Dal Venerdì Santo alla Pasqua
2014
Nella spiritualità e nelle liturgie del
Venerdì Santo si manifestano e si celebrano vari significati religiosi. che la
nostra teologia cerca di ricondurre a unità, per farne una guida, una via di
fede, anche per i fedeli di oggi. Questa molteplicità di sensi emerge con molta
evidenza dal ciclo delle letture bibliche della Veglia di Pasqua. Tutta la
storia del cosmo e dell'umanità, compresa la narrazione religiosa della
liberazione degli antichi Israeliti dal dominio egiziano del faraone, viene
reinterpretata alla luce degli eventi pasquali. Questi ultimi fondano la nostra
fede, come fin dalle origini e per tutta storia della nostra collettività
religiosa si è sempre ritenuto, e vanno
intesi in senso veramente realistico, anche se non mancano gli inviti, accade
anche in un articolo pubblicato sul quotidiano che leggo, a rileggerli in senso
puramente metaforico, riferendoli ad un'esperienza di rinascita puramente
interiore, psicologica. Quest'ultima via trasforma tuttavia la nostra fede
religiosa in una pia fantasia e serve a poco. Che si possa cambiare mentalità
ad un certo punto della vita, ed anche molto profondamente, è senz'altro
possibile, ma se tutto si risolve all'interno della propria interiorità, dei
propri processi mentali ed emotivi, se tutto in definitiva è solo una propria
costruzione psicologica, senza alcuna fiducia in un'azione effettivamente
esterna dal sé, al modo in cui lo sono i processi della natura, la fede è in
definitiva fede in sé medesimi e lascia il tempo che trova: appare
sproporzionato l'impegno che la religione pretende dalle persone e dalle
collettività in materia di fede. In quest'ottica tutto assume l'aspetto di una
narrazione consolatoria, di una bella fiaba per i tempi difficili, magari
coinvolgente come lo sono certe favole, una cosa che resta nel cuore come
accade con la grande poesia; ma di fiabe
non si vive e, soprattutto, le favole sono una risorsa insufficiente di fronte
all'esperienza della sofferenza estrema e della morte, che ogni essere umano sa
di dover compiere ad un certo punto.
La morte è parte dell'ordine della natura. La
scienza ci spiega che senza la morte degli individui non potrebbe esistere vita
sulla Terra. Ai tempi nostri ci si può rassegnare a questo, senza bisogno di
ricorrere alle narrazione religiose. La vita ha i suoi momento belli e poi
finisce. Nulla può essere salvato per
sempre. Il ciclo delle vita consente tuttavia la sopravvivenza della specie e,
per gli esseri umani, delle loro culture. Di generazione in generazione la vita e le culture umane vengono tramandate
e costantemente rinnovate. Molte persone vivono serenamente questa condizione
nei tempi buoni, e la subiscono in quelli brutti: così vanno le cose, pensano,
impossibile resistere. E certo tutto ciò che ci circonda conferma che questa
convinzione è giusta. Infatti le realtà di fede non sono evidenti, ma non solo: esse non possono in alcun modo essere provate, nel modo in cui oggi si intende
la prova. La prova riguarda le realtà
della natura, la fede riguarda invece il soprannaturale. Gli argomenti che si
portano di solito per dare un fondamento per così dire razionale alla fede sono
per la gran parte di tipo puramente logico,
senza agganci sufficienti con la realtà della natura, almeno nella misura in
cui li si pretende ai tempi nostri, o fondati principalmente sull'esperienza
interiore dell'animo umano. Rimane poi problematico, al di fuori di una fede nel
soprannaturale, convincersi dell'esistenza di un disegno provvidenziale amorevole nei nostri riguardi. La natura infatti ci
appare come un ordine crudele in cui il
pesce grosso mangia il pesce piccolo, una palese smentita di tutte le
nostre convinzioni di fede.
La nostra fede rifiuta la natura così com'è, e
anche le società umane così come sono. E questo anche se su certi argomenti si
tende a identificare natura e disegno provvidenziale, come nelle
faccende riproduttive. In realtà noi viviamo con sofferenza la realtà della
natura intorno a noi, in particolare il tempo limitato della nostra vita
terrena e gli istinti animaleschi che sentiamo in noi e che condividiamo con i
viventi che biologicamente ci sono affini, con i primati e, in genere, con i mammiferi.
Nella loro evoluzione, le culture delle
società umane hanno cercato di stabilire relazioni con le potenze della natura,
cercando di capirne il senso e le dinamiche per influire su di esse e
migliorare la condizione umana. Nel progresso storico ciò ha portato allo
sviluppo di un pensiero collettivo scientifico, ma inizialmente e per un tempo
lunghissimo questo sforzo fu
essenzialmente religioso. Esso infatti non procedeva per gradi e osservazioni,
ma cercava di intuire e di arrivare direttamente al fondamento di tutto.
L'esperienza collettiva nelle società umane e la constatazione di quanto in
esse fosse dipendente dalla natura ed espressione di essa portò a pensare le
relazioni tra le potenze della natura al modo di quelle familiari e tribali umane.
Nel procedere storico si ebbe dunque l'umanizzazione delle potenze naturali. Il
rito religioso divenne al procedura per entrare in relazione con esse. Nacquero
così dei e religioni e il personale specializzato nelle relazioni con gli dei,
il ceto sacerdotale. Si costruirono cosmogonie, ideologie su come la natura
intorno si era prodotta, e teologie, ideologie specializzate relative alla
potenze della natura deificate e alle strategie umane per relazionarsi con
esse. Le teologie attribuirono alle potenze della natura sentimenti umani e
questo aiutò a sopportarle, ma in fondo non aiutò a capirne le reali dinamiche.
Quello che si giunse a comprendere era che anche gli dei soggiacevano alla
medesima sorte degli umani, allo stesso destino, allo stesso fato, vale a dire
che potenze della natura ed esseri umani dovevano piegarsi alle stesse
inesorabili e crudeli leggi.
In questo panorama l'antico giudaismo risalta
particolarmente: esso costituì una notevole evoluzione delle religioni più
antiche. Questo processo, di cui possiamo dare un'idea dicendo che si passò dal
politeismo al monoteismo, è testimoniato negli scritti biblici. Si sviluppò una
teologia che cercò di andare oltre la deificazione delle potenze della natura,
le quali si erano viste soggiacere a una potenza a loro superiore. Essa prese
le mosse in un contesto sociale di carattere tribale in cui ogni popolo aveva
un suo proprio dio protettore, in un certo senso molto meno evoluto
culturalmente di quello dell'antico universo greco-romano, che era caratterizzato
dall'assimilazione dell'idea che l'umanità fosse composta da diversi popoli che
dovevano coesistere in una società, facendo coesistere anche i rispettivi loro
dei, così come coesistevano gli dei della natura. Fu nel contesto dell'antico
giudaismo che si concepì il dio del popolo come un dio-amante e che quindi si
passò dagli dei della natura al Dio degli esseri umani. Gli eventi avversi
della natura e della storia umana vennero concepiti come una punizione per
l'infedeltà degli esseri umani, per il loro adulterio, per la loro
prostituzione. Come poté una concezione del divino così legata ad un
determinato popolo storico, etnico, essere presa a fondamento della
straordinaria espansione universale della nostra confessione religiosa, che
dall'antico giudaismo scaturì e che di esso acquisì le scritture sacre e alcune
delle principali teologie su di esse
costruite? Ciò fu possibile sviluppando l'elevatissimo senso della giustizia
dell'antico giudaismo e l'idea religiosa di una divinità animata da sentimenti
amorevoli verso gli esseri umani. L'etica dell'antico giudaismo fu il tesoro
prezioso che il piccolo e marginale popolo degli Israeliti fece a tutti i
popoli della Terra, cambiandone profondamente la storia. Essa fu veicolata fino agli estremi confini del globo
dalla nostra confessione religiosa. Quell'etica si basa sull'idea di giustizia
misericordiosa. Essa cerca di affrancare gli esseri umani dalle crudeli
dinamiche della natura. Li spinge ad agire diversamente dalle belve. Supera
l'idea che gli dei della natura vadano placati autoinfliggendosi sofferenze e
supplizi, profondamente radicata nelle religioni politeistiche e sviluppata
nelle varie teologie e liturgie sacrificali. Nella nostra confessione
condividiamo con il giudaismo delle origini, e con l'attuale ebraismo, l'idea
che questa straordinaria evoluzione non sia stata determinata solo da una nuova
spiritualità ideata da esseri umani ma da una Voce venuta effettivamente dall'Altissimo, alla quale gli esseri
umani hanno risposto.
La nostra fede è stata l'ideologia che ha
consentito di portare la teologia della giustizia divina misericordiosa molto
oltre i confini dell'antico giudaismo. Il distacco da quest'ultimo è stato
altamente drammatico, essenzialmente per complicazioni teologiche, e solo nel
secolo scorso, dopo quasi duemila anni!, si
è giunti a una pacificazione teologica, che non significa assimilazione,
ma accettazione della possibilità di pacifica coesistenza nella diversità.
La nostra teologia ha portato alle estreme
conseguenze l'idea di giustizia divina misericordiosa, proiettandola
sull'intera condizione umana nella sua relazione con l'universo della natura,
nelle sue dinamiche preistoriche e storiche, in ogni suo tempo, passato,
presente e futuro, e non più riferendola
ad un solo popolo tra i tanti della Terra, destinato a prevalere sugli altri in
virtù di un patto con la divinità suprema. Essa ha concepito
l'idea di un popolo fatto di tutti i
popoli della Terra, la cui legge sia quella della giustizia misericordiosa
in un patto sponsale con una divinità amorevole. Solo il secolo scorso ha
accettato che ciò non avesse comportato il ripudio del popolo degli israeliti e
ciò è veramente paradossale in un'ottica di fede tanto basata sull'idea di
giustizia misericordiosa. Ma il passato non si può cambiare, lo si può solo
ricordare in spirito di verità e trarne insegnamenti per il futuro, cercando di
riparare al male che si è fatto.
Come conciliare le dinamiche crudeli della
natura in cui siamo immersi, e delle quali quelle sociali sono parte, con
l'idea di una divinità amorevole? Lo si è fatto, nella nostra confessione,
costruendo, su basi bibliche, la teologia di un peccato collettivo degli
esseri umani che ha guastato il rapporto con la divinità suprema e che si
protrae nella storia. La crudeltà della natura in tal modo non è più concepita
come tale, ma è vista come una sofferenza
della natura, una pena in senso proprio, intesa come
punizione di una colpa: la natura in realtà anelerebbe ad essere liberata,
attendendo un nuovo ordine che da lei deve scaturire, dunque geme e soffre al modo di una partoriente.
In questo contesto si collocano gli eventi
pasquali e il loro significato di liberazione
cosmica.
Sappiamo bene, come esseri umani, di non
poterci liberare da soli da ciò che produce sofferenza e, innanzi tutto, dalla
sofferenza stessa e dalla morte. Questa è una constatazione per così dire sperimentale. Nella fede
religiosa, confidiamo però di ottenere come dono divino, per quella giustizia
misericordiosa che è il cardine delle nostre concezioni religiose, ciò che a
noi è impossibile. La nostra Pasqua, al
modo di quella ebraica, celebra dunque una liberazione,
che però non sarebbe veramente tale se rimanesse solo a livello interiore, psicologico. La storia
della nostra confessione religiosa dimostra che la si è concepita sempre in
senso veramente realistico ed è proprio su questa base che si è cominciato a
cambiare il mondo, in quella storia straordinaria che tanto ha influito,
purtroppo anche nel male, sui popoli della Terra. E' quindi essenziale, per la nostra fede, che
il nostro primo Maestro sia realmente esistito, che sia ciò che ha detto di
essere, che sia realmente morto e risorto il terzo giorno, nell'antica
Gerusalemme, nella domenica della nostra Pasqua. Che dunque, come si
proclama nell'annuncio pasquale, Cristo sia risorto, sia veramente risorto.
Buona Pasqua a tutti i lettori.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli