Popolo a bassa intensità
Nell’incontro in videoconferenza Zoom della scorsa settimana del MEIC Lazio, si è parlato del secondo capitolo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti, quello dedicato al Popolo di Dio.
Il teologo fra noi ha spiegato che si scrisse di Popolo in senso teologico e non sociologico e che quindi non si deve immaginare di potervi introdurre forme partecipative più intense per la via seguita nelle società civili europee, quindi sviluppandovi metodi e concezioni democratiche. Questo ci è ripetuto fino allo sfinimento da clero e religiosi che si provano, senza molta convinzione, a inscenare eventi sinodali perché così ha ordinato l’attuale Papa. Io ho osservato che, in realtà, quello di popolo non è un concetto sociologico, ma politico, quindi mitico, come è sostanzialmente quello adottato dalla teologia della Luce per le genti, con la quale in definitiva si volle reimpostare la risposta alla domanda chi comanda nella Chiesa.
In natura, infatti, non ci sono popoli, ma solo popolazioni. In queste ultime, poi, si manifestano le società, che sono l’oggetto principale della sociologia. Nel governo delle società, infine, vengono costruiti i miti del popolo, per giustificare e organizzare il dominio sociale. Ciò è appunto quello che è stato fatto con la Luce per le genti. A proposito: genti equivale a popolazioni.
I miti sul popolo attualmente correnti nelle culture europee originarono nell’Ottocento, e sono legati a quelli sulle nazioni. Anche il concetto di nazione ha natura di mito politico, serve quindi al governo sociale. In natura non esistono nazioni. Se ne è costruito il mito raggruppando in modo arbitrario certi costumi prevalenti tra le popolazioni stanziate nelle aree geografiche sulle quali si vuole esercitare un dominio, rafforzandoli con miti di natura storica. È ciò che troviamo ad esempio nell’ideologia politica di Giuseppe Mazzini. In essa i miti di popolo e nazione furono pensati come strumenti politici per stabilire governi democratici repubblicani, deponendo le dinastie sovrane europee. Come si vide bene una volta costruita sanguinosamente l’unità nazionale, quei miti avevano ben poco a che fare con la realtà, tanto che si disse che “fatta l’Italia bisognava fare gli italiani”, generalizzando ciò che aveva osservato Massimo D’Azeglio [scrittore politico torinese molto noto nelI’Italia della sua epoca– 1798-1866] vale a dire che «Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani».
Il mito del Popolo di Dio sviluppato nella Luce per le genti è esplicitamente collegato alla teologia sul Cristo, presentato come suo capo, che ne costituisce l’unico elemento culturale unificante. Questo consente di immaginarlo come estensibile a tutta l’umanità e attivo per pacificarla:
«Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.» [Luce per le genti, cap.2º, n.13]
Immaginarlo come pacifico, pacificante e attivo mi sembra (dico mi sembra perché non sono un teologo e questi sono concetti escogitati da teologi) una grande innovazione del Concilio, rispetto al nostro tremendo passato ecclesiale. Prima lo si presentava in modo più simile a quello degli antichi israeliti, sempre in guerra con le popolazioni intorno.
Ci sono poi anche altre novità, ma appaiono più che altro come conseguenza di quell’elemento unificante. Viene nel complesso un po’, ma solo un po’, relativizzato l’elemento della soggezione ad una gerarchia sacralizzata sotto l’assolutismo papale. Fino al Seicento, in Europa questo era stato il principale fattore costruttivo dei miti dei popoli.Si era popolo in quanto soggetti ad un sovrano. Per il Papa era lo stesso: la sovranità del Cristo sul suo popolo era come mediata da quella del suo Vicario. In questo contesto non occorreva che la popolazione costituita in popolo fosse attiva, in particolare in religione: si sosteneva infatti che in quest’ambito avesse il solo diritto ad essere ben governata. A questo provvedeva il Papa, al resto le dinastie sovrane da lui, almeno formalmente, legittimate e, quindi, in tal modo sacralizzate. Opporsi ad esse, così,era peccato, opporsi al Papa sacrilegio. Quindi a lungo i processi democratici europei sviluppatisi a partire dalla fine del Settecento, furono strenuamente contrastati dal Papato e ciò fino al regno del papa Pio 12º, il quale tuttavia mostrò di apprezzare anche il fascismo stragista spagnolo di Francisco Franco, persona che aveva fama di essere molto devota e ossequiosa verso la gerarchia.
La nuova concezione conciliare del Popolo di Dio lo vorrebbe attivo, del resto in linea con la dottrina sociale contemporanea.
«Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di disseminare, per quanto gli è possibile, la fede. Ma se ognuno può conferire il battesimo ai credenti, è tuttavia ufficio del sacerdote di completare l'edificazione del corpo col sacrificio eucaristico, adempiendo le parole dette da Dio per mezzo del profeta: « Da dove sorge il sole fin dove tramonta, grande è il mio Nome tra le genti e in ogni luogo si offre al mio Nome un sacrificio e un'offerta pura». Così la Chiesa unisce preghiera e lavoro, affinché il mondo intero in tutto il suo essere sia trasformato in popolo di Dio, corpo mistico di Cristo e tempio dello Spirito Santo, e in Cristo, centro di tutte le cose, sia reso ogni onore e gloria al Creatore e Padre dell'universo.» [Luce per le genti, cap.2º, 17]
La sinodalità che si vorrebbe ora attuare è stata pensata come un modo per realizzare quell’attivismo del Popolo di Dio e, in questo senso, come una fase di attuazione dei principi conciliari.
Vi contrastano due problemi.
Il primo è che quei principi sono stati pervicacemente e deliberatamente ridimensionati dal Papato tra il 1985 e il 2013, fino a rendere la sinodalità, della quale si era iniziato a discutere negli anni ’80, un vero tabù (è stato ricordato durante l’incontro del MEIC Lazio di cui ho detto). Così le persone di fede, o, quelle più giovani, non ne hanno mai sentito parlare e non hanno idea di che cosa si tratti, o, quelle meno giovani, si sentono in colpa al solo parlarne. In quel triste inverno ecclesiale, un disastro prodotto con le migliori intenzioni e quindi compatibile con la fama di santità, il cattolicesimo italiano, in passato attivissimo in società tanto da aver modellato la nostra nuova democrazia e lo stesso processo di unificazione europea, fu come spento. È anche la via che è stata seguita finora dal nostro episcopato nell’organizzare i processi sinodali, nel timore che rivivessero i contrasti, indubbiamente anche molto aspri, che caratterizzarono l’effervescenza post-conciliare per un ventennio.
L’altro è che nell’epoca della globalizzazione, con il rimescolamento delle popolazioni e le contaminazioni intense tra le culture, anche grazie ai nuovi strumenti telematici, gli elementi culturali posti alla base della costruzione dei miti dei popoli-nazione si sono molto sbiaditi.
Del resto, in Europa, è stata proprio la cultura politica, basata sul pensiero sociale della pacificazione universale, portata dai cattolici e da cristiani in genere, ad aver contrastato i nazionalismi del continente, artefici delle guerre totali combattute dal 1914 al 1945.
Dunque ora, in Europa e in particolare in Europa occidentale, vi sono solo popoli a bassa intensità. E ciò è vero anche per quel particolare popolo che sarebbe il Popolo di Dio per i cattolici. Quanto a quest’ultimo, a differenza di ciò che in genere sento dire tra chi si occupa di sinodalità, la domanda di maggiore partecipazione mi pare piuttosto scarsa, anche in una parrocchia come la nostra nella quale, lo ricordo bene, negli anni Settanta era molto viva. Così si sta cercando di sinodalizzare ciò che non ha più o non ha mai avuto interesse alla sinodalità. Si viene in parrocchia prevalentemente per i servizi liturgici, formativi e assistenziali che offre, quindi come spettatori e clienti, senza pensare di impegnarvi sistematicamente proprio tempo per altro, pronti anche a sganciarsi velocemente se le pretese aumentano, se i servizi lasciano a desiderare o se da un’altra parte c’è un’offerta più allettante.
Questo spiega perché la sinodalità va pazientemente costruita espandendo progressivamente esperienze pilota avviate in campi delimitati e non calando dall’alto un modello precostituito, pretendendo di imporlo a tutte le persone come l’unico giusto. In questo campo possiamo trarre insegnamento dal fallimento del tentativo di trasformare bruscamente la parrocchia secondo un immaginifico neo-tradizionalismo comunitario tra il 1983 e il 2015. Alcune idee di quell’esperienza possono però essere ritenute valide, in quanto convalidate dall’esperienza, ad esempio quella di organizzare le nuove forme partecipative per gruppi di dimensioni limitate e quella di inquadrare il tentativo in un neo-mito adeguato, integrandovi anche la musica ed altre arti, insomma l’emotività. Altre appaiono incompatibili con la neo-sinodalità che ci si propone, ad esempio il neo-patriarcalismo, secondo il quale si ritiene insito una sorta di carisma genetico del governo nella fisiologia del maschio (idea condivisa dai clericali), per cui il maschio nasce per il governo come la donna per l’accudimento.
Mario Ardigó- Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli