Organizzare la sinodalitá popolare
1. Il discorso sulla
sinodalitá ecclesiale ha diversi aspetti, tra i quali ci sono quelli che
interessano particolarmente clero e religiosi perché hanno a che fare con
un governo ecclesiale centrato su di loro.
In
particolare c'è la questione della sinodalitá tra vescovi, che si vorrebbe
estendere e intensificare in particolare istituendo una sistematicità di una
reale collegialità nel decidere, a partire dall'individuazione delle questioni
da porre in decisione.
E poi
quella tra chi collabora nel governo locale e il vescovo territoriale di
riferimento: qui la collegialità non c'è, perché decide tutto quest'ultimo,
anche se gli è raccomandato di ascoltare anche i suoi collaboratori
e anche altre persone a sua discrezione.
Su quei temi ci sono delicate questioni
teologiche da sviluppare, perché i principi di riferimento, ancorati anche a
veri e propri dogmi, sono stati costruiti, in un processo durato
quasi un millennio, in modo da rendere sacri, quindi
intangibili sotto pena di oltraggio contro il Cielo, l'assolutismo del
Papato romano e quello della burocrazia ecclesiastica da esso dipendente, nella
misura in cui le si mantiene soggetta.
Si ritiene, quindi, che questi assolutismi abbiano una loro verità, nel
senso che chi non accetta di assoggettarvisi è fuori, o, detto
con il feroce termine usato dalla gerarchia fino al Concilio Vaticano I, anatema.
Questo anche se, dal punto
di vista storico, non è dimostrabile in modo convincente che l'organizzazione
ecclesiastica come le generazioni oggi viventi l'hanno ricevuta dal passato
corrisponda realmente alla volontà del Maestro. Comunque, la
teologia attualmente accreditata dalla gerarchia ecclesiastica dominata dal
Papato romano ritiene che vi corrisponda e ciò mitizzandola.
I processi di mitizzazione
di persone, istituzioni, narrazioni, eventi naturali è incessante nelle società
umane, che senza miti non potrebbero sussistere. La necessità dei miti dipende
da come funziona la nostra mente, che, a sua volta, è un prodotto del nostro
organismo, che fa parte di ciò che definiamo natura.
Anche
la Bibbia in uso tra i cristiani contiene molte narrazioni mitologiche, che si
ritrovano anche nei detti attribuiti al Maestro e riportati nei Vangeli
canonici, quelli, cioè, normativi per la nostra fede. Però la Bibbia, ma in
particolare gli insegnamenti del Maestro, non è fatta solo di miti. In particolare non sono essenziali
nelle parabole evangeliche ed è anche per questo che esse sono tanto
coinvolgenti, per quanto si riferiscano a una cultura popolare tanto distante
dalla nostra.
A me,
però, interessa veramente poco la questione del chi deve comandare nella nostra Chiesa. Questo
perché le leggi democratiche preservano la mia coscienza dalla violenza
politica e anche solo morale che in passato è stata storicamente impiegata per imporre alla
gente un certo assetto di potere ecclesiastico.
Certamente l’organizzazione ecclesiastica com’è ora è obsoleta, così
come i miti sulla base dei quali è stata sacralizzata. Ma, è legge delle
dinamiche sociali, se non verrà trasformata cadrà, inesorabilmente, e non è necessario che una persona laica si dia
tanta pena, ora, per cercare di cambiarla, entrando in conflitto con la
gerarchia. Del resto anche quest’ultima si è ben resa conto del problema e
qualcosa, così, sarà fatto.
Penso
però che a noi persone laiche dovrebbe interessare un altro campo della
sinodalità, quella popolare, o universale nel senso di totale.
In questo campo possiamo dare un grande contributo, perché, a teologia di corte
immutata, possiamo sperimentare nuovi modi, più partecipati e
responsabili per vivere collettivamente la fede. Poi, se si avrà successo, la teologia spiegherà
com’è avvenuto. La teologia viene sempre dopo. Cambia, certamente, ma
per ultima.
Possiamo
considerare precursori dei teologi gli scribi dell’antica Giudea al tempo del
Maestro e si sa che considerazione ne avesse. Naturalmente all’epoca la
teologia non era ancora una scienza: assunse quest’assetto più o meno dal
Duecento. Da allora fu protagonista di riforme e controriforme nelle quali fu
impiegata una incredibile violenza, ma nella culture del passato, respirate anche dalle teologie, questo non faceva
scandalo. Sotto questo profilo l’epoca nostra è veramente nuova.
2. Non abbiamo ancora, veramente, un modo per
definire ciò che vorremmo realizzare, vale a dire una convivenza pacificata su
piccola, grande e grandissima scala, fino a comprendere tutto il mondo, travolgendone e superandone le attuali
divisioni, che spieghiamo su basi mitologiche ricevute dal passato.
Fratellanza, amicizia?
In un libro pubblicato l’anno scorso, Friends,
e disponibile anche in traduzione
italiana con il titolo di Amici, in edizione cartacea e in e-book, edito
da Einaudi, l’antropologo britannico Robin Dunbar, sulla base di test psicologici,
descrive alcune importanti caratteristiche della socialità umana. La principale
è di essere confinata in piccole cerchie. La vita di relazione degli esseri
umani veramente significativa si svolge entro una cerchia di una trentina di
persone, comprese le relazioni che indichiamo con il termine di amicizia.
Questo dipende da com’è fatta e come funziona la nostra mente e questo limite è
insuperabile. La fratellanza universale, così come l’amicizia universale, non sono realmente alla nostra portata, anche
se lo sono nel mito. Quando ad esempio parliamo di popolo e di nazione, utilizziamo dei miti.
La costruzione
culturale dei miti degli stati-nazione
europei è descritta con molta efficacia nel libro dello storico britannico
Eric Hobsbawn Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma, mito, realtà,
del 1990, edito in traduzione italiana da Einaudi, ancora disponibile in commercio.
La
crisi della nostra Chiesa, come in genere delle Chiese cristiane dell’Europa
occidentale, può essere spiegata con il venir meno di miti religiosi in grado
di sorreggere la socialità nuova che ci serve, e che in particolare l’Unione
europea stava cercando di sorreggere con il suo ordinamento giuridico. E’ legge
sociale che ciò che non serve o non funziona più venga abbandonato.
Il
problema è sensibile anche su scala minore, come quella di una parrocchia come
la nostra, San Clemente papa ai Prati fiscali, che riveste ancora una importanza
relazionale effettiva, non solo mitica, per circa un migliaio di persone.
Questo è il numero delle persone di fede che vediamo di solito insieme a noi in
chiesa nel nostro quartiere candidate alla trasformazione sinodale. Poiché vanno
in chiesa, entrano in relazione, ma
vi entrano secondo le possibilità naturali degli esseri umani, quindi formando
piccole cerchie. Queste dimensioni però non ci soddisfano più. La questione
della sinodalità sta proprio qui,
in questa insoddisfazione.
I
preti, nel loro lungo percorso formativo, frequentano insegnamenti che
riguardano la dinamica dei piccoli gruppi, vale a dire di quelle cerchie
ristrette in cui si sviluppano le relazioni più significative, in modo da
valersene per inculturare meglio, nel profondo dell’interiorità, la dottrina,
vale a dire le direttive secondo le quali si vorrebbe che la gente praticasse
la fede. In passato i preti italiani,
in particolare dall’Ottocento, ad esempio ricordo il prete piemontese Vicenzo
Gioberti (1801-1852), svilupparono anche una capacità prettamente politica
di organizzazione sociale, fino ad essere protagonisti nella costruzione culturale
di un partito cristiano, che, in
varie fasi storiche, ma in particolare dal 1946 al 1994, fu determinante.
Tuttavia ai preti, che io sappia, non viene insegnato a praticare e gestire la sinodalità,
e in particolare a organizzare sinodalmente le comunità di base a loro affidate.
Al centro della loro mentalità e dei loro interessi, su questa scala si vedono
impegnati a rendere servizi religiosi e caritativi. Quindi poi organizzano,
ad esempio, le parrocchie come aziende, come un complesso di beni e di
persone che si dedicano a quei servizi.
Si pensa poi che essi cambino le
persone inculcando la dottrina. Anche, ad esempio, l’idea della comunità
ospedale da campo, che è tipica del pensiero di papa Francesco, rientra
in questo schema.
In
questo quadro la gente che va in
chiesa è vista come un gruppo di clienti di quei servizi religiosi. La liturgia è
quello principale. Vi si va per ascoltare, rispondere a tono secondo certi copioni, che ciclicamente si
ripetono, e partecipare a riti, spiegati con narrazioni ricche di
mitologia in modo da renderli comprensibili a tutte le persone che vengono. Non
esiste una reale partecipazione e
una reale responsabilità di chi
vive la religiosità da cliente.
L’idea
della partecipazione come servizio è profondamente radicata nella cultura religiosa
popolare ed è modellata sulla mentalità del prete. La mentalità di servizio consente al prete di superare le piccole
cerchie in cui principalmente si svolge la sua relazionalità. E lo rende anche
riconoscibile all’esterno e anche apprezzato. Intorno a questo schema dell’attività
del prete si costruisce poi un mito del prete anche un modello di santità, vale a
dire di religiosità che si vuole esemplare.
Così
quando ci si trova in chiesa al di fuori dei momenti liturgici, quindi dei
riti in cui si è semplici comparse, e ci
si pone la questione del che fare insieme, o si pensa al modello del piccolo
gruppo di indottrinamento e allora ci vuole un prete a indottrinare, o ci
si immagina a rendere un servizio e fatalmente si pensa a quelli svolti dai
preti e si cerca quindi di aggregarsi come ausiliari.
La sinodalità
popolare come quella che si
intravvede nel magistero, ad esempio, di papa Francesco potrebbe essere anche
altro, anche se poi anche il Papa, al dunque, dà indicazioni operative nel
senso del servizio. Invita a superare una forma di religiosità basata
solo sulle proprie esigenze, sul tipo dei piccoli gruppi di autocoscienza in
cui lo sguardo è tutto diretto verso l’interno, verso sé stessi e verso la
propria interiorità. Ma manca la visione politica che è costruzione sociale. E’ una
visione sostanzialmente clericale, perché il Papa è un prete: la sua piccola
cerchia di mondo vitale è confinata in quell’ambito,
anche se cerca di evaderne. La nuova sinodalità che serve non solo alla nostra
Chiesa ma anche al mondo intero richiede perciò un ruolo più attivo di noi persone
laiche.
Vivere
la fede è già importante a
prescindere da un servizio e dall’autocoscienza
collettiva religiosa. E non si esaurisce nei momenti liturgici. La famiglia
è, ad esempio, per noi persone laiche il modo principale di vivere la fede, ma è un modo da piccola
cerchia. Il praticare una forma pacificata di socialità, non rinchiusa
nella piccola scala, ma aperta al mondo intorno e tendenzialmente espansiva,
vale a dire costruire un sistema
di relazioni familiari, sociali ecc. che cerchi di superare la violenza su ogni
scala, ma anche l’indifferenza che solitamente guida le relazioni al di fuori
delle piccole cerchie di riferimento, è
un’esperienza religiosa di nuova sinodalità, di sinodalità totale,
tutta in definitiva da inventare, non riconducibile alla fraternità, né all’amicalità, se non in un senso
analogico, perché non ci sono ancora le parole per definirla. Questa è la
vera sfida della sinodalità come
viene proposta quando la si pensa per tutte le persone.
E’ una
sfida perché le tradizioni del
passato e anche quella della nostra Chiesa portano ad associarsi delimitando
e quindi a tracciare confini entro cui raggrupparsi intorno a miti fondativi. Fu questa anche la
dinamica del nostro irredentismo nazionalista, al tempo del nostro Risorgimento:
pensarsi popolo distinguendosi
dagli altri popoli. Certo, poi, in uno come Giuseppe Mazzini c’era
indubbiamente anche l’idea di una socialità su scala più grande, l’idea di una Giovane
Europa, oltre che Giovane Italia, ma comunque legata alla violenza
politica che, intorno al mito della nazione, insanguinò le nostre popolazioni e quelle intorno
nel processo di unificazione nazionale.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli