Lavorare in assemblea
L’esperienza sociale può essere fatta in piccoli e grandi gruppi, ma solo tra i primi si realizzano veramente incontri personali.
Negli aggregati più numerosi essa viene mediata necessariamente da istituzioni, procedure formalizzate e miti, perché, per nostri limiti biologici di specie, ci è impossibile avere reali relazioni profonde con più di un centinaio di persone, ma se parliamo di gruppi nei quali ci si ritrova tutti insieme contemporaneamente e per socialità si intende un rapporto con tutto il gruppo, allora quel numero si abbassa molto, fino a trenta, quaranta, persone al massimo, quelle di cui in quel contesto riusciamo a ricordarci i nomi.
La nostra mente ci consente di interagire solo in scenari limitati. Questi limiti cognitivi emergono con molta chiarezza durante le messe domenicali della nostra parrocchia, ancora piuttosto frequentate. I fedeli non si conoscono personalmente se non per gruppi limitatissimi. La loro relazione intensa è solo con il celebrante. La socialità è mediata e consentita dal rito, nel quale ognuno sa che dire, che fare, dove stare. Il senso dell’evento è dato dal mito eucaristico al quale ogni fedele è stato introdotto nel corso del catechismo. Il mito è una narrazione ricca di elementi emotivi che spiega sinteticamente il senso di una situazione personale o sociale, e in questo ha sempre una sua verità, anche se fa ricorso ad elementi immaginifici con i quali sviluppa eventi attendibili del passato o anche ne costruisce integralmente di nuovi, divenendo difficile, ma tutto sommato anche inutile, distinguere tra gli uni e gli altri.
Mito e procedure sono costruzioni sociali che possiamo considerare veramente naturali negli esseri umani, nel senso che sono elementi culturali che si manifestano prestissimo nella loro attitudine sociale, fin da bambini. Quando un gioco sociale inizia con “Facciamo che...”, inizia la costruzione di miti e procedure sociali. L’istituzionalizzazione è un fenomeno più complesso e, in genere, le istituzioni le troviamo già fatte o addirittura ce ne troviamo dentro nascendo. E' in caso dello stato. Ma viene prodotta anche dai ragazzi. Una volta, quando c’erano gruppi di ragazzi che giocavano nei cortili condominiali, ci si divideva in bande e quella è già una prima forma di istituzionalizzazione.
Non esiste società che si sviluppi oltre un piccolo gruppo senza miti, procedure e istituzioni. In particolare, rinunciare al mito significa rinunciare del tutto alla società. La demitizzazione è un’illusione, in religione ma più in generale in società. La stessa demitizzazione ha connotati mitici.
Sicuramente è indispensabile la rivisitazione di ogni mito sociale, ad esempio di quelli di popolo, stato, democrazia, per adattarlo all'evoluzione sociale, che è continua e inarrestabile, almeno fino alla completa estinzione di una società. La storia della nostra Chiesa presenta evidenti numerosissimi processi di rivisitazione mitologica. L’assetto mitologico fondamentale a cui fa riferimento la nostra teologia dogmatica risale ad epoca compresa tra il Quarto e il Tredicesimo secolo. Sviluppi delle mitologie di riferimento sono chiaramente documentati negli scritti biblici. Molto significativi sono gli scritti attribuiti a Paolo di Tarso.
Gli incontri tra grandi gruppi si risolvono sempre in violenza sociale se non sono mediati da miti e procedure adeguati, dai quali poi vengono sviluppate, sulla base dell’esperienza, istituzioni di condivisione adeguate. Non contano, in quel campo, la gentilezza del tratto o altre caratteristiche personali benevole diffuse nelle popolazioni o manifestate nei capi.
Solo in un piccolo gruppo l’incontro può non evolvere in scontro anche senza una cornice mitologica pacificante, purché si decida di astenersi dalla violenza e dalla sopraffazione, cosa che in genere avviene solo quando chi si incontra non è considerato un pericolo imminente per gli altri.
Nel piccolo gruppo non è indispensabile una cornice mitica per instaurare relazioni personali, che sono sempre effettive, e le procedure sono piuttosto elastiche, mentre gli elementi istituzionali sono suscettibili di rapida manutenzione e revisinoe a seconda delle esigenze. Il piccolo gruppo è sempre alla base dei processi di riforma sociale, anche su scala maggiore e addirittura vastissima, proprio per quelle sue caratteristiche.
La nostra Costituzione repubblicana è stata deliberata da un’assemblea di 556 membri, ma fu progettata da una commissione composta da 75 persone. I principi fondamentali furono però redatti da un piccolo gruppo di 25 membri, caratterizzato da forti relazioni personali di stima e rispetto tra i comunisti Nilde Iotti e Palmiro Togliatti, il socialista Lelio Basso, i cattolici Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, Giorgio La Pira, i suoi esponenti più influenti, i quali poi, per tutta la loro vita, rimasero figure centrali nella politica repubblicana: essi sono l’equivalente degli apostoli per la nostra Repubblica, sei persone.
Ogni riforma sociale è sempre stata progettata in piccoli gruppi e successivamente proceduralizzata e istituzionalizzata creandole intorno opportuni miti per essere estesa a contesti sociali più vasti. Un esempio significativo lo si trova nelle narrazioni evangeliche, dove emerge che solo nel piccolo gruppo dei discepoli prescelti per essere apostoli Gesù spiegava tutto. Il successo del suo vangelo fu fondato essenzialmente su incontri personali; quando si ebbero dinamiche più vaste, in particolare dalla sua ultima entrata a Gerusalemme, ci fu invece lo scontro su di esso, non essendovi ancora una cornice mitologica, procedurale e istituzionale che ne consentisse l’assimilazione pacifica.
Mio zio Achille, sociologo, individuava nel piccolo gruppo di riferimento di una persona, innanzi tutto nella sua famiglia, il suo mondo vitale, vale a dire l’ambiente sociale che dà senso alla sua vita. Il piccolo gruppo - mondo vitale crea senso e quindi anche le mitologie sociali su cui poi si fondano procedure e istituzioni necessarie per la convivenza su scala più vasta.
Nei brani dell’enciclica Fratelli tutti su cui oggi ci confronteremo, al n.219 al n.224, quando si parla di creazione di un nuovo patto culturale, integrando pacificamente le diversità, sostanzialmente si invoca l’instaurazione di nuovi miti e procedure che consentano un incontro sociale su vasta scala, tra i popoli addirittura, senza che degeneri in scontro.
Invocando lo spirito di chrestòtes (nel senso inteso in Gal 5,22), che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta, ci si riferisce però con tutta evidenza all’esperienza di mondo vitale che si fa nei piccoli gruppi, la sola in cui quell’atteggiamento benevolo e cordiale sia spendibile utilmente.
L’esperienza storica insegna infatti che la riforma parte sempre dall’esperienza di un piccolo gruppo - mondo vitale, caratterizzato da relazioni paritarie e intense.
Quando nel Magistero del Papa si fa riferimento a Chiesa in uscita si intende con tutta evidenza una Chiesa capace di riforma sociale per generare quel patto culturale mediante integrazione dei diversi, non uno spostamento in senso fisico da un interno a un esterno. Un mero spostamento fisico non genera infatti uscita da un modo di essere Chiesa che si fonda sulla delimitazione tra chi è dentro e chi è fuori, secondo una mitologia del passato che non va più bene. Spostandosi solo in senso fisico, si rimane dentro anche quando si esce e, allora, incontrando altri che non accettano di essere assimilati ci si scontra con loro, finisce sempre male. Un esempio di mitologia dentro/fuori è ad esempio tra chi si salva perché è sottomesso ad una certa autorità sacrale e chi non si salva perché la rifiuta o perché, comunque, per essere nato ed essersi formato in altri contesti culturali, non vi è compreso. Lo schema salvezza/dentro - perdizione/fuori non può che generare lo scontro tra chi è dentro e chi è fuori.
L’esperienza di mondo vitale oggi è rara negli ambienti religiosi, benché ogni persona necessariamente faccia riferimento a un suo mondo vitale, che però può essere del tutto irreligioso o superficialmente religioso o religioso secondo altre mitologie e procedure. Di solito l’esperienza religiosa, almeno nella nostra confessione, è mediata da miti e riti e non comporta reali relazioni personali di mondo vitale. Questo tipo di religiosità non consente processi di riforma. Miti e riti sono infatti costruiti per conservare.
Ad esempio, in quel quadro, non è possibile sperimentare nuove forme di ministerialità dei laici, in particolare delle donne, duramente emarginate nella nostra istituzione ecclesiale, con contorno di miti e procedure escludenti.
Dunque, se si vuole applicare l’esortazione contenuta nell’enciclica, nei brani che stiamo esaminando, per costruire nuove relazioni sociali capaci di trasformare profondamente lo stile di vita e il modo di dibattere e di confrontare le idee, integrando le diversità e facilitando la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti, come è scritto nel documento, lo si deve fare creando nuovi luoghi di incontro delle dimensioni di piccoli gruppi, in cui l’istituzionalizzazione, quindi la gerarchizzazione, sia minima e miti e procedure possano essere revisionati sperimentalmente senza preconcetti. L’esperienza degli incontri in Google Meet che stiamo andando facendo in tempi di pandemia da Covid 19 è di quel tipo.
Naturalmente non basta semplicemente avvicinarsi, perché in quel modo non si ha ancora un’esperienza sociale forte, ma si sta solo insieme come al cinema o su un autobus: occorre costituirsi consapevolmente in una assemblea. La parola Chiesa deriva dal termine del greco antico che indicava appunto l’assemblea e, in particolare, un’assemblea deliberante, decidente. Un piccolo gruppo in cui ci si deve limitare a imparare quello che un’altra persona insegna è solo una classe scolastica. Se il piccolo gruppo è egemonizzato da una o più persone che rappresentano autorità costituite, le relazioni sociali al suo interno sono sbilanciate verso chi esercita l’autorità, creando capi carismatici, e anche in questo caso non si trasforma realmente in assemblea, è una milizia o confraternita.
Perché si abbia un’assemblea è necessario un piccolo gruppo di persone che a) intendano realmente collaborare, ciò che non avviene ad esempio nei Consigli pastorali trasformati in assemblee condominiali, b) che si riconoscano reciprocamente dignità paritaria, c) che siano disposte a frequentarsi con regolarità e d) che si diano un compito da svolgere insieme, fosse anche solo quello di progettazione, ma sarebbe meglio affiancargli una qualche attività fisica, materiale, non solo intellettuale, ad esempio un pellegrinaggio, l’occuparsi della piccola manutenzione degli ambienti parrocchiali, insomma di qualche cosa che richieda di lavorare insieme, faticando fisicamente in modo da allearsi contro una materia inerte che resiste (negli scout fabbricavamo mobili con assi di legno e quest’attività faticosa ci univa molto). La creazione di un’assemblea così presenta analogie con la condizione di stato nascente che si ha all’inizio di un rapporto d’amore. Occorre arrivare a piacersi frequentandosi.
Il problema, per un’attività simile da svolgere in parrocchia, è che lì i laici sono duramente emarginati da qualsiasi spazio decisionale, in quanto ritenuti inaffidabili e incostanti. La vita parrocchiale viene vista prevalentemente con gli occhi dei preti, come servizio alla comunità e non come creazione di una comunità. Per il servizio è essenziale la continuità cosa che nella condizione di stato nascente comunitario non sempre può essere garantita.
Il processo sinodale, che, partendo da quest’anno, si concluderà in Italia nel 2025, anno del Giubileo, è pensato dal Papa come un complesso di attività comunitarie che coinvolga non solo vescovi, preti, religiosi e esponenti di vertice di movimenti ed associazioni ecclesiali, insomma la burocrazia ecclesiastica, ma tutti i fedeli nelle loro istituzioni di riferimento nel quadro di esperienze comunitarie di mondo vitale. Esso, nelle intenzioni del Papa, è pensato per la riforma ecclesiale, che si vuole non frutto di una tecnocrazia teologica ma come sintesi delle esperienza vissute in modo assembleare nelle realtà di prossimità, in assemblee di mondo vitale.
Diamoci dunque da fare, anche a San Clemente papa.
In passato noi laici siamo stati troppo passivi, per quieto vivere ci siamo limitati a subire iniziative altrui che non hanno avuto esito felice e che non possono ancora dirsi superate in una nuova sintesi, che consenta di integrare ogni diversità senza che qualcuna pretenda l’esclusività e quindi di escludere chi non si allinea.
Coraggio, facciamoci coraggio.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro Valli
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Testo integrale dei numeri da 219 a 224 dell’enciclica Fratelli tutti
219. Quando una parte della società pretende di godere di tutto ciò che il mondo offre, come se i poveri non esistessero, questo a un certo punto ha le sue conseguenze. Ignorare l’esistenza e i diritti degli altri, prima o poi provoca qualche forma di violenza, molte volte inaspettata. I sogni della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità possono restare al livello delle mere formalità, perché non sono effettivamente per tutti. Pertanto, non si tratta solamente di cercare un incontro tra coloro che detengono varie forme di potere economico, politico o accademico. Un incontro sociale reale pone in un vero dialogo le grandi forme culturali che rappresentano la maggioranza della popolazione. Spesso le buone proposte non sono fatte proprie dai settori più impoveriti perché si presentano con una veste culturale che non è la loro e con la quale non possono sentirsi identificati. Di conseguenza, un patto sociale realistico e inclusivo dev’essere anche un “patto culturale”, che rispetti e assuma le diverse visioni del mondo, le culture e gli stili di vita che coesistono nella società.
220. Per esempio, i popoli originari non sono contro il progresso, anche se hanno un’idea di progresso diversa, molte volte più umanistica di quella della cultura moderna dei popoli sviluppati. Non è una cultura orientata al vantaggio di quanti hanno potere, di quanti hanno bisogno di creare una specie di paradiso sulla terra. L’intolleranza e il disprezzo nei confronti delle culture popolari indigene è una vera forma di violenza, propria degli “eticisti” senza bontà che vivono giudicando gli altri. Ma nessun cambiamento autentico, profondo e stabile è possibile se non si realizza a partire dalle diverse culture, principalmente dei poveri. Un patto culturale presuppone che si rinunci a intendere l’identità di un luogo in modo monolitico, ed esige che si rispetti la diversità offrendole vie di promozione e di integrazione sociale.
221. Questo patto richiede anche di accettare la possibilità di cedere qualcosa per il bene comune. Nessuno potrà possedere tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri desideri, perché questa pretesa porterebbe a voler distruggere l’altro negando i suoi diritti. La ricerca di una falsa tolleranza deve cedere il passo al realismo dialogante, di chi crede di dover essere fedele ai propri principi, riconoscendo tuttavia che anche l’altro ha il diritto di provare ad essere fedele ai suoi. È il vero riconoscimento dell’altro, che solo l’amore rende possibile e che significa mettersi al posto dell’altro per scoprire che cosa c’è di autentico, o almeno di comprensibile, tra le sue motivazioni e i suoi interessi.
Recuperare la gentilezza
222. L’individualismo consumista provoca molti soprusi. Gli altri diventano meri ostacoli alla propria piacevole tranquillità. Dunque si finisce per trattarli come fastidi e l’aggressività aumenta. Ciò si accentua e arriva a livelli esasperanti nei periodi di crisi, in situazioni catastrofiche, in momenti difficili, quando emerge lo spirito del “si salvi chi può”. Tuttavia, è ancora possibile scegliere di esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità.
223. San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola greca chrestòtes (Gal 5,22), che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il «dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano», invece di «parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano».
224. La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti.