Noi e il popolo
Sto leggendo in e-book l’ultimo libro dell’antropologo inglese Robin
Dunbar, Friends [amici] - Capire la forza delle nostre più importanti
relazioni con le altre persone, Little, Brown Book Group, Londra 2021.
Inizia con il racconto di una giornalista che decise di lasciare la convulsa
megalopoli londinese per trasferirsi in un paesino nella campagna del Surrey,
per vivere più tranquillamente. Si accorse che non era così semplice. Non conosceva
nessuno e non era facile farsi amiche le persone del luogo, perché erano giù
impegnate nel loro giri di conoscenze. Ogni persona è confinata in un numero
limitato di relazioni veramente significative.
Farsi amiche le persone intorno è
importante non solo per la nostra felicità psicologica, ma anche per il nostro
benessere; tuttavia l’amicizia è una relazione e richiede che anche gli altri
siano desiderosi di esserci amici, di passare del tempo con noi. Questo non è
ovvio nelle nostre società. Così, anche in società ritenute favorevoli per la
socialità, potremmo scoprirci oppressi dalla solitudine.
Nei piccoli posti le relazioni sociali sono più umane, ma potrebbe non
esserci abbastanza gente che abbia ancora spazio nelle sue relazioni intime per
esserci amica, mentre in una grande
città, in cui c’è più gente, quei rapporti sembrano più formali e meno intimi
in genere, ma in quanto c’è più gente, ci sono più occasioni per farsi
amici. Dal punto di vista cognitivo, che
incide sulla nostra capacità di stabilire relazioni significative con le altre
persone, siamo molto limitati, nel farci amici, per questioni fisiologiche di
come il nostro encefalo funziona. Non solo: nessuna relazione personale è per sempre. Nel corso della nostra vita
sostituiamo le relazioni significative ed ecco che certe persone sono spinte
verso un tipo di rapporto meno stretto ed altre sono ammesse nella cerchia più
intima. Questo causa spesso un’intensa sofferenza nelle persone che sono
respinte verso i margini. Ne scrisse il sociologo Francesco Alberoni, nel suo Innamoramento e amore, Garzanti 1979, tuttora in
commercio, anche in e-book.
Ecco lo schema della cerchia delle conoscenze secondo Dunbar. Procedendo verso i cerchi più
interni si va verso relazioni personali più strette e significative.
pubblicato su
Venerdì di Repubblica del 23-4-21
Secondo Dunbar, dunque, la cerchia dell’amicizia non va oltre, per
ognuno, le 150 altre persone. Eppure, certamente, siamo capaci di pensare molto più in grande di così, ad esempio quando
parliamo di popolo.
Nella nostra fede, che diciamo monoteistica, pensiamo come attributo
della divinità anche la capacità di entrare in intimità con ciascuno di noi.
Questo ci consente di esserle amici e di concepirla come amica. La pensiamo come una e intimamente in relazione in tre, comunque un numero limitato che consente di conoscere per nome.
L’assistente ecclesiastico del mio antico gruppo FUCI è un professore di
antropologia teologica, la disciplina teologica che ragiona su che tipo di
persona umana emerge dalla fede. Ha scritto un libro che si intitola Chiamati per nome. Spiega che noi, nella
nostra fede, siamo, appunto, coloro che
pensano di chiamati per nome. Conosciuti
e anche sempre connessi al loro Creatore, Fondamento, Padre, orizzonte
verso cui si è diretti, connessi in ogni istante della loro vita ed anche oltre
di essa. Questa relazione la riusciamo a pensare perché è del tipo a tu
per tu, quella che Dunbar definisce intima.
La relazione che abbiamo con il popolo
a cui pensiamo di appartenere non può essere di quel tipo. Ci è infatti impossibile pensare il popolo nella sua realtà effettiva. Anche su una scala
relativamente piccola, come quella della nostra parrocchia, che è fatta di
circa quindicimila persone.
Oltre le cinquecento persone intorno a noi fatichiamo a ricordare un
volto, un nome, tutto sfuma nell’indistinto, e oltre le centocinquanta non si
può parlare, secondo Dunbar, di amicizia. Eppure siamo in genere convinti che
l’identità del nostro popolo, fatto
di decine di milioni di persone che non conosciamo e non riusciremo mai a
conoscere, sia importante per la nostra,
per sapere chi siamo e anche che fare. Questo perché pensiamo il popolo
aiutandoci con dei miti. Su questi
poi costruiamo molte prassi sociali e, in particolare, una certa etica, per
cui, ad esempio, pensiamo che gli italiani siano fatti in un certo modo per
qualcosa che hanno dentro ed è per questo
che, ad un certo punto, possiamo anche dire “prima gli italiani” comprendendo noi, le
nostre relazioni significative e un enorme altro numero di persone che non
conosciamo realmente ma che confidiamo siano più o meno corrispondenti ad un
certo modello, ad esempio italofone (sappiamo però che moltissime persone che
vivono in Italia, nate cittadine italiane ecc., non lo sono o non lo sono del
tutto) o mangiatori di pastasciutta o, ad esempio, secondo le statistiche
mondiali, cristiane (salvo poi avere consapevolezza, per altri versi, che i cristiani in Italia sono una minoranza,
più o meno piccola, a seconda che si considerino quelli che si dichiarano tali,
quelli che qualche volta partecipano al culto, quelli che seguono una certa
etica e, infine, quelli che ricordano con una certa precisione il catechismo
appreso in gioventù).
Il problema attuale della popolarità in religione
sta tutto lì. Se ne sta trattando nel
corso dell’Assemblea Nazionale dell’Azione Cattolica che è iniziata ieri. Per
certi versi esso si manifestò anche negli scorsi anni ’80, in particolare nella
durissima polemica tra Azione Cattolica e Comunione e Liberazione.
Spendiamo molta emotività nell’affrontare il tema del popolo, ma senza una cultura popolare adeguata, comprendente conoscenze, un’etica, una sufficiente apertura alle altre persone, il popolo ci sfugge. E’ vero che, nascendo, ci troviamo inseriti in una popolazione che esprime una certa cultura e anche un’organizzazione politica, per cui in questo senso il popolo ci preesiste. Ma è anche vero che il popolo va continuamente costruito effettuando una manutenzione delle relazioni sociali in esso praticate e della corrispondente cultura. In quanto costruzione esso è in qualche modo anche opinabile ed effettivamente questo emerge con chiarezza dalla nostra storia nazionale: la cultura politica di un popolo italiano, originata fondamentalmente dal pensiero di Giuseppe Mazzini, il cui motto fu Dio e popolo, è stata costruita nel corso dell’Ottocento e a lungo non fu condivisa nella stessa Italia. Ad esempio il Papato romano ne aveva all’epoca un’altra idea e questo motivò la sua strenua, irriducibile, opposizione contro il nazionalismo italiano irredentista. Ed effettivamente a quel tempo l’Italia poteva apparire abitata da tanti popoli, molto diversi, per lingua, costumi e altri ordinamenti, unificati più o meno solo dalla soggezione religiosa e politica al Papa.
Ci stiamo confrontando da qualche anno con la concezione popolare di papa Francesco, che scaturisce dalla sua
specifica esperienza latino-americana. Essa differisce marcatamente dalla
nostra, ancora fondamentalmente di origine mazziniana, con forti connotati
politici, ma anche da quella religiosa di popolo
di Dio che ha preso molto piede
negli anni Sessanta, che come tale
viene pensata in genere priva di caratterizzazioni etniche, nel senso che la si
concepisce come originata da un’iniziativa divina non come qualcosa che
scaturisce da carne, sangue, generazione e tradizione locale delle persone, insomma
un po’ come la faccia che ciascuno ha.
Nel popolarismo di papa Francesco, il popolo è composto da quelle parti
di popolazione che negli ordinamenti politici hanno avuto la peggio, rispetto
ad esempio alle concezioni irreligiose liberali
e per effetto colonizzazione dura
contro i popoli originari americani, quelli che in America Latina sono
sopravvissuti al genocidio perpetrato dagli europei dal Cinquecento.
Il processo di formazione del mito e dell’ideologia del popolo italiano, e quindi di quello stesso popolo, è stato
profondamente diverso da quelli vissuti nell’America Latina. Per dirne una: noi
non abbiamo vissuto l’esperienza del colonialismo, benché nell’Ottocento vaste
parti del territorio italiano siano cadute in dominio di dinastie di altre
parti d’Europa. Ad esempio: il Lombardo-Veneto, al tempo in cui fu parte
dell’Impero d’Austria non fu una colonia austriaca. Lo stesso dicasi per le dominazioni
spagnola o francese. Senza gli elementi politici introdotti dal mazzinianesimo
nell’Ottocento, con un irredentismo che era in linea con la cultura romantica
dell’epoca, non è concepibile un popolo
italiano, ad esempio sulla base di altri elementi culturali, linguistici o
etnici. La prima Repubblica italiana,
l’archetipo di quella costruita dopo la Seconda guerra mondiale, fu la
mazziniana Repubblica romana del 1849, contro la quale il Papa Pio 9°
invocò e ottenne l’intervento militare di francesi, austriaci, spagnoli,
fuggendo nella fortezza di Gaeta, del re delle due Sicilie. Ne adottammo la
bandiera, i principi costituzionali, la mitologia ideologica, e il nostro inno
nazionale è tutto mazziniano. Su questo quadro
si è inserito l’influsso dei processi democratici avanzati che hanno
caratterizzato nostro processo costituzionale nel post-fascismo, ai quali
l’attuale popolarismo papale appare poco acculturato e anche piuttosto
diffidente, sospettandoli di liberalismo, dal quale per altro certamente
dipendono culturalmente.
Nel post-fascismo i partiti popolari
italiani presero effettivamente il
potere e trasformarono la nostra società. Quei partiti furono un potente
fattore unitivo e quindi costitutivo di un nuovo essere popolo della
popolazione italiana. La nostra nuova democrazia fu la vera lingua che
permetteva la costruzione sociale, l’intendersi tra moltitudini e il familiarizzare su quella
grande scala. La loro crisi fu anche crisi della nostra democrazia popolare, con la conseguente crescente
difficoltà a pensarsi come popolo di una medesima nazione (da cui la mitologia neo-secessionista che si cercò, senza
successo, di inculturare nel Settentrione).
Senza una nuova cultura popolare ciascuno è relegato nella sua prigione
relazionale di circa centocinquanta relazioni forti, ma essa non può avere
in Italia le medesime basi sulla quali è stato costruito il popolarismo
latino americano, quello, ad esempio, che emerge con forti elementi di novità dai
documenti finali approvati dalle assemblee plenarie del Consiglio episcopale
latino-americano da Medellin (1968) in
avanti.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte
Sacro, Valli