Imparare la libertà
[da Umanesimo
integrale, 1936, di Jacques Maritain; pag. 213 dell’edizione di Borla, 2009]
Quando
a Roma, ai tempi di Gregorio 16° [Papa dal 1831 al 1846] e Pio 9° [Papa dal
1846 al 1878] si condannava la pretesa di fare della libertà di stampa o della
libertà dell’espressione del pensiero fini in sé e diritti senza limiti, non si faceva che richiamare una elementare necessità
del governo degli uomini. Queste libertà sono buone e rispondono a esigenze intrinseche della
natura umana: richiedono però di essere regolate, come tutto ciò che non è nell’ordine
propriamente divino. Il modo
dittatoriale o totalitario di regolarle -con l’annientamento - ci sembra
detestabile; il modo pluralistico - con la giustizia e un’auto-regolamento
progressivo - ci sembra buono, e tale da essere non meno forte che giusto.
[…]
Gli organi giudiziari supremi dello Stato dovrebbero
intervenire piuttosto per proteggere l’individuo contro i suoi pari…
Pertanto la soluzione più conveniente è
altrove. Che un agente di polizia giudichi
di un’opera d’arte, ciò soddisfa molto poco i nostri sentimenti sulla
gerarchia dei valori. Che un altro artista
la giudichi e decida sul suo destino, soddisfa tali sentimenti
ugualmente poco. Ogni regolamento esterno è vano se non ha per fine di
sviluppare nella persona il senso della sua responsabilità creatrice e il senso
della comunione. Sentirsi responsabili dei propri fratelli non diminuisce la
libertà, ma le dà un peso più grave.
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Nella predicazione si parla poco e malissimo
della libertà. La si presenta quasi come una condanna di cui si farebbe
veramente a meno e il consiglio mormorato a mezza voce è, in fondo, quello di
rinunciarvi, affidandosi ai cosiddetti pastori. Quando Maritain richiama le posizioni
fortemente reazionarie sulla libertà di stampa e di espressione, dei papi Gregorio 16° e Pio 9°, che regnarono nell’Ottocento, ancora in fondo correnti nella gerarchia, anche
se per nostra buona sorte limitate nelle loro capacità di far danno dai regimi
democratici, è a quel problema che si riferisce.
Ci viene ora proposto un lungo processo sinodale che, nelle intenzioni del Papa, dovrebbe coinvolgere tutte le realtà ecclesiali, non solo clero, religiosi e i capi dei movimenti laicali scelti dalla gerarchia. Ma per fare che? Storicamente il sinodo servì per decidere su problemi organizzativi e dottrinari. Decidere richiede di volere e saper essere liberi di farlo. In generale ai laici non è consentito in ambito ecclesiale. Così clero e religiosi si illudono di mantenere il controllo della Chiesa, mentre, in realtà, è evidente che, facendo da soli, si limitano ad andare al rimorchio delle società, governate dai laici, in cui le loro Chiese sono immerse. Poi, nei momenti in cui si lasciano andare ai sentimenti realistici, uscendo da quello che è stato definito come muro d’incenso, capiscono di contare sempre meno in società, di andare, appunto, a rimorchio, si demoralizzano e recriminano contro i laici che ancora li frequentano più assiduamente. Clero e religiosi sono, in genere, autoreferenziali e, in particolare, la gerarchia lo è.
L’altro
giorno, in un incontro del mio gruppo MEIC, una dei partecipanti ha ricordato l’esperienza
vissuta nella sua parrocchia. Si era intrapreso un lavoro di assistenza e
spiritualità nelle strutture sanitarie del quartiere; è arrivato un nuovo
parroco e lo si è abbandonato, ora ci si dedica ai cori. I fedeli laici che
ancora frequentavano la parrocchia hanno subito. In un processo sinodale veramente
aperto (forse) avrebbero avuto almeno il diritto di obiettare.
Arriva un Papa dalla Polonia e cerca di
trapiantare dovunque nel mondo il modello ecclesiale, fortemente reazionario,
della sua nazione, poi ne arriva un altro che faceva il professore di teologia
e l’inquisitore ecclesiale e vuole ingabbiare tutto e tutti dentro una
dogmatica, infine ne arriva uno dall’America latina e orienta la dottrina
sociale, che riguarda tutto il mondo, secondo un populismo che, nelle democrazie
avanzate europee, appare fuori contesto e impraticabile così com'è, senza adattarlo. Noi laici ci si può fare poco, si subisce, ci si adegua, ci si fa ripetitori della dottrina sacrale o si preferisce tacere. Tutti quei Papi, però, quando hanno trattato di libertà sono stati d’accordo nel legarla a qualcosa di cattivo, all’individualismo,
all’egoismo, all’indisciplina e, in definitiva, ritengono che, in una visione
ortodossa, i fedeli virtuosi dovrebbero ritenersi liberi solo di pensare e di fare
come si dice loro di fare e di pensare da parte della gerarchia. Quindi poi chi
ancora frequenta le chiese si è assuefatto a quel modo di predicare e fa come gli si dice, che è l’unico modo per non avere problemi. Chi dissente o solo obietta è duramente emarginato,
semplicemente lo si dimentica. La creatività e la capacità di influenza sociale
naturalmente ne risentono. La base di un reale processo sinodale diffuso dovrebbe
consistere nel cambiare metodo.
Definiamo libertà. E’ il permettersi
di progettare il mondo in cui si vive e il futuro. Quindi in primo luogo è
libertà di pensare. Poi di fare. Infine di esprimersi, parlare, scrivere, perché altrimenti, se non si comunica, si rimane soli e da soli ogni progetto in grande è vano.
Si vive in
società ed essa ci condiziona. Liberarsi da quei condizionamenti è impossibile,
ma in fondo anche inutile. La società ci fa vivere, certo, ma ci fa anche soffrire.
La sofferenza sociale è uno di quei suoi
condizionamenti. Però possiamo cambiare la società che li esprime e quindi cambiarne
anche i condizionamenti che fanno soffrire. Altri, come ad esempio la lingua,
il modo di vestire e di cucinare, li continueremo ad accettare, sempre però portandovi
qualcosa di nostro, anche inconsapevolmente (è per questo che le società
evolvono, non rimangono mai le stesse di generazione in generazione). L’azione sociale serve appunto a questo, a cambiare collettivamente e consapevolmente, dopo aver pensato e progettato, la società ed è ad
essa che fu ed è finalizzata la nostra Azione Cattolica.
Cambiare
consapevolmente la società, da persone che pensano di essere libere di farlo, è necessariamente un lavoro collettivo, quindi
non ci si libera mai da soli, come individui.
Un
individuo isolato fatalmente cade nei condizionamenti sociali, la società se lo mangia e assimila.
Di solito, quando parla di libertà, il
predicatore sembra avere in mente la persona dissoluta, che eccede nei vizi ed è preda delle passioni: una persona così non
è certamente libera. Fin dall’antichità si è capito che cedere alle proprie
passioni è una forma di schiavitù.
Tuttavia,
poiché nel lavoro di liberazione, quindi di conquista della libertà, della possibilità
di progettare la realtà, la società per certi versi ci è contro, certamente non
si può essere veramente liberi se non conquistando anche una mentalità
individualista, quindi emergendo come persona dai condizionamenti sociali.
Questo non significa necessariamente sviluppare anche una mentalità egoista. L’egoista
è un poveretto che è prigioniero di una visione ristretta, concentrata sull’infima
particella di umanità che egli rappresenta. Ma chi si lascia completamente
dominare dalla società in cui è immerso, non può mai essere veramente libero.
Purtroppo, nell’accentuazione dell’elemento comunitario che si volle imprimere
alla catechesi negli anni ’70 in Italia, questo pericolo non fu preso bene in
considerazione. Si pensò di rafforzare la declinante autorità sacrale del clero
con una pressione che veniva da comunità di fedeli rese più coese, ma se, nel
contempo, non si insegna a praticare la libertà si rischia, come si dice, di
cascare dalla padella nella brace, perché il dominio comunitario, non contemperato
da una mentalità libertaria nell’individuo, rischia di divenire più opprimente
di quello sacrale.
La libertà,
come capacità di progettare e realizzare, si impara in dialettica con ogni
società in cui si è immersi, non naturalmente limitandosi ad adeguarsi ad essa.
Chi domina una società in genere è insofferente della libertà altrui e la presenta
ideologicamente come licenza, abuso, dissolutezza, arbitrio per reprimerla
diffamandola. Le società democratiche invece hanno miti, procedure e istituzioni
che consentono l’esercizio della libertà in modo da preservare le individualità
personali, senza mortificarle, e nel contempo sviluppare la collaborazione a
fini comuni, abbattendo ogni tirannia che cerchi di imporsi.
Come
scriveva Maritain, occorre sviluppare nelle persone il senso della loro responsabilità
creatrice e il senso della comunione, in modo che ci si senta responsabili degli
altri e soprattutto perché si capisca che, senza coinvolgere gli altri, si va
poco lontano con la libertà, fatalmente si cede alla tentazione della sopraffazione,
repressione, emarginazione, se si ha il potere di riuscirvi, o si finisce schiavi di passioni proprie o del potere altrui. Così poi si va poco lontano in generale, perché
società ingessate, pietrificate nella ripetizione di una tradizione, finiscono
per crollare in quanto non più al passo con l’evoluzione culturale della popolazione.
La sopravvivenza di ogni società è condizionata dalla sua capacità di riformarsi
e quest’ultima richiede lo sviluppo delle libertà individuali e sociali.
Nella predicazione non emerge la circostanza
che la nostra Chiesa è organizzata ancora come una società repressiva, dotata
addirittura di un ufficio di polizia politica come la cosiddetta Congregazione
per la dottrina della fede, che per nostra buona sorte, ora riesce a colpire
solo clero e religiosi. Una società nella quale, senza convincenti giustificazioni,
i laici non contano nulla e le donne ancora meno.
In un
processo sinodale, se mai realmente verrà attuato, e forse tra i reazionari c’è
chi si augura che il Papa regnante che lo ha innescato di forza non gli
sopravviva, i laici, che sono in maggioranza nella Chiesa, dovrebbero
conquistare la libertà di gridarlo e di pretendere un cambiamento.
Allora volete fare i preti donne?, si ribatte
di solito, ma questo non si è mai fatto nella storia della Chiesa! No, non si
tratta di fare preti le donne, ci mancherebbe altro, con tutti i problemi che
il mestiere di prete ha oggi.
Si tratta invece di sperimentare nuovi
ministeri ecclesiali non clericalizzati e soprattutto un’organizzazione
ecclesiale che consenta di imparare ed esercitare la libertà, che, come Maritain
giustamente ricordava, risponde a esigenze intrinseche della natura umana, il che
è come dire che è voluta dal Cielo. Ed è tutto dire.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli