Vigilia di Natale 2022
Ogni anno, ormai da molto tempo, scrivo qualche pensiero per Natale per amici, parenti e anche per le tante persone che mi leggono ma che non conosco ancora. Ho sessantacinque anni e mi rendo conto che questo, fatto da un anziano, è diventato una forma di magistero. Rendo ragione della mia vita di fede, che non è più scontata nella società nella quale mi trovo: un compito molto serio e che va molto oltre gli auguri per le festività, dei convenevoli di rito.
La mia fede è stata profondamente segnata dalla mia vita, non è più quella stilizzata nei catechismi correnti, i quali, del resto, sono progettati per dare solo una prima idea di riti e concezioni collettivi. Servono certamente, ma la fede di una persona non si riduce mai solo a quello. E mi pare vero, corrisponde alla mia esperienza, che si diffonde da persona a persona, che sia quindi un evento relazionale, non basta leggerne o sentirne parlare da lontano. Di questo ogni persona è direttamente responsabile, innanzi tutto verso la prole, ma poi anche con la gente intorno. In particolare le persone più anziane, perché nelle questioni di senso è a loro che si rivolgono quelle più giovani. La persona che riceve vive il ricevere come luce. Questo è curioso, perché chi dà, e dando tramanda, se vive la fede in modo consapevole si sente nell’oscurità. Nella mistica lo si è descritto come un avanzare in una notte oscura.
Il Natale, dai cristiani, viene vissuto, appunto, come luce che splende nelle tenebre. Storicamente impararono a festeggiare da chi c’era prima di loro.
Così, di questi tempi compaiono di solito tanti articoli di giornale che raccontano il Natale prima del Natale (è il titolo dato a un interessante articolo di Maurizio Bettini pubblicato su La Repubblica di ieri).
Nella Roma antica di questi tempi si festeggiava infatti in modi simili ai nostri, anche se con diversi riferimenti mitologici. Queste feste non le inventarono quindi i cristiani, il Natale prima del Natale insomma.
Quindi non sono tanto d’accordo con chi dice che, senza il riferimento alla teologia cristiana del Natale, non c’è il Natale, inteso come festa centrata su luce e speranza.
Certamente, però, i cristiani inventarono il Natale, quando inventarono la cristologia.
Quest’ultima è una grandiosa concezione che, a partire dall’idea dell’antico giudaismo di Messia (Cristo, dal greco antico, traduce appunto la parola Messia, che ci viene dall’antico ebraico), come unto, vale a dire incaricato dal Cielo di salvare il popolo, unifica il senso della natura, quindi dell’universo intero, e delle società umane nel segno della salvezza universale, liberando natura e vita sociale dall’insensatezza.
Lo sviluppo della cristologia fu molto precoce nelle nostre comunità delle origini, e la troviamo tratteggiata già in uno degli scritti della Bibbia cristiana attribuiti a Paolo di Tarso, la Lettera ai romani, scritta in greco antico ai cristiani di Roma, si pensa tra l’anno 57 e il 58 a Corinto, in Grecia, sede di un’effervescente comunità.
Ma il processo culturale di organizzazione della cristologia si prolungò sino al Settimo secolo, con una fase importantissima nel Quarto, nel contesto di una spettacolare riforma della struttura dell’antico impero romano, che ne trasferì il centro propulsivo a Bisanzio\Costantinopoli, in Tracia, dove oggi c’è Istanbul, una delle maggiori città europee, ma politicamente inclusa nell’attuale Turchia. In quella città o nei dintorni si svolsero tutti i Concili ecumenici del Primo millennio.
Ho letto che in genere si ritiene che la festa del Natale, come celebrazione della nascita di Gesù di Nazaret, il Cristo della cristologia, si sia diffusa a partire dalla città di Roma della metà del Quarto secolo. Non se ne hanno testimonianze in epoche precedenti.
Il primo concilio ecumenico, dedicato alla cristologia, si svolse nell’estate del 325 a Nicea, appunto nel Quarto secolo, nel settentrione dell’antica Asia Minore, l’attuale Turchia.
Uno degli snodi teologici fondamentali affrontati fu quello dell’Incarnazione, del farsi realmente uomo del Cristo, evento che è celebrato nella festa del Natale cristiano: nacque colui che si era incarnato. L’altro fu il riconoscere che il Cristo, il Figlio, è della stessa sostanza (ὁμοούσιος, si legge omoùsios) del Padre, che significa divinizzarlo in un modo molto intenso.
La questione era molto controversa all’epoca e anche in quello stesso Concilio (e lo rimase a lungo). Le polemiche sconcertarono l’imperatore, Costantino I, il quale per porvi fine indisse quel Concilio, presiedendone in forma solenne l’apertura.
Scrisse l’autorevolissimo studioso di storia del Cristianesimo Manlio Simonetti, dell’Università romana La Sapienza, nella voce Il concilio dell’Enciclopedia Costantiniana Treccani:
https://www.treccani.it/enciclopedia/il-concilio_%28Enciclopedia-Costantiniana%29/
L’atteggiamento di Costantino è quello di chi, familiarizzato con i culti pagani tradizionali, che mai avevano alimentato contrasti dottrinali, e con il modo di discutere nelle scuole di filosofia, non si capacita che si possa litigare con tanta passionalità intorno a questioni che a lui apparivano di secondaria importanza. L’intolleranza in ambito religioso era allora una novità, già amara e destinata a diventarlo sempre di più.
Per altro, i contrasti teologici tra i partecipanti al Concilio apparvero irriducibili e, allora, scrisse Simonetti in quel testo, «il fatto certo è che, per mettere in difficoltà i sostenitori di Ario [un prete africano, protetto da Eusebio di Cesarea, al cui pensiero si richiamavano molti dei partecipanti al Concilio], viene proposta l’affermazione, priva di ogni supporto scritturistico, che il Figlio è della stessa sostanza (ὁμοούσιος) del Padre. Ignoto in Occidente, homoousios aveva alle spalle una non lunga storia in Oriente […] Secondo il racconto di Eusebio [di Cesarea], proprio Costantino avrebbe imposto al concilio riluttante l’adozione di questo ambiguo termine; ma dato che l’imperatore capiva ben poco della questione, è evidente che altri lo avevano consigliato».
Nella festa del Natale i cristiani, anche chi come me non è in grado di avere piena consapevolezza dei sofisticati risvolti di quella cristologia, celebrano, con la mediazione dell’immaginifica narrazione inserita nel Vangelo secondo Luca, la grande intensità della speranza di salvezza che da quella cristologia consegue. Si rinuncia ad attendersela dai capricciosi e crudeli dei della precedente antichità greco-romana e da ogni altra potenza soprannaturale ad essi simile, compresa la insensata dea fortuna, ancora in gran auge ai nostri tempi.
Il Cielo è sceso tra noi, perché ci è nato un bimbo, quel bimbo, e così è stata annullata la separazione tra noi e il lassù. È stata aperta una via, che richiede di agire. L’azione fondamentale è la sequela. Ci orientiamo in questo secondo la vita del Maestro, ecco perché abbiamo sempre tra le mani i Vangeli. Lo si segue, ci hanno insegnato, facendo la sua volontà: l’agàpe, l’unità solidale, sollecita e misericordiosa, l’ammaestrare, cioè diffondere il suo insegnamento, il battezzare, vale a dire l’includere in lui. Nell’insieme, una costruzione sociale nel suo nome. Ecco perché trovo molto bella l’immagine del cantiere ora utilizzata dai nostri vescovi per descrivere le attività sinodali di quest’anno.
Spesso sento dire, superficialmente, che, con il Natale, abbiamo cristianizzato feste precedenti. Non si è trattato solo di questo, ma di qualcosa di molto più complesso. Diciamo così: con la cristologia, che è elaborazione concettuale, culturale, si è venuti incontro ad attese molto diffuse nel mondo antico. In un certo senso ci è stata dettata da esso. Come, alle origini, a lungo non si sentì l’esigenza di festeggiare il Natale, perché non c’era ancora quella di spiegare alla gente intorno la cristologia che poi gli fu associata, e nemmeno si sapeva come festeggiarlo, così, poi, i cristiani lo impararono dalla cultura della gente intorno, in cui erano immersi, che, quindi, possiamo considerare come gravida del Natale, perché quella cristologia veniva incontro alle sue attese. La gente intorno, ora come allora, come sempre, è molto importante. C’era intorno, e c’è ancora, un’attesa che ha creato la festa del Natale. Nel Quarto secolo nelle culture mediterranee ci fu uno stupefacente rimescolamento, con una conseguente richiesta di senso, un po’ come accade ai nostri tempi. Di solito di questo non se ne manifesta consapevolezza nella predicazione, mentre più spesso ci si lascia andare a recriminazioni contro i pagani del tempo, considerati incolti e irreligiosi, quali in effetti non erano. Lo dimostrano le vestigia dei loro grandi e splendidi templi. E, per la verità, noi abbiamo imparato da loro a costruirli.
Mi dà fastidio quando si usa il termine pagani in senso dispregiativo, nel senso di non cristiani. Ci viene dal latino e, nelle versioni in quella lingua dei Vangeli, traduceva il termine greco che significa genti, nel senso di non giudeo, nei detti del Maestro. Senza gli apporti delle genti non ci sarebbero stati i cristianesimi.
Il Natale, come festa cristiana, è stato essenzialmente proprio un prodotto delle genti, per questo è diventato universale fino ai tempi nostri. E lo è rimasto.
Benché abbia dietro una teologia molto complessa, che anche oggi presenta problemi, come è stato anche per tutto il Secondo millennio, il Natale se ne è presto emancipato finendo nelle mani dei popoli cristiani (e ora anche di tante altre popolazioni), da cui poi le tante sue tradizioni, espressioni delle loro speranze.
Perché, come è stato scritto da molti, la persona umana è colei che sa sperare. E tutte le genti sanno farlo, benché i tempi ciclicamente le inducano alla disperazione.
Che anche questo sia un Natale di speranza per tutte le genti del mondo, nonostante tempi disperati e la perfidia dei despoti e dei signori della guerra.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli