Imparare l’arte
della pace
La storia insegna che certamente la
religione, qualsiasi religione, anche la nostra religione, non basta per creare
una cultura di pace e per fare pace. Ciò perché le religioni sono sempre state strumenti della politica e hanno anche giustificato le azioni più turpi e crudeli.
Se però veramente
una religione si convincesse dell’importanza della pace, se riuscisse a
generare effettivamente un consenso sociale su questa idea, allora potrebbe
essere uno strumento anche di una politica di pace.
L’idea che la pace
scaturisca da un patto sociale è molto importante su questa via. Così
come la convinzione che questo patto richieda anche di accettare la possibilità di cedere qualcosa
per il bene comune e di rinunciare alla pretesa di possedere tutta la verità, o di soddisfare la
totalità dei propri desideri, perché questa pretesa porterebbe a voler
distruggere l’altro negando i suoi diritti. Evidenzio che quando nell’enciclica
al n.221 si fanno queste affermazioni si parla di politica, non di teologia,
perché invece la nostra teologia ritiene di possedere tutta la verità e che,
sulla via di quella verità, non si possa cedere nulla. Questo spiega perché la
nostra teologia non può essere di per sé sola una strumento di pace.
Tuttavia non basta sicuramente essere più gentili, anche se questo atteggiamento
aiuta nelle relazioni sociali, quando è espressione di una reale convinzione
interiore e non solo di convenienze sociali tutto sommato piuttosto ipocrite.
Si fa la pace quando si vuole fortemente la pace e questo richiede di essere
forti nelle proprie convinzioni in merito, altrimenti si chiama pace solo il
piegarsi al più forte.
Nessuna pace è possibile senza ristabilire un
equilibrio tra le forze sociali in contrasto, perché senza questo prerequisito
nessuna di esse sarà realmente disposta a processi di pace.
Lo vediamo ad esempio nella perdurante
pretesa dei cattolici italiani di imporre a tutti consuetudini sociali pertinenti
alla loro religione sul presupposto di essere maggioranza religiosa nella
nazione e quindi di avere per questo solo il diritto di esigerlo. In una
condizione di squilibrio sociale la forza prevarrà sempre. I processi
democratici servono appunto a stabilire un equilibrio anche lì dove in società
non c’è, ma la democrazia va prima imparata, poi interiorizzata e infine
praticata. Essa non si è dimostrata stabile se percorsa dalla violenza sociale,
per cui la via democratica alla pace, in particolare quella universale che ora
occorre, è quella della lotta
nonviolenta, l’unica a creare reali condizioni di pacificazione. E’ essa ad
aprire apre strade là dove l’esasperazione della violenza brutale e il cedimento alla forza, da parte di chi la pratica e di chi la subisce, distrugge tutti i ponti.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa -
Roma, Monte Sacro, Valli
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Testo integrale dei numeri da 219 a 224 dell’enciclica Fratelli
tutti
219. Quando una parte della
società pretende di godere di tutto ciò che il mondo offre, come se i poveri
non esistessero, questo a un certo punto ha le sue conseguenze. Ignorare
l’esistenza e i diritti degli altri, prima o poi provoca qualche forma di violenza,
molte volte inaspettata. I sogni della libertà, dell’uguaglianza e della
fraternità possono restare al livello delle mere formalità, perché non sono
effettivamente per tutti. Pertanto, non si tratta solamente di cercare un
incontro tra coloro che detengono varie forme di potere economico, politico o
accademico. Un incontro sociale reale pone in un vero dialogo le grandi forme
culturali che rappresentano la maggioranza della popolazione. Spesso le buone
proposte non sono fatte proprie dai settori più impoveriti perché si presentano
con una veste culturale che non è la loro e con la quale non possono sentirsi
identificati. Di conseguenza, un patto sociale realistico e inclusivo
dev’essere anche un “patto culturale”, che rispetti e assuma le diverse visioni
del mondo, le culture e gli stili di vita che coesistono nella società.
220. Per esempio, i popoli
originari non sono contro il progresso, anche se hanno un’idea di progresso
diversa, molte volte più umanistica di quella della cultura moderna dei popoli
sviluppati. Non è una cultura orientata al vantaggio di quanti hanno potere, di
quanti hanno bisogno di creare una specie di paradiso sulla terra.
L’intolleranza e il disprezzo nei confronti delle culture popolari indigene è
una vera forma di violenza, propria degli “eticisti” senza bontà che vivono
giudicando gli altri. Ma nessun cambiamento autentico, profondo e
stabile è possibile se non si realizza a partire dalle diverse culture,
principalmente dei poveri. Un patto culturale presuppone che
si rinunci a intendere l’identità di un luogo in modo monolitico, ed esige che
si rispetti la diversità offrendole vie di promozione e di integrazione
sociale.
221. Questo patto richiede
anche di accettare la possibilità di cedere qualcosa per il bene comune.
Nessuno potrà possedere tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri
desideri, perché questa pretesa porterebbe a voler distruggere l’altro negando
i suoi diritti. La ricerca di una falsa tolleranza deve cedere il passo al
realismo dialogante, di chi crede di dover essere fedele ai propri principi,
riconoscendo tuttavia che anche l’altro ha il diritto di provare ad essere
fedele ai suoi. È il vero riconoscimento dell’altro, che solo l’amore rende
possibile e che significa mettersi al posto dell’altro per scoprire che cosa
c’è di autentico, o almeno di comprensibile, tra le sue motivazioni e i suoi
interessi.
Recuperare la gentilezza
222. L’individualismo
consumista provoca molti soprusi. Gli altri diventano meri ostacoli alla
propria piacevole tranquillità. Dunque si finisce per trattarli come fastidi e
l’aggressività aumenta. Ciò si accentua e arriva a livelli esasperanti nei
periodi di crisi, in situazioni catastrofiche, in momenti difficili, quando
emerge lo spirito del “si salvi chi può”. Tuttavia, è ancora possibile
scegliere di esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo fanno e diventano
stelle in mezzo all’oscurità.
223. San Paolo menzionava
un frutto dello Spirito Santo con la parola greca chrestòtes (Gal 5,22),
che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che
sostiene e conforta. La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri
affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il
peso dei loro problemi, delle urgenze e delle angosce. È un modo di trattare
gli altri che si manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come
attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il
peso degli altri. Comprende il «dire parole di incoraggiamento, che confortano,
che danno forza, che consolano, che stimolano», invece di «parole che umiliano,
che rattristano, che irritano, che disprezzano».
224. La gentilezza è una
liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà
che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che
anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo
ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire
“permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una
persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per
prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo,
per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza.
Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana
che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza
non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese.
Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una
società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo
di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre
strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti.