Riformare
Ogni società può essere riformata, ma la riforma di quelle più grandi e complesse può risultare molto difficoltosa e richiedere sofisticate competenze specialistiche, oltre a grande capacità di influenza politica e notevole carisma personale. Per questo comprendo i problemi che sta avendo papa Francesco in questo campo, anche perché ha contro nemici interni che si servono senza remore praticamente di tutto il vetusto armamentario diffamatorio per secoli utilizzato per fare del male in ambito ecclesiale, eccettuata la violenza fisica. Quindi certamente gli sono solidale, pur non essendo granché acculturato al suo populismo latino-americano.
Tuttavia bisogna tenere presente questo: per caratteristiche della nostra mente, i modelli organizzativi più complessi delle società umane si basano sempre su esperienze fatte in piccoli gruppi, che è come dire che noi pensiamo anche la grande riforma partendo dal piccolo gruppo, perché è il solo modo in cui possiamo pensarla e quindi progettarla.
Passare dal piccolo al grande ci è abbastanza agevole, l’inverso molto meno.
Questo è stato fondamentalmente il motivo del fallimento del processo di riforma che si è tentato di attuare sulla base dei principi deliberati durante il Concilio Vaticano 2^ (1962-1965).
Possiamo individuarne la fine nell’anno 1992, quando fu deliberato il Catechismo della Chiesa cattolica, che non è solo un sussidio per la catechesi, ma un testo normativo cogente per chi voglia mantenere il riconoscimento di teologo cattolico. Mediante esso, ingabbiando la teologia cattolica, si volle chiudere la stagione di attuazione dei principi conciliari, che procedeva dal grande al piccolo, imponendo come definitivo ciò che fino ad allora era stato realizzato.
Si viveva, a quell’epoca, un importante passaggio di fase storica a livello mondiale ed europeo in particolare, per il veloce superamento dell’imperialismo per blocchi ideologici, distinti a seconda delle economie di tipo capitalista o socialista.I processi di riforma manifestatisi nella Chiesa cattolica post-conciliare negli stati dell’Europa occidentale avevano inglobato in certa misura anche idee socialiste, mai recepite dalla dottrina sociale e fortemente invise al papa all’epoca regnante, Giovanni Paolo 2^.
I principi delle riforme conciliari sono invecchiati prima di essere stati completamente trasferiti nella pratica ecclesiale e ora appaiono obsoleti sotto molti aspetti.
Addirittura talvolta vengono invocati da reazionari e conservatori per opporsi alle nuove tendenze per il rinnovamento ecclesiale.
Uno degli aspetti più interessanti del programma ecclesiale di papa Francesco è la convinzione che il processo di riforma debba essere continuo e debba farsi con genio e creatività coinvolgendo le realtà di base, non limitandosi a imporre modifiche organizzative pianificate dal vertice, per ragioni di miglioramento dell’efficienza (così nel discorso tenuto nel novembre 2015 al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze Il senso e il percorso). Fu proprio in quell’occasione che il Papa cominciò ad esortare a iniziare un processo sinodale della Chiesa italiana, che per le finalità proposte si presenta come l’inizio di un nuovo processo di riforma, questa volta esplicitamente definito come tale, abbandonando il termine aggiornamento che invece caratterizzò il Concilio Vaticano 2^.
Negli anni ’50, il rinnovamento teologico aveva preparato e indotto il progetto di riforme conciliari, il quale poi produsse, dagli anni ’60 agli anni ’80, fino a quando tutto fu come congelato, vivacissimi movimenti di sperimentazione di nuove forme di ecclesialitá tra i fedeli . Questi ultimi, a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60, apparivano in Italia di orientamento piuttosto tradizionalista, ad eccezione di alcuni, limitati, “rami intellettuali”, in particolare di quelli che avevano impersonato il cattolicesimo democratico.
Ai tempi nostri, la situazione appare invertita: la teologia ha risentito della repressione attuata fino all’inizio del regno di Papa Francesco ed appare ancora congelata mentre tra i fedeli si manifestano tendenze, non tanto organizzative quanto verso un nuovo modo di vivere la Chiesa, che richiederebbero di dare spazio allo spirito di libertà, che però è visto storicamente con sospetto dalla gerarchia.
La teologia quindi, se si riuscirà a dare corso al processo sinodale impostato dal Papa, osserverà, rifletterà e seguirà. Negli anni ’60 si idealizzò il Popolo di Dio e poi, dopo averlo teorizzato teologicamente, si cercò di indurlo e di organizzarlo nella pratica, ora dipenderà da come si riuscirà ad essere popolo il nuovo modo in cui quel popolo sarà pensato.
In questa prospettiva si comprende l’importanza di un processo sinodale diffuso come lo vorrebbe Papa Francesco, la cui idea di popolo, maturata negli ambienti sociali dell’America Latina, parte appunto da come, in quel mondo, si è riusciti a vivere un nuovo modo di essere popolo, piuttosto che da una teorizzazione concettuale di come si dovrebbe esserlo.
Anche se i connotati culturali, e anche etnici e storici, delle popolazioni dell’Europa contemporanea appaiono radicalmente diversi da quelli dell’America Latina, e probabilmente la teologia del popolo sviluppata a partire dall’esperienza di quelle culture non funzionerebbe da noi senza adattamenti, quel metodo presenta importanti vantaggi e opportunità rispetto a quello seguito nel moto di riforma degli anni ’60.
Esso infatti radica la riforma nell’esperienza viva della gente, piuttosto che farla scendere su di essa dall’alto della grande teologia.
Consente, quindi, una partecipazione diffusa dei fedeli, non tanto nella progettazione in grande, che è inaccessibile ai più, ma nella progettazione, programmazione e, soprattutto, sperimentazione su piccola scala, nelle realtà di prossimità, in quel lavoro artigianale che il Papa suggerisce per l’incontro sociale.
Questo però richiede che, almeno in quell’ambiente limitato, ad esempio in una realtà parrocchiale come la nostra, siano al più presto rimossi gli ostacoli all’attuazione di questi nuovi processi, in particolare cercando di coinvolgere in modo più esteso e intenso le persone laiche, iniziando ad esempio con il rivitalizzare la componente democratica, quindi eletta, dei Consigli pastorali, che mi paiono a volte essere caduti in disuso. Un processo sinodale di dimensioni parrocchiali potrebbe infatti utilmente valersi dei pur limitati spazi di autonomia organizzativa concessi a quell’organo ecclesiale, facendone, da istituzione ausiliaria, eventuale e consultiva che è attualmente, l’agente collettivo principale e necessario delle sperimentazioni innovative.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa- Roma, Monte Sacro, Valli