Non intendersi
Francamente non penso che i processi sinodali riusciranno mai a coinvolgere tutte le persone di fede e, almeno nei primi anni, nemmeno la maggioranza di esse. I nostri vescovi misurano il lavoro da fare in anni, ma più verosimilmente, visto l’obiettivo che ci si propone, un modo più partecipato di fare Chiesa, si tratterà di alcune generazioni, vari decenni, quindi. Questo non è un buon motivo per rinunciare. Ne dipenderà la rilevanza sociale delle idealità religiose. Cioè la possibilità di influenzare la società secondo principi evangelici. Va detto che, come giustamente sostengono coloro che criticano la nostra religione, in passato quell’azione di influenza sociale è stata sfruttata prevalentemente ad altri fini, ed anche questa azione per così dire corrotta verrà esaurendosi se non si fa nulla, se si lasciano le cose andare come vanno, e sarebbe senz’altro positivo.
Al di là della propaganda clericale che buca i prodotti dei mezzi di comunicazione di massa, nelle nostre Chiese è ancora vivo il loro orrendo passato. Sinodalità non può significare cercare di conviverci.
Ad esempio sono piuttosto effervescenti correnti antisinodali, delle più varie impostazioni. Non si riuscirà mai a convincere quella gente.
Non è una soluzione appellarsi all’autorità e prima di tutto ai carismi dei vescovi.
Si può vivere tutta una vita in un certo posto, specialmente nelle città maggiori, senza neanche conoscere il cognome del proprio vescovo, posto che il nome viene proclamato a messa.
A Roma, sulla carta almeno, è vescovo il Papa, che è onnipresente in televisione e sui giornali, nonostante la lamentata secolarizzazione. Sotto questo profilo l’Italia è il Paese più clericale del mondo. Il Papa appartiene al mondo dei regnanti, che ha sempre un suo fascino, come dimostrato dalla saga della famiglia reale britannica. Ma, di fatto, nella mia vita religiosa i nostri parroci hanno avuto un’importanza molto maggiore. E, francamente, nonostante che provi a tenerlo a mente, mi continua a sfuggire come si chiama il suo Vicario, qui nella città, figuriamoci poi per gli Ausiliari. È solo burocrazia ecclesiastica e riguarda più da vicino clero e religiosi, che ne dipendono per alloggio e lavoro.
Il vescovo che mi è veramente vicino è quello che, formatosi in religione nella nostra parrocchia e dopo il suo ministero ecclesiastico in una Diocesi laziale, fattosi più anziano è tornato qui nel quartiere, nella casa di una volta, e qualche volta celebra messa in parrocchia. Una cara persona e un predicatore coinvolgente. Vice-presidente dei giovani di Ac negli anni Sessanta: nello spirito non mi pare cambiato da allora. Ora però non è più un burocrate ecclesiastico, ma vescovo solo in senso spirituale.
Una persona della mia età, che si accorge che il tempo che rimane si è fatto striminzito rispetto alle grandiose prospettive dei vent’anni, non se la sente di penare cercando di intendersi con chi vive la fede secondo certe impostazioni. Allora: ognuno per la sua strada. Già, ma come fare quando di mezzo ci sono immobili e altre risorse da condividere, e che non possono essere divise un pezzo a noi e l’altro a voi?
Si può pensare a una sinodalità vissuta, praticata, a diversi livelli di intensità. Ad un livello più superficiale potrebbe consistere semplicemente in procedure per condividere pacificamente, insomma da persone civili, ciò che non può essere separato, senza demonizzare le altre persone. Comunque la convivenza, quindi la sia pur limitata reciproca frequentazione, anche in quel modo meno profondo, può creare piano piano le basi per apprezzarsi. È per questo che i fondamentalisti cercano in genere di mantenersi separati.
Le procedure sinodali non possono essere imposte dall’esterno e dall’alto, se le si vuole efficaci. Vanno concertate e sperimentate nelle realtà sociali alle quali si vuole applicarle. Dovrebbero essere adattate ad esse, tenendo conto anche della conflittualità locale.Quindi anche modificandole sulla base dell’esperienza concreta, senza intestardirsi su ciò che non funziona. Senza pretendere di tenere a stretto contatto quelli che reciprocamente si detestano. L’importante è non vietare la sinodalità solo perché ci sono quei contrasti. Come si disse nelle polemiche ecclesiali degli anni ’80, meglio l’et et che l’aut aut, mantenere anche orientamenti contrastanti piuttosto che imporne a tutti uno solo, anche se poi il Papato costrinse a quest’ultima soluzione.
Possiamo pensare alla sinodalità come ad un movimento che si espande a partire da un nucleo iniziale, coinvolgendo progressivamente sempre più gente. Difficilmente potrà essere in breve tempo il modo ordinario di fare Chiesa, non solo per la forte presenza di correnti antisinodali della più varia impostazione, ma per il fatto che molto a lungo è stata duramente contrastata dal Papato. Ma anche perché parte dell’esperienza religiosa è costituita da concezioni visionarie estatiche o paranormali, sulle quali ad esempio sono costituiti i miti delle persone e santuari miracolanti, che fondamentalmente ripropongono forme cultuali ancestrali. La sinodalità presuppone un atteggiamento riflessivo e realistico che difficilmente si può conciliare con esse.
Ora, però, in un contesto tutto clericale, mi pare che si vorrebbe far scendere la sinodalità dall’alto costruendovi sopra una specie di liturgia, in modo da renderla inoffensiva e da inserirla nell’ideologia di comunione, che sarebbe accettare di fare tutti come viene comandato dall’alto, confidando nell’assistenza soprannaturale per chi comanda.
Nel triste lunghissimo inverno ecclesiale che si è vissuto in Italia dal 1985 al 2013 comunione, intesa in quel modo, è stata considerata l’opposto di sinodalità, e quest’ultima sospettata di indisciplina.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli