Dinamiche di gruppo
La prima volta che sentii parlare di dinamica
di gruppo fu da mia madre, quando frequentava il corso di laurea in Scienze
dell’educazione nell’Università dei
salesiani che abbiamo qui vicino a noi. Mi appropriai del suo libro di testo, Dinamica
di gruppo, scritto da Gennaro Luce, operatore salesiano specializzato in Scienze
dell’educazione dai salesiani, pubblicato da LMS – Lega missionaria
studenti nel 1977.
Non molto tempo dopo ne sentii parlare da mio
zio Achille, che stava scrivendo il suo Crisi di governabilità e mondi
vitali, che uscì nel 1980.
A mia madre insegnarono come animare un
gruppo. Negli anni ’70 in Italia si progettò il rinnovamento della catechesi,
che prima di allora riguardava essenzialmente i bambini di elementari e medie e
si faceva come in una classe scolastica. In particolare per la catechesi degli
adulti, a cui mia madre voleva dedicarsi particolarmente, si capì l’importanza
di svilupparla in un gruppo attivo, non semplicemente ricettivo. Naturalmente,
quando in parrocchia si vide che mia madre voleva mettere in pratica ciò che
aveva appreso dai salesiani, il parroco le revocò l’incarico di catechista. Non
gliene voglio, anche se la fece soffrire molto; era in fondo un uomo buono anche
se piuttosto autoritario con i bambini; si trovava più tranquillo a fare come
s’era sempre fatto. Del resto ci ha messo la vita per insegnarci la fede, cosa
in cui io non mi ci sono nemmeno provato, salvo che con le mie figlie. Era incastrato in un congegno clericale che ha fatto molto soffrire, pur volendo (in genere) fare il bene. E anche mia madre capì di trovarsi nella stessa condizione, accettò quella sofferenza e cambiò campo d'impegno. Senz'altro la parrocchia perse un'importante opportunità. Nella nostra Chiesa lo spreco di quelle che l'aziendalistica chiama risorse umane è la norma.
Mio zio Achille mi raccontava delle
esperienze di terapia di gruppo che erano state organizzate per i reduci di
guerra statunitensi, che riuscivano meglio nei piccoli gruppi e che
richiedevano di capirne le dinamiche, per cui esse erano state studiate
scientificamente. E poi anche degli studi e pratiche fatti sempre negli Stati
Uniti per migliorare l’efficienza degli equipaggi dei bombardieri, che dovevano
lavorare a lungo insieme in situazioni molto stressanti. Vi trovò la conferma
sperimentale sotto il profilo della psicologia delle convinzioni raggiunte in
sociologia sull’importanza dei piccoli gruppi per dare senso alla vita
personale, con rilessi sulle dinamiche dell’intera società. Per queste piccole
realtà motivanti adottò l’espressione di mondi vitali e individuò una
delle principali cause della sfiducia nella politica dell’epoca, con
conseguente crisi di governabilità, nella decadenza di qui mondi vitali,
che, dando senso, creavano anche un’etica condivisa. Il consenso che una volta
era dato in virtù di quelle dinamiche di mondo vitale doveva invece essere
comprato, a prezzo sempre più caro, per ottenere, nel quadro di un consociativismo,
il sostegno dei vari gruppi sociali, chiusi in cieco corporativismo
rivendicativo.
Gli studi dell’antropologo inglese Robin
Dunbar, del quale sto leggendo il suo Amici, da poco pubblicato a
Londra, vanno in quello stesso senso.
Confermano in particolare le osservazioni
degli psicologi cognitivi secondo le quali, per come è fatta la nostra mente,
siamo incapaci di pensare la moltitudine se non adottandone immagini
semplificanti, stereotipi, miti e, in questo pensare, mettiamo molta della
nostra emotività. La nostra, secondo il premio Nobel Daniel Kahneman, che fu
premiato per le sue osservazioni su come si arriva a prendere decisioni nella
vita, in particolare nelle scelte di impatto economico, è una mente emotiva.
Quei limiti cognitivi, così condizionati dall’emotività, ci confinano in
piccoli gruppi.
Da qualche anno si ripete in politica
l’espressione cerchio magico, che è quel piccolo gruppo, caratterizzato
da rapporti amicali ed intimi, che circonda le persone potenti e a cui esse
fanno principale riferimento quando devono decidere qualcosa. La nostra vita
scorre sempre in un teatro di piccoli gruppi e di tutto il resto abbiamo
un’immagine approssimativa, sfumata, che rimane nell’indistinto salvo che
decidiamo di puntarvi la nostra attenzione.
Questo comporta che la politica, la
costruzione e il governo delle società, ogni tipo di politica, anche la
politica di massa, ha sempre come
archetipo il piccolo gruppo, la si impara e sperimenta solo lì. A
partire dalla piccola dimensione, mediante miti, simboli, norme e procedure la
società viene poi ordinata e può riguardare i milioni e i miliardi di persone, ciascuna delle quali
rimane però confinata in un teatro sociale molto piccolo. Certo, nel governo
delle società ci si aiuta con la statistica, ed essa è divenuta molto
sofisticata e capaci di misurazioni molto precise e affidabili, ma essa rimanda
solo un’immagine di dinamiche sociali complesse, che però sfuggono alla nostra
mente.
Sulla scala della moltitudine non ci è
possibile avere relazioni personali significative. Di solito faccio questo esempio:
quando andiamo in udienza dal Papa, noi lo comprendiamo, perché è una sola
persona, lui ci vede solo come una folla indistinta, salvo che per le persone
che gli rimangono molto vicine o che gli si avvicinano. Una relazione di può
essere solo con esse, anche se tutti gli altri immaginano di averla avuta anche loro, ma non è così,
perché non c’è stata reciprocità e, senza di essa, non c’è gruppo e tanto meno
gruppo di mondo vitale. Questo anche se l’udienza dal Papa è un evento molto
coinvolgente dal punto di vista emotivo e lascia una traccia duratura nella
memoria. Quando da piccolo mi portavano a piazza San Pietro la domenica quando
si affaccia il Papa, vedevo solo un puntino bianco contornato da una finestra
nel palazzone che sovrastava la piazza, e naturalmente sentivo la voce del
Papa, ma tornavo a casa convinto di essere entrato in relazione con lui. Ma, in
realtà, non sarei stato in grado di riconoscerlo e tanto meno lui me. Relazione tra me e il Papa non c'era stata, anche se entrambi immaginavamo di averla avuta, pur non essendo in grado di riconoscerci reciprocamente se ci fossimo incontrati da vicino.
Secondo Dunbar sono circa 150 le relazioni
significative che la nostra mente ci consente, in totale. C’è un continuo
rimescolamento in questi 150, perché con il tempo e il cambiare delle
situazioni persone nuove vi sono comprese ed altre escono. In questi 150 ci
sono i parenti, gli altri con cui entriamo in relazione quotidianamente, e poi
tutto il resto, quindi la gente del circolo politico che frequentiamo, gli
amici del calcetto, quelli della parrocchia ecc.
La capacità di attrazione sociale di un
gruppo di nuova formazione dipende dalla quantità di legami liberi che i suoi
membri complessivamente hanno, tenendo conto che una parte di quei legami
vengono impegnati nelle relazione con i
membri già presenti nel gruppo, oltre ai legami già occupati in altre cerchie. Se entra in un gruppo di una trentina di
persone, probabilmente un adulto si troverà di fronte ad una immediata
saturazione, per cui non riuscirà ad entrare in vere relazioni con tutti gli altri partecipanti, ma solo con una parte
di essi. Per un adolescente che va a
scuola, e che quindi ha intorno tante nuove persone, probabilmente la
saturazione verrà prima.
Noi, con le migliori intenzioni, possiamo
invitare gente nuova ad aderire ad un gruppo, ad esempio al nostro gruppo
parrocchiale di Azione Cattolica, ma bisogna vedere se i membri già esistenti
al suo interno hanno spazio sufficiente per nuovi legami, e anche voglia di
stringerli (crescendo con l’età essa diminuisce, per riprendere poi nell’età
più anziana, quando però è la nostra attrattiva personale che crolla).
Quando ho scritto che l’archetipo della
politica è nel piccolo gruppo, che quindi le decisioni politiche vi fanno sempre
riferimento, non basta per decidersi
leggere o esporsi ai media o alle reti sociali, ho sottinteso che
lì troviamo non solo le opportunità ma anche le difficoltà. L’intercomunicazione
psicologia e l’interazione sociale non sono sempre facili, perché nel piccolo
gruppo emerge prepotente la personalità di ciascuno e in genere ne scaturiscono
attriti più o meno seri, fino a che non si raggiunga un certo ordine, senza il
quale non è possibile raggiungere fini comuni
e che quindi è desiderato. Ma, anche quando si arrivi a quel punto, non
è detto che vada a finire bene, come accade nei gruppi criminali, in cui in
genere, emerge un gruppo di comando che domina con la violenza e la sopraffazione
e dirige il gruppo a cooperare a frodi, furti, rapine e via dicendo. E’ il
problema dei leaders dispotici, come non di rado sono i capi carismatici delle comunità religiose. Gli psicologici distinguono il capo, la persona alla quale una norma sociale
attribuisce un’autorità, dal leader, che è la persona alla quale il
gruppo riconosce credibilità, conquistata con la persuasione, l’esempio, la
capacità di sacrificio altruistico o altre caratteristiche personali. Osservano
che non ogni capo è anche un leader,
anche se dovrebbe esserlo per una efficace direzione del gruppo.
La cosiddetta buona educazione, il galateo
istituzionale, di solito è riservato al gruppi maggiori, che per quelle
loro dimensioni non possono avere caratteristiche di mondo vitale. In un
piccolo gruppo si usa un linguaggio libero e modi più disinvolti e informali;
facilmente si possono creare dinamiche di aggressione, sopraffazione,
emarginazione ed esclusione. Poiché però si crea anche una certa interdipendenza
personale, perché si si appoggia gli uni agli altri, tra le persone che vi sono
coinvolte i rancori possono essere risolti, scuse vengono chieste e accettate.
Per le persone che non sono legate da questo legame più forte è però diverso,
il livello di sopportazione nei loro confronti è basso e, in caso di loro
dissenso, se creano problemi, si indica loro la porta.
Insomma, un piccolo gruppo può diventare un
laboratorio politico, come anche di evangelizzazione, con effetti di mondo
vitale, ma bisogna mettere nel conto
delle difficoltà, che ai tempi nostri siamo meno pronti ad affrontare perché le
dinamiche sociali ci portano in genere a relazioni meno intime, come quelle che
si hanno mediante le reti sociali. O perché, semplicemente, siamo più anziani,
e il nostro mondo sociale si è ristretto, come, appunto, accade agli anziani,
per vari motivi, non da ultimo un certo inevitabile decadimento fisico.
E’ facile pensare a un piccolo gruppo
di mondo vitale, molto meno realizzarlo, come ben sanno gli educatori che
ci provano. Senza questa struttura di
base, teniamone conto, non si può avere una vera esperienza politica, di costruzione e governo
di una società. Non potendone fare tirocinio, non si impara la politica, l’arte
di promuovere decisioni collettive, e si rimarrà semplici elettori, persone
che tracciano segni su schede e poi la finiscono lì, soggette alle tecniche
manipolatorie della psicologia
collettiva che disinvoltamente oggi vengono esercitate da chi ambisce a un
qualsiasi potere politico, che, in democrazia, richiede di accattivarsi
l’elettore perché tracci quei segni sulle schede. Questa procedura non
esaurisce, naturalmente, la politica.
Quando parliamo, come ora, di processo
sinodale alludiamo a un processo propriamente politico, nel senso che ho
precisato, specialmente quando si ha di mira una riforma. Se lo si vuole
diffuso, quindi che vada oltre le intese che si raggiungono tra i cerchi
magici, occorre praticarlo a partire da piccoli gruppi di mondo vitale,
che in genere devono essere costituiti, perché non ci sono, o riformati, perché
in salute malferma. Questo andrebbe fatto fin dalla prima formazione religiosa
che si fa in parrocchia, quando i bambini cominciano, nei gruppi extrafamiliari, ad avere le prime
esperienze politiche, a cominciare da quelle che fanno nei giochi
spontaneamente organizzati.
Non è un processo sinodale, in quanto privo
di politicità, quello in cui si procede
solo come gregge dietro un qualche pastore.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli