Riforma e famiglia
La riforma della società viene sempre pensata in base all’esperienza in piccoli gruppi.
Questo fa comprendere quanto sia importante in questo campo la vita che si fa
in famiglia.
Una delle analogie più sfruttate tra grande
e piccolo in
materia di società è quella tra “la” società e la famiglia. La prima spesso viene
infatti pensata come una grande
famiglia, in questo l’analogia. Entrambe presentano relazioni sociali tra
individui non episodiche, ma sistematiche. In entrambe si sono sviluppati
mitologie, riti e istituzioni.
La famiglia ha subìto un processo di
sacralizzazione simile a quello che ha riguardato la Chiesa. Un oggetto, un
luogo, un rito, un’istituzione, una persona, sono sacralizzati quando li si pensa
come voluti da una divinità.
L’antropologia ci avverte che storicamente, e
anche in epoche preistoriche, si osservano moltissimi modelli di famiglia, così
come ai tempi nostri ve ne sono correnti moltissimi.
Nell’Occidente avanzato, dagli anni Cinquanta
si è affermata la famiglia detta nucleare, composta da mamma, papà e da uno o più figli. In genere essa vive in ambito
cittadino, in piccoli appartamenti e gli adulti lavorano nell’industria, artigianato,
commercio e nei settori dei servizi pubblici e privati.
Di solito i cosiddetti tradizionalisti
la sacralizzano in polemica con chi vive altri modelli familiari e ne pretende il riconoscimento civile. Ma si tratta di una tradizione molto recente e certamente non universale, sia
storicamente sia nell’era contemporanea.
Nelle grandi città industrializzate dell’Occidente,
negli ultimi decenni ha preso piede la vita da singole persone per gran parte
della vita, riservando la convivenza al tempo in cui si decide di generare, per
poi riprendere in qualche modo quella da singole persone adulte affiancate dai
figli a loro affidati. Quest’ultimo stile di vita è del tipo familiare, perché
comporta una comunanza di affetti e beni, una solidarietà reciproca. Sempre più
questo elemento comunitario sta affermandosi nel definire l’idea di famiglia,
rispetto a quello generativo. Così ora,
almeno in Occidente, vengono considerate famiglie anche forme di convivenza di
persone non eterosessuali o non unite da legami di tipo sessuale. Sotto certi
aspetti anche le convivenze di tipo religioso o monastico, quindi, vengono a
questo punto considerate famiglie, e già però le si pensava come tali, ma in
senso solo metaforico. Il fatto che in esse ci si proponga di evitare relazioni
sessuali non è più una difficoltà in quel senso, perché, appunto, oggi è l’elemento
comunitario che viene ritenuto preponderante.
Ogni tipo di famiglia ha una componente
politica, perché è una società che necessita di essere governata. Nello stesso
tempo la famiglia ha una propria mitologia religiosa, è anche una istituzione
con un valore religioso. E’ dunque il campo in cui anche i laici, e in particolare
le donne, possono fare tirocinio di riforma sociale e anche religiosa. Questo
specialmente in quelle fasi della vita di famiglia in cui ci si dedica all’accudimento
dei figli. Vi è una generazione biologica, ma ve ne sono anche di sociali e
culturali che, man mano che i figli crescono, assumono sempre maggiore
importanza. La generazione sociale e culturale è ciò che definiamo tradizione.
In essa, naturalmente, è compresa anche
quella religiosa.
Nell’ultimo Concilio si è riconosciuta la ministerialità del lavoro
che si fa da genitori e si è anche parlato (cautamente) di Chiesa domestica.
Non sempre si è molto preparati a svolgere quella funzione, ma si impara dall’esperienza,
in particolare nelle concrete relazioni personali. La nostra predicazione di
solito è poco efficace, non aiuta molto, perché viene fatta da persone che
della vita in famiglia hanno esperienze parziali, fondamentalmente da figli e
figlie, fratelli e sorelle, nonostante che siano loro attribuiti i titoli di padri
e madri.
Noi cattolici siamo governati da schiere di padri
che della paternità non hanno, di
solito, che una concezione molto ideologizzata, e quindi abbastanza irrealistica.
Nel governo della società familiare vengono
rese palesi anche le idee religiose che si hanno sulle relazioni sociali. Un
tempo prevalevano concezioni autoritarie di tipo patriarcale, basate su un
preteso potere sacrale del
maschio. Si è cambiato registro con il Concilio Vaticano 2° (1962-1965), ma
ancora noi sposi e genitori ci becchiamo talvolta rimbrotti di tipo patriarcale
da clero e religiosi.
La pari dignità dei coniugi cristiani, che ora
è parte della dottrina morale e sociale, comporta che nelle decisioni si adotti
uno stile democratico, basato sul dialogo e il rispetto dell’altra persona. Questo
si riflette anche nei rapporti con i figli che, crescendo, pretendono sempre
maggiore autonomia, pur rimanendo legati a lungo alla famiglia di origine. Anche
la tradizione religiosa, in quest’ambito, avviene in modo diverso da passato.
Anche qui deve essere applicato il principio della libertà di coscienza e quindi la religione non è più legata ad una
sottomissione a poteri sacrali degli avi, ma a una consapevole conquista
personale. Questo stile di relazioni familiari può poi riflettersi
positivamente nella costruzione sociale su più larga scala, ad esempio nel
processo sinodale a cui siamo stati chiamati.
Indubbiamente una divisione radicale si
manifesta tra chi è legato alla concezione patriarcale della famiglia e chi
invece vive la famiglia con spirito diverso, diciamo sinodale, per
definire una convivenza in cui si cerca il consenso consapevole piuttosto che l’imposizione
autoritaria. L’andare insieme (il concetto di sinodo) è un correlato del vivere insieme, nella comune esperienza di
famiglia. Ma altro è seguire un pastore patriarcale o muoversi come chiesa, vale a dire ecclesia
e quindi assemblea di persone che si riconoscono reciprocamente uguale dignità.
Il pastore patriarcale è colui
(maschio) che ha una, per così dire, sacralità genetica, in quanto
sessualmente maschio (dominante), che ha in suo potere una famiglia composta da
donne (moglie e figlie) e da maschi (figli) in posizione subordinata.
Storicamente, nel corso del Secondo secolo
della nostra era, l’originaria figura del vescovo, come capo di
comunità, prese nelle nostre comunità delle origini i connotati di pastore patriarcale.
Questo (nuovo) modo di esercitare l’autorità venne assimilato nell’impero greco-romano
nel Quarto secolo, in un processo ancora piuttosto misterioso, e lo stesso imperatore definì se stesso vescovo
in quel senso. Spostatosi il centro dell’impero cristiano in Grecia, da cui ci provengono quasi tutti i
nostri dogmi di fede, e certamente quelli più importanti, il vescovo di Roma,
rimasto in qualche modo emarginato, costruì culturalmente e politicamente, in
un lungo e travagliato processo, una
propria dignità imperiale, che riuscì ad affermare dall’Undicesimo secolo, appoggiandosi ai neo-imperatori
romano-germanici, in particolare
Carlo Magno, vissuto tra l’Ottavo e il Nono secolo, entrando presto in forte
polemica con questi ultimi da cui tentò di emanciparsi. Nei cosiddetti tradizionalisti
dei nostri tempi, questa tradizione
imperiale del Papato romano viene correlata al patriarcato familiare e chiunque
ritenga obsoleto quest’ultimo e gli neghi
sacralità viene additato come colpevole anche di lesa maestà verso quell’idea
di Papato, che però oggi neppure il diritto canonico riconosce più in quei
termini, così come non riconosce più il modello patriarcale di famiglia.
Insomma, un processo di riforma su basi
sinodali può opportunamente partire da quel laboratorio sociale che è la famiglia
in cui viviamo, appunto nella sua effettiva realtà di Chiesa domestica.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.