo è diventato dono per il volontariato, le risorse
economiche sono diventate supporto per opere di carità, gli spazi sono
diventati luoghi per accogliere. È necessario però riconoscere ed evitare di
praticare la “generosità del superfluo” o “degli avanzi”. Soprattutto in un
settore che vede tutti impegnati in modo diretto e prioritario: l’assistenza ai
fragili e la cura dei sofferenti. La gran parte delle risorse delle nostre
istituzioni è investita in questo settore. Forme diffuse di neoliberismo nelle
trame di potentati imprenditoriali e dei poteri finanziari si ammantano di
paternalismo generoso e di ostentata filantropia e perpetuano un regime di
iniquità, la subordinazione umiliante di tanti, una cronica dipendenza dai
privilegiati, dai forti, dai potenti.
Il realismo della speranza incoraggia
a sentirsi più profondamente un “popolo in cammino”, che pratica la solidarietà
non come un’appendice lodevole dell’economia, ma come un principio
rivoluzionario del sistema economico. Di fronte alla crescente divaricazione
tra ricchi e poveri non può bastare qualche volonterosa protesta: è necessario
sperare insieme con realismo un mondo giusto e mettere mano all’impresa di
costruirlo.
Voglio fare l’elogio del realismo
della speranza che interpreta i rapporti tra le nazioni come condizione
necessaria per rendere abitabile il pianeta e promettente il futuro. La storia
che viviamo sembra offrire ragioni per scoraggiare aspettative di pace,
l’avidità e la menzogna muovono all’aggressività, scatenano guerre, seminano
odio e distruzione. Non possiamo lasciarci rubare la speranza: crediamo alla
promessa della vocazione alla fraternità di tutti gli abitanti del pianeta. Non
possiamo rinunciare al
realismo: percorriamo e incoraggiamo a percorrere le vie della diplomazia,
della preghiera, della reazione popolare alla guerra, agli affari sporchi che
la guerra favorisce. Non possiamo rinunciare alla ragionevolezza che convince
dell’assurdità della guerra e scuote dall’assuefazione. Non possiamo rinunciare
al desiderio dell’incontro, della conoscenza, dell’amicizia tra i popoli,
consapevoli che gli altri ci sono necessari.
Senza il rapporto e il confronto
con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di sé
stessi e della propria terra, poiché le altre culture non sono nemici da cui
bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile
della vita umana. Guardando sé stessi dal punto di vista dell’altro, di chi è
diverso, ciascuno può riconoscere meglio le peculiarità della propria persona e
della propria cultura: le ricchezze, le possibilità e i limiti. L’esperienza
che si realizza in un luogo si deve sviluppare “in contrasto” e “in sintonia”
con le esperienze di altri che vivono in contesti culturali differenti.
In realtà, una sana apertura non
si pone mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con elementi di
diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o una mera
ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie. Questo provoca
la nascita di una nuova sintesi che alla fine va a beneficio di tutti, poiché
la cultura in cui tali apporti prendono origine risulta poi a sua volta
alimentata.
(Papa
Francesco, Fratelli tutti, 147-148)
Elogio della
politica
Se non
i cittadini, chi si cura della città?
Il discorso alla città non è una
forma di presunzione, come se il Vescovo avesse qualche cosa da insegnare alla
città e a coloro che l’amministrano e vi esercitano la responsabilità. È
piuttosto un’occasione per esprimere la gratitudine per il servizio reso alla
città e a tutti i comuni della Diocesi dai sindaci e da tutti coloro che
collaborano per l’Amministrazione comunale, dagli operatori della sanità e
dell’educazione, dalle Forze dell’ordine, dai magistrati, dalle autorità
provinciali e regionali.
Desidero dunque esprimere la mia
riconoscenza e la riconoscenza della comunità della Diocesi ambrosiana perché
riconosco segnali di condivisione dei sentimenti profondi e di quelle
attitudini di cui ho tessuto l’elogio.
Mi sembra, infatti, che tutti
coloro che hanno responsabilità vivano quell’inquietudine provocata
dall’interrogativo: e gli altri? E gli altri, i bambini che subiscono violenze
e abusi? Le altre, le donne maltrattate, umiliate, picchiate in casa? E gli
altri, gli anziani soli, chiusi nelle loro case per paura, per abitudine,
perché impossibilitati a partecipare alla vita sociale? Gli altri, quelli che
non hanno voce, quelli che abitano la città senza che noi ce ne accorgiamo? Gli
altri, quelli per cui non abbiamo stanziato risorse sufficienti? E gli altri,
quelli che non vanno a scuola, quelli che non lavorano? E gli altri, quelli che
non hanno casa, quelli che non hanno assistenza sanitaria? E gli altri, quelli
che lavorano troppo e sono pagati troppo poco? E gli altri, quelli che
subiscono prepotenze, estorsioni, ricatti dalla malavita organizzata che si
insinua dovunque può conquistarsi profitti e potere? E gli altri, i ragazzi che
si associano per commettere violenze, per rovinare i muri della città e le cose
di tutti, per rovinare la propria giovinezza e rendersi schiavi di dipendenze
spesso irrimediabili?
Mi sembra che coloro che hanno
responsabilità per il bene comune coltivino quel realismo della speranza che
incoraggia ogni giorno a fare il proprio dovere, a pensare, a dialogare, a
decidere, a interrogarsi sulle vie da percorrere. Chi ha responsabilità ha
bisogno, più che del volontarismo, della speranza e del realismo per prendersi
cura dell’insieme della comunità, della città, del proprio ambito.
C’è bisogno del realismo della
speranza: chi ha responsabilità, infatti, deve guardare lontano. La popolarità
o l’interesse, il prestigio o il vantaggio personale sono guadagni troppo
meschini e troppo improbabili per motivare un impegno quotidiano spesso
logorante e poco confortato da risultati.
Si deve affermare che la cura per
il bene comune, oltre il proprio interesse o l’interesse del proprio partito,
l’impegno che trova motivazione nell’inquietudine e nel realismo della speranza
si chiamano “politica”.
Voglio perciò fare l’elogio della
politica, di questa politica.
È più facile e consueto deprecare
i comportamenti dei politici, irridere all’impotenza dei politici e
all’inefficacia delle leggi, denunciare fallimenti, errori. Una sorta di
scetticismo pervade l’animo lombardo nei confronti delle intenzioni e dei
risultati dell’azione legislativa e dell’applicazione delle leggi.
Un brano
memorabile di questo scetticismo è stato scritto da quel gran lombardo che è
Alessandro Manzoni, di cui nel 2023 ricorderemo i 150 anni dalla morte. Scrive
dunque Manzoni nei Promessi sposi a
proposito delle “gride” contro i delinquenti del tempo antico, i cosiddetti
“bravi”:
La forza legale non proteggeva in
alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far
paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private.
Le leggi anzi diluviavano; i delitti enumerati, e particolareggiati, con minuta
prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi
per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le
procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse
essergli d’impedimento a proferire una condanna […]. Con tutto ciò, anzi in
gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo
in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza
de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente
d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano
da’ perturbatori, e d’accrescer le violenze e l’astuzia di questi. L’impunità
era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano
smovere.
(A. Manzoni, I promessi sposi, cap. I)
Voglio fare l’elogio della
politica che si esprime nella democrazia rappresentativa, il sistema
costituzionale in cui viviamo, esito di un doloroso travaglio, della tragedia
della guerra, dell’oppressione della dittatura, della sapienza dei legislatori.
Voglio esprimere apprezzamento e
incoraggiamento per tutti i cittadini che in questa politica si impegnano, per
quelli che accettano di essere candidati nel servizio delle comunità locali.
L’elogio della democrazia rappresentativa chiede che ci sia un impegno
condiviso per contestare e correggere la sfiducia che è presente in chi non
vuole essere coinvolto, si chiude nel proprio punto di vista e non si interessa
degli altri, pretende che siano soddisfatti i propri bisogni ma non si cura del
bene dell’insieme.
Voglio fare l’elogio della
democrazia rappresentativa che convoca tutte le componenti della società a
costituire un “noi” radunato da un senso di appartenenza e di legittima
pluralità per praticare il realismo della speranza, per costruire la giustizia
e la pace.
Voglio fare l’elogio della
partecipazione che non si accontenta di esprimere il voto per il proprio
partito e il proprio candidato, ma che discute, ascolta, offre le proprie idee,
pretende supporto per le forme di aggregazione e di presenza costruttiva nel
sociale per prendersi cura degli altri, soprattutto di quelli che non contano,
non parlano, non votano.
Voglio fare l’elogio di un sistema
che dà agli eletti il mandato di prendersi cura del bene comune chiedendo loro
di rendere conto, di promuovere la sussidiarietà − evitando l’anacronistico
schema pubblico-privato − e di svolgere un’opera di mediazione tra i diversi
interessi.
Voglio fare l’elogio della
politica che, volendo rappresentare tutti, si prende cura di chi è più fragile
e bisognoso e − disponendo di risorse limitate − considera in primo luogo i
servizi più necessari e coloro che non hanno risorse: i disabili gravi, gli
anziani soli, le famiglie in povertà.
Ci ricorda ancora papa Francesco:
Voglio ricordare quegli
“esiliati occulti” che vengono trattati come corpi estranei della società.
Tante persone con disabilità «sentono di esistere senza appartenere e senza
partecipare». Ci sono ancora molte cose «che [impediscono] loro una cittadinanza
piena». L’obiettivo è non solo assisterli, ma la loro «partecipazione attiva
alla comunità civile ed ecclesiale. È un cammino esigente e anche faticoso, che
contribuirà sempre più a formare coscienze capaci di riconoscere ognuno come
persona unica e irripetibile». Ugualmente penso alle persone anziane «che,
anche a motivo della disabilità, sono sentite a volte come un peso». Tuttavia,
tutti possono dare «un singolare apporto al bene comune attraverso la propria
originale biografia».
(Papa Francesco, Fratelli tutti, 98)
Conclusione
Le parole antiche e la
testimonianza del giovane Salomone, chiamato a una troppo grave responsabilità;
le parole sagge del nostro patrono sant’Ambrogio, funzionario dell’impero
romano chiamato a essere vescovo per la comunità cattolica di questa terra; le
parole familiari di Alessandro Manzoni, interprete penetrante del vivere della
povera gente e delle vicende dei potenti; le parole propositive e coraggiose di
papa Francesco: tutto questo ci ispira a celebrare la festa solenne di
sant’Ambrogio.
In conclusione ho una domanda da
porre alla città, ai responsabili delle amministrazioni e delle istituzioni
della città e del territorio, a me stesso e alla comunità cattolica e a tutte
le comunità cristiane e a tutti i rappresentanti delle tradizioni religiose che
vivono in città: e gli altri?
E la domanda non si accontenta di
una risposta facile, sbrigativa. La domanda può continuare a ispirare
l’attenzione, incoraggiare la speranza, esigere d’essere considerata in ogni
ambito della vita pubblica.
Si potrebbe dire: «E gli altri:
chi sono?». Sono la nostra inquietudine, sono interlocutori e annunciatori
della nostra speranza, sono chiamati a essere il “noi” che si governa nelle
istituzioni democratiche.
Ho fatto l’elogio
dell’inquietudine, del realismo della speranza, della politica: ma si tratta di
parole, concetti, auspici. La verità è che io ho di fronte a me persone, volti,
storie, che in ogni momento si lasciano interpellare dagli altri, che ritengono
che gli altri abbiano diritto di rivolgersi a loro e di porre domande, di
presentare situazioni, di inquietare i sonni. Non posso perciò tacere l’elogio
di voi, amministratori della cosa pubblica nelle amministrazioni comunali,
amministratori della giustizia nei tribunali, responsabili dell’ordine pubblico
e della sicurezza dei cittadini, uomini e donne di Chiesa, cittadini, voi tutti
che sapete chi sono gli altri e ve ne prendete cura.
Voglio fare l’elogio e dire parole
di incoraggiamento e di benedizione per voi che, incontrando i problemi e le
ferite, non perdete troppo tempo a domandarvi: «Di chi è la colpa?» e piuttosto
vi chiedete: «Che cosa posso fare io per medicare le ferite e affrontare i
problemi?».
Voglio fare l’elogio di voi che,
incrociando le persone, non girate la faccia dall’altra parte, desiderando di
non essere disturbati, e piuttosto sorridete e salutate e ascoltate, perché
queste persone sono la vostra gente.
Voglio fare l’elogio di voi che
affrontate a viso aperto le ingiustizie, le prepotenze, le forme di illegalità,
le manifestazioni del vandalismo e vi mettete dalla parte delle vittime. Anche
voi avete paura, perché siete gente normale, ma l’affrontate, perché gli altri
vi stanno a cuore; gli altri, quelli che sono più deboli, che sono meno
rappresentati, anche se non votano. Voi state dalla parte di coloro che hanno
più bisogno delle istituzioni e del loro buon funzionamento.
Voglio fare l’elogio di voi,
uomini delle istituzioni, onesti, dedicati, responsabili, espressione di una
democrazia seria, faticosa e promettente, decisi a far funzionare il servizio
che i cittadini vi hanno affidato. Voglio fare l’elogio di voi, che sapete che
cos’è il bene comune e lo servite.
Faccio il vostro elogio, perché io
vi stimo.