I Cantieri di Betania – 4 -
«Il carattere laboratoriale ed esperienziale dei cantieri potrà integrare il metodo della “conversazione spirituale” e aprire il Cammino sinodale anche a coloro che non sono stati coinvolti nel primo anno.
Quella del cantiere è un’immagine che indica la necessità di un lavoro che duri nel tempo, che non si limiti all’organizzazione di eventi, ma punti alla realizzazione di percorsi di ascolto ed esperienze di sinodalità vissuta, la cui rilettura sia punto di partenza per la successiva fase sapienziale.» [Dal documento della CEI I Cantieri di Betania, nel paragrafo “Un incontro lungo il cammino”]
Nel documento della CEI I Cantieri di Betania le cose importanti non sono evidenziate, poste in risalto. È lo stile curiale. Si vuole rendere un’immagine di continuità proprio quando si sta cambiando ciò che s’era fatto prima e che non aveva funzionato. Ad una lettura superficiale, qual è quella della maggior parte delle persone, funziona. La produzione di documenti ecclesiastici è imponente ma i lettori sono pochi e i non addetti ai lavori non sono abituati a scandagliarli per capirne il senso profondo.
Dal maggio di quest’anno è cambiato il Presidente della Conferenza episcopale italiana, il quale nel luglio successivo ha diffuso il documento I Cantieri di Betania. In esso si scrive con toni entusiastici del primo anno del processo (Cammino) delle Chiese in Italia, aperto nel maggio dell’anno precedente, ma poi si riferisce francamente che ha coinvolto una esigua minoranza, fatta di addetti ai lavori, dalle equipe pastorali in su. Quindi si è deciso di correggere il metodo di lavoro. Da qui l’idea dei cantieri. Un cambio di rotta che è con tutta evidenza collegato al cambio al vertice della CEI, che è stato disposto dal Papa. Uno dei primi e più rilevanti atti del nuovo vertice è stato il documenti sui Cantieri. Il Papa, dunque, non è stato soddisfatto di ciò che s’è fatto nel primo anno del processo sinodale.
Con l’immagine evangelica dell’incontro con Marta si è posto l’accento sulla scelta della parte migliore, che è quella di una diaconia rivalutata, molto più partecipativa e riflessiva e orientata alla sequela. Certamente il metodo della conversazione spirituale, apparentemente magnificato nel documento, non la realizza e quindi gli si vuole affiancare altro, appunto il cantiere.
La conversazione spirituale è quando, incontrandosi, ogni persona che partecipa dice che cosa ha in mente sul tema in discussione e poi si prega, senza discussione, senza dialogo. L’assemblea non decide nulla. Il resoconto è fatto da chi ha il compito di prendere appunti e poi è consegnato, per via gerarchica, a chi accentra il potere di trarne le conclusioni, adottando anche delle decisioni. Mancando il confronto, non si litiga. Le divisioni restano, ma rimangono irrisolte, perché non si tenta una mediazione tra le diverse posizioni. L’intesa è che poi si accetterà docilmente ciò che deciderà il gerarca. È però, in genere, un’intesa ipocrita, perché nessuno pensa veramente di adeguarvisi. La pace apparente delle corti ecclesiastiche è fondata sull’ ipocrisia.
Il metodo dei cantieri è diverso. Si scrive che integrerà quello della conversazione spirituale e, pertanto, appunto, è diverso.
Il punto importante è la sinodalità vissuta, vale a dire messa in pratica. Si vuole che se ne faccia esperienza, come in un laboratorio. Si scrive infatti di un «carattere laboratoriale ed esperienziale dei cantieri».
In laboratorio si ricerca sperimentando. Si prova a fare vedendo che succede e ci si corregge sulla base dell’esperienza. Questo implica delle scelte e, trattandosi di lavorare sull’organizzazione di una collettività, questo è il campo della sinodalità, deve trattarsi di scelte collettive. Lo scopo è di allargare le cerchie delle persone coinvolte, in particolare di«coloro che non sono stati coinvolti nel primo anno». Il metodo della conversazione spirituale ha scoraggiato la partecipazione. Si è capito che non sarebbe cambiato nulla, che sarebbe stato tempo perso. Si è partecipato, per così dire, per dovere d’ufficio.
Dalla sinodalità praticata dovrebbe scaturire una fase sapienziale. Che cosa sarà mai? Penso che si tratti di riflettere sull’esperienza vissuta, ma chi debba farlo e in quale sede resta imprecisato. Se a ragionare dovessero essere solo i gerarchi e gli specialisti sarebbe la negazione della sinodalità.
Nel trafiletto che segue il passo del documento che ho trascritto all’inizio sembra che si mettano però le mani avanti:
È utile ribadire che questo resta un tempo di ascolto e non di letture sistematiche e di risposte pastorali, a cui saranno invece dedicate le successive fasi, sapienziale e profetica. È certo un ascolto “orientato”, per poter raccogliere narrazioni utili a proseguire il cammino; un ascolto che si fa riflessione, in una circolarità feconda tra esperienza e pensiero che comincia ad acquisire gli strumenti con cui costruire le novità chieste dallo Spirito.
Qui sembra cambiato l’autore del documento. Niente più laboratorio con carattere esperienziale, niente più sinodalità vissuta, si ritorna al semplice ascolto del primo anno, non si deve decidere nulla, lo si farà in sede sapienziale e profetica, qualunque cosa e chiunque ci sia dietro questa espressione criptata in puro ecclesialese. È pur vero che si scrive di «ascolto che si fa riflessione, in una circolarità feconda tra esperienza e pensiero», cioè che si potrà ragionare anche mentre si fa esperienza di sinodalità praticata. Aggrappiamoci a questo.
Ma davvero tutto ciò è uscito dal lavoro fatto nel primo anno? Tutti questi contorcimenti curiali, questo dire-non dire, dire e poi dire anche il contrario. Un passo avanti e uno indietro.
Il carattere verticistico del documento emerge dal resoconto della sua elaborazione contenuto nel paragrafo “Uno sguardo al primo anno”:
Ciascuna diocesi ha trasmesso alla Segreteria Generale della CEI una sintesi di una decina di pagine.
I referenti diocesani si sono incontrati alcune volte online e due volte in presenza a Roma: dal 18 al 19 marzo e dal 13 al 15 maggio.
Quest’ultimo appuntamento residenziale, con la partecipazione dei Vescovi rappresentanti delle Conferenze Episcopali Regionali, ha permesso di stendere una prima sintesi nazionale, detta “Testo di servizio”, articolata intorno a “dieci nuclei”; successivamente, durante la 76ª Assemblea Generale della CEI (23-27 maggio), alla quale hanno preso parte, nelle giornate del 24 e 25 maggio, 32 referenti diocesani, cioè due per ogni Regione ecclesiastica, si è ulteriormente riflettuto, in modo sinodale, arrivando a definire alcune priorità sulle quali concentrare il secondo anno di ascolto.
Nessuna partecipazione popolare a quelle scelte. Non sono previste procedure per realizzarla, che assomiglierebbero troppo alla tanto deprecata democrazia. “La Chiesa non è una democrazia” dicono quelli del partito anti-sinodale, e, purtroppo, è ancora effettivamente così. È di questo che le nostre Chiese stanno annichilendosi, riducendosi più che altro a organizzazioni per pittoreschi eventi liturgici.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli