Tecniche nonviolente dell’incontro
sociale
L’esperienza dimostra che quando persone o gruppi portatori di diversi
orientamenti e caratterizzati da diverse culture entrano in contatto finisce
sempre in conflitto violento, se non emergono fattori, procedure o figure di
mediazione. E’ una legge inesorabile della socialità umana, di cui ci si può
convincere facendone esperienza di prossimità, anche in parrocchia, e studiando
la storia.
La mediazione sociale, che richiede anche un apparato culturale e quindi
è anche mediazione culturale, riesce solo quando una situazione di conflitto tra gruppi
è in una fase di stallo, perché nessuno riesce a prevalere, o quando i gruppi
contrapposti si trovano di fronte a un nemico o una minaccia comune.
Altrimenti ogni gruppo che ne abbia la forza necessaria tenderà ad accaparrarsi
tutto ciò che il mondo gli offre, come se gli altri non esistessero, o, anche,
cercherà di sottometterli e di sfruttarli nel proprio interesse.
Nei brani dell’enciclica su cui ci confronteremo sabato prossimo si cita
il caso dei popoli originari. Questa espressione può risultare oscura
agli europei. In Europa attualmente non abbiamo un problema di popoli
originari, ma solo quello delle minoranze etniche e culturali. Popoli
originari, nel senso inteso nell’enciclica, sono fondamentalmente quelli che gli
europei trovarono in America quando la scoprirono e le diedero, appunto,
il nome di America, dal nome del fiorentino
Amerigo Vespucci (1454-1519), comandante di spedizioni di esplorazione
transatlantiche al servizio della monarchia di Castiglia. Quei popoli originari furono vittima di un genocidio in tutto il continente
americano: esso fu giustificato anche con pretese di evangelizzazione, in particolare
nell’America Latina. Un altro suo pretesto fu quello del progresso.
«L’intolleranza e il disprezzo nei
confronti delle culture popolari indigene è una vera forma di violenza, propria
degli “eticisti” senza bontà che vivono giudicando gli altri», si legge nel
n.220 dell’enciclica. Chi sono questi eticisti? In una omelia svolta durante una messa celebrata nella cappella di Casa
Santa Marta il 19 giugno 2013, il Papa l’ha spiegato:
«Ti riempiono di precetti, ma senza bontà. E quelli
delle filatterie che si addossano tanti drappi, tante cose, per fare un po’
finta di essere maestosi, perfetti, non hanno il senso della bellezza. Arrivano
soltanto ad una bellezza da museo. Intellettuali senza talento, eticisti
senza bontà, portatori di bellezze da museo. Questi sono gli ipocriti, ai
quali Gesù rimprovera tanto»
C’è l’ha quindi con i teologi
morali troppo rigidi.
In realtà il problema
del genocidio dei popoli originari americani, che agli europei
colonizzatori non apparvero degni di essere interlocutori paritari e quindi
vennero sterminati, ebbe una dimensione
specificamente politica, della quale quella religiosa fu solo una manifestazione.
Poiché si aveva la forza di porre quei popoli di fronte all’alternativa dello
sterminio o della sottomissione, si sterminò e si sottomise, e poi se ne
trovarono giustificazioni teologiche. Questo conferma la legge generale della
socialità umana di cui ho scritto all’inizio.
Di quei popoli originari
americani sopravvivono ancora non completamente assimilati, o addirittura
non assimilati, etnie dell’Amazzonia, nella zona centrale dell’America
Meridionale che comprende diversi stati sud americani, le quali agli occhi dei discendenti della
colonizzazione europea appaiono primitive, vivendo di caccia, pesca e raccolta di vegetali in
piccoli villaggi di capanne relativamente o completamente autosufficienti. Le cronache
degli ultimi anni ci parlano di un’intensa brutalità esercitata nei loro
confronti per cacciarle dalle terre che si vogliono impiegare nell’agricoltura
intensiva industriale. La Chiesa cattolica
ha preso le loro difese. Nell’ottobre 2019 si tenne un sinodo Panamazzonico,
all’esito del quale venne deliberato un importante documento finale “Amazzonia: nuovi
cammini per la chiesa e per un'ecologia integrale” e l’esortazione post-sinodale Cara
Amazzonia, nei quali si prefigura anche una nuova struttura ecclesiale.
Nei brani dell’enciclica su cui dialogheremo,
si passa dal prospettare questa situazione di intensa violenza, brutalità, crudeltà
nei rapporti tra società animate da diverse culture e caratterizzate da diversa
evoluzione, in particolare con riferimento ai processi economici, alla proposta
di chrestòtes, tradotto con gentilezza nei rapporti umani. Tuttavia la storia dell’umanità
dimostra che questo affrancarsi dalla crudeltà è possibile solo quando,
mediante un conflitto, forze sociali contrapposte risultano in una situazione
di stallo, nessuna di esse riuscendo a prevalere. Altrimenti quella che ha la potenza necessaria per prevalere
sull’altra sicuramente lo farà. Nessun cambiamento virtuoso è possibile quindi senza un conflitto che
stabilisca una situazione di parità tra le forze contrapposte. D’altra parte, dal
conflitto può conseguire anche il peggio, se significa solo consegnarsi alla
violenza brutale. Ma quel tipo di conflitto
non è l’unico attuabile nel mondo contemporaneo e, anzi, se ci si affida ad
esso su larga scala, esso porterà alla fine dell’umanità, che dispone di armi
di distruzioni di massa di potenza immane.
Dagli anni ’30 si è fatta strada la via della lotta
nonviolenta. Come scrisse il filosofo Aldo Capitini (1899-1968), il quale fu
tra quelli che in Italia la teorizzò e insegnò con maggiore efficacia, la nonviolenza porta con sé un orientamento ad una
democrazia più aperta, al potere esercitato sempre più da tutti, nella
direzione e nel controllo dal basso, nella libertà di informazione, di critica,
di espressione - da non sospendere mai -, e nel superamento di ogni sfruttamento,
di ogni potenza sugli altri per via del denaro. La nonviolenza non è inerzia,
inattività, lasciar fare. E’ anzi attività, appunto perché non aspetta di avere
armi decisive, cerca di moltiplicare le iniziative e i rapporti con gli altri,
sa bene che si può sempre fare qualche cosa, se non altro trovare degli amici,
dare la parole. Ho citato brani dal saggio di Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, del 1967,
che ho nell’edizione di Linea d’ombra Edizioni 2014.
La lotta nonviolenta, che pone i presupposti
indispensabili perché l’incontro tra culture diverse non abbia esiti drammatici
e distruttivi, è parte dell’azione politica, a cominciare da quell’attività che
crea le basi culturali e procedurali della possibilità di un incontro
sociale, quindi di quel patto culturale di cui si tratta nel n.220 dell’enciclica.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in
San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
Testo integrale dei numeri da 219 a
224 dell’enciclica Fratelli tutti
219. Quando una parte della società
pretende di godere di tutto ciò che il mondo offre, come se i poveri non
esistessero, questo a un certo punto ha le sue conseguenze. Ignorare
l’esistenza e i diritti degli altri, prima o poi provoca qualche forma di violenza,
molte volte inaspettata. I sogni della libertà, dell’uguaglianza e della
fraternità possono restare al livello delle mere formalità, perché non sono
effettivamente per tutti. Pertanto, non si tratta solamente di cercare un
incontro tra coloro che detengono varie forme di potere economico, politico o
accademico. Un incontro sociale reale pone in un vero dialogo le grandi forme
culturali che rappresentano la maggioranza della popolazione. Spesso le buone
proposte non sono fatte proprie dai settori più impoveriti perché si presentano
con una veste culturale che non è la loro e con la quale non possono sentirsi
identificati. Di conseguenza, un patto sociale realistico e inclusivo
dev’essere anche un “patto culturale”, che rispetti e assuma le diverse visioni
del mondo, le culture e gli stili di vita che coesistono nella società.
220. Per esempio, i popoli originari non sono contro il progresso, anche se
hanno un’idea di progresso diversa, molte volte più umanistica di quella della
cultura moderna dei popoli sviluppati. Non è una cultura orientata al vantaggio
di quanti hanno potere, di quanti hanno bisogno di creare una specie di
paradiso sulla terra. L’intolleranza e il disprezzo nei confronti delle culture
popolari indigene è una vera forma di violenza, propria degli “eticisti” senza
bontà che vivono giudicando gli altri. Ma nessun cambiamento autentico,
profondo e stabile è possibile se non si realizza a partire dalle diverse
culture, principalmente dei poveri. Un patto culturale presuppone
che si rinunci a intendere l’identità di un luogo in modo monolitico, ed esige
che si rispetti la diversità offrendole vie di promozione e di integrazione
sociale.
221. Questo patto richiede anche di accettare la possibilità di cedere
qualcosa per il bene comune. Nessuno potrà possedere tutta la verità, né
soddisfare la totalità dei propri desideri, perché questa pretesa porterebbe a
voler distruggere l’altro negando i suoi diritti. La ricerca di una falsa
tolleranza deve cedere il passo al realismo dialogante, di chi crede di dover
essere fedele ai propri principi, riconoscendo tuttavia che anche l’altro ha il
diritto di provare ad essere fedele ai suoi. È il vero riconoscimento
dell’altro, che solo l’amore rende possibile e che significa mettersi al posto
dell’altro per scoprire che cosa c’è di autentico, o almeno di comprensibile,
tra le sue motivazioni e i suoi interessi.
Recuperare la gentilezza
222. L’individualismo consumista provoca molti soprusi. Gli altri diventano
meri ostacoli alla propria piacevole tranquillità. Dunque si finisce per
trattarli come fastidi e l’aggressività aumenta. Ciò si accentua e arriva a
livelli esasperanti nei periodi di crisi, in situazioni catastrofiche, in
momenti difficili, quando emerge lo spirito del “si salvi chi può”. Tuttavia, è
ancora possibile scegliere di esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo
fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità.
223. San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola
greca chrestòtes (Gal 5,22), che esprime uno stato
d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La
persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza
sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi,
delle urgenze e delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta
in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con
le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende
il «dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che
consolano, che stimolano», invece di «parole che umiliano, che rattristano, che
irritano, che disprezzano».
224. La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le
relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri,
dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere
felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi
a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni
tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue
preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un
sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di
ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è
capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene
i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un
atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e
rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile
di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee.
Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge
tutti i ponti.