I Cantieri di Betania – 3 –
Ogni persona interviene nei fatti sociali, che ne sia consapevole o non, modificandoli con il proprio apporto. Ma lo fa, inevitabilmente, in un ambiente sociale storicamente determinato, innanzi tutto da una cultura, che comprende anche la lingua, le concezioni sul senso personale e sociale della vita, i rapporti di dominio sociale e via dicendo. Se lo fa con atteggiamento critico, perché vuole cambiare ciò che c’è, critica, appunto, ciò che c’è e lo fa con gli strumenti culturali che condivide nell’ambiente sociale in cui è immersa.
Le narrazioni evangeliche non fanno eccezione. Il loro ambiente sociale di riferimento è quello dell’antico giudaismo che aveva assimilato elementi culturali dell’ellenismo, quello che negli Atti degli apostoli viene indicato come “i greci”. Questo perché in quel contesto culturale vennero scritti, in greco antico appunto, raccogliendo narrazioni orali. Ma narrano di fatti accaduti in un altro contesto sociale, quello dell’antica Galilea della quale erano originari il Maestro e i Dodici. Era caratterizzato da una certa commistione tra giudei e non giudei, indicati come “le genti”, nel greco evangelico ἔθνη, che si legge ètne, e che si ritiene corrisponda all’ebraico gōyīm [è una translitterazione dai caratteri dell’antico alfabeto ebraico]. Noi traduciamo di solito con pagani, che non ne rende l’idea, perché reca anche il significato dispregiativo di villici, nel senso di burini, che naturalmente ἔθνη - gōyīm non aveva, perché erano considerati tali anche gli ellenisti, portatori di una cultura molto sofisticata. La Galilea veniva indicata in senso non positivo Galilea delle genti, nel senso che ci vivevano tanti non giudei.Quella promiscuità dei galilei con le genti non era vista di buon occhio dal giudaismo espresso dalle autorità religiose organizzate intorno alle liturgie del Tempio di Gerusalemme, nel quale, secondo le narrazioni evangeliche, il Maestro portò un certo scompiglio, cosa che ebbe il suo peso nella decisione di farlo fuori.
Non ci si aspettava granché dalla Galilea ai tempi degli eventi evangelici, come emerge dalla premessa al racconto dell’incontro con Natanaele che troviamo nel Vangelo secondo Giovanni, capitolo 1, versetti 45 e 46 – Gv 1,45-46:
Filippo incontrò Natanaèle e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret [città della Galilea]». Natanaèle esclamò: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi».
Bene, la narrazione che troviamo nel Vangelo di Luca, capitolo 8, versetti da 1 a 3 – Lc 8,1-3, al quale si fa riferimento, nella versione in italiano diffusa dalla Conferenza episcopale italiana nel 2008 [CEI 2008], per contestualizzare l’episodio evangelico del dialogo con Marta, che nel documento I Cantieri di Betania è stato proposto come riferimento spirituale, è indicativa di costumi più liberi di quelli seguiti a Gerusalemme. In particolare si racconta di molte donne che scelgono.
Riporto in fondo una riflessione in merito dell’autorevole biblista Gianfranco Ravasi, divulgatore molto efficace.
In Lc 8,1-3 è narrata con grande evidenza la presenza di molte donne nel gruppo che giunse nel villaggio dove abitavano Marta e Maria. Spesso nella predicazione le ho sentite presentare un po’ come delle specie di nostre suore, ma nulla nella narrazione evangelica autorizza a ritenerle tali. Erano donne che avevano deciso di porsi in sequela senza intorno qualcun altro del loro ambiente parentale, nel quale all’epoca le donne erano come incastrare. Di tre di loro si fanno i nomi: di una si fa il nome del marito, Cuza, alto funzionario della corte del sovrano della Galilea, Erode Antipa, tetrarca sotto il dominio imperiale dei romani. Dov’era il marito? Ma ce n’erano molte altre è scritto. Poi c’erano i Dodici, che, appunto, erano dodici.
Quelle molte donne, in fondo libere, αἵτινες διηκόνουν αὐτοῖς ⸀ἐκ τῶν ὑπαρχόντων αὐταῖς [dal versetto 3 del capitolo 8 del Vangelo secondo Luca - si legge: àirines (esse] diekónun (aiutavano sostenendo] autòis, ek ton uparcònton (con ciò che possedevano) autàis] non si limitavano quindi a seguire, perché è scritto che svolgevano una diaconia [è nella parola diekònun], vale a dire che sostenevano il gruppo che era in sequela e lo facevano con ciò che possedevano. Erano quindi donne che non solo erano libere di seguire, ma anche di disporre autonomamente di beni propri per quello scopo. Sia pure nella Galilea delle genti, si era pur sempre nel contesto dell’antico diritto giudaico, che in genere non riconosceva alle donne il potere di disporre dei beni patrimoniali, anche se di loro proprietà.
Nella nostra tradizione ecclesiastica la diaconia è divenuta un ministero ecclesiastico ordinato minore riservato ai maschi. La si pensa un po’ come un servire al modo degli assistenti sociali, ma i biblisti avvertono che non era questo il senso che le si attribuiva al tempo dei fatti narrati nel Nuovo Testamento. Si fa notare ad esempio che Stefano, protomartire, fu, appunto, diacono e negli Atti degli apostoli gli si attribuisce una sofisticata ed estesa predicazione, durante il processo che precedette la sua esecuzione capitale per lapidazione [leggi gli Atti degli apostoli, capitolo 7, versetti da 1 a 53].
Il gruppo dei galilei, con i Dodici e quelle molte donne piuttosto libere, si narra sia arrivato, nella sua sequela, nella casa dove abitavano Marta e Maria, in quel villaggio che in base a notizie che troviamo nel Vangelo secondo Giovanni identifichiamo nell’antica Betania, in Giudea, a circa tre chilometri a oriente di Gerusalemme. Qui avvenne l’episodio del dialogo con Marta, con l’insegnamento sulla parte migliore, narrato nel Vangelo secondo Luca, nel capitolo 10, versetti da 38 a 42, utilizzato con grande risalto ne I Cantieri di Betania.
Bisogna dire che nel capitolo 10 del Vangelo di Luca si narra anche del secondo invio di settantadue discepoli in giro per varie città dei dintorni con questo incarico: - guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: «È vicino a voi il regno di Dio» -. La gente che era alla sequela era quindi più numerosa dei Dodici e di quelle molte donne. Chi, oltre al Maestro, fu ospitato nella casa di Marta e Maria? Non è scritto.
La narrazione di quel dialogo con Marta mette in scena solo il Maestro, Maria, la quale ascoltava la sua predicazione, e Marta, che, molto indaffarata, serviva come facevano di solito le donne di quel tempo. È scritto che c’erano molti servizi di quel genere da fare nella casa e che Marta appariva agitata, sentiva bisogno di un aiuto. Molti servizi fa pensare a molta gente da servire. Inoltre il Maestro, quando predicava, si rivolgeva a più persone. C’era qualcun altro ad ascoltarlo, oltre a Maria, in quella casa? C’erano in particolare le altre donne che lo seguivano? Non c’è scritto. È scritto invece che Marta era stata lasciata sola a servire. Dunque nessun’altra donna la stava aiutando [leggi nel versetto 40 del capitolo 10 del Vangelo secondo Luca – Lc 10,40: «non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire?».
Penso che ciò che non fu scritto non fu considerato importante in quel contesto. E io in questo momento voglio concentrarmi su ciò che fu considerato importante. Non sono un biblista, né un filologo: sto meditando su quel brano evangelico, sollecitato dal documento I Cantieri di Betania del nostro episcopato, come nutrimento della mia spiritualità e della mia preghiera.
Dunque è scritto che Marta si rivolse al Maestro, interrompendone il filo della predicazione, per chiedergli che ordinasse a Marta che l’aiutasse in quei molti servizi, diciamo domestici. Perché non si rivolse direttamente a Maria? Non è scritto.
Fatto sta che il Maestro le rispose che Maria aveva scelto la parte migliore, che non le sarebbe stata tolta (Lc 10, 42). E anche, poco prima: «una sola è la cosa di cui c'è bisogno» (stesso versetto).
Di solito nella predicazione si cerca di conglomerare i personaggi di Marta e di Maria, facendone una suoresca Martamaria per dire che alle donne in religione competono entrambi i ruoli, e questo serve al clero anche per risolvere i suoi problemi di ricerca di colf e di personale alberghiero.
Tuttavia non mi sembra che questa interpretazione corrisponda al detto evangelico. «Una sola è la cosa di cui c’è bisogno». Le due donne dell’episodio evangelico impersonarono un’alternativa, e Maria fece una scelta. Non è scritto, invece, che Marta scelse i servizi domestici. Del resto questi ultimi mi pare rientrassero nel ruolo sociale femminile di allora: arriva gente a casa e le donne preparano. Non è così che anche da noi, in genere, accade? Non era necessaria una scelta.
Lo scegliere mi pare accomuni Maria con le molte altre donne che, appunto, avevano scelto la diaconia nella sequela, con un atteggiamento anche qui difforme dal loro ruolo sociale, ma evidentemente approvato dal Maestro.
Questo atteggiamento di scelta non conformista da parte delle donne evidentemente era un tratto caratteristico della diaconia femminile formatasi intorno al Maestro, tanto da essere così evidenziata dall’evangelista. Anche in altre parti del Nuovo Testamento se ne parla.
Anche quella dei nostri vescovi di metterla al centro di un documento, I Cantieri di Betania, che cerca di organizzare attività comunitarie per riflettere su un modo più partecipato e responsabile di fare Chiesa, è stata evidentemente una scelta, centrata sul tema della diaconia femminile, stravolta e immiserita nel corso dei secoli rispetto alle origini.
Alcuni osservano che la dignità della donna come oggi viene concepita nelle società democratiche dell’Europa occidentale non emerge negli insegnamenti evangelici, che facevano riferimento alla cultura del loro ambiente sociale di riferimento. Il Maestro fu un galileo del Primo secolo e il suo insegnamento ci è narrato in documenti prodotti dal giudaismo ellenizzante della stessa era, in fase di distacco da quello centrato sulla cultura sociale dell’antica Giudea. E rispetto a quest’ultima era marcatamente critico, esprimendo quello che è stato definito (Karl Barth) come un blando anarchismo). Però al suo centro c’è anche, per uomini e donne, la questione della scelta e, in particolare, di una diaconia di sequela liberamente scelta, che non annullava la libertà.
Nella nostra Chiesa, purtroppo, il tema della libera diaconia delle donne è ancora una sorta di tabù, anche a causa dei duri interdetti risalenti all’inverno ecclesiale vissuto tra l’85 e il 2013, anch’essi espressione di una determinata cultura sociale in cui s’erano formati coloro che ritennero di imporceli, con condizionamenti ambientali dai quali neppure i santi, come ben sappiamo, riescono del tutto ad evadere, sebbene facciano tanto soffrire. Ogni persona vede le cose con gli occhi di quelli del suo tempo, anche quando tenta di superarlo, e non ci si può fare nulla, perché è così che funzionano le nostre menti.
L’organizzazione del lavoro sulla sinodalità avviato dai nostri vescovi risente certamente dei condizionamenti ambientali, anche perché è prevalentemente produzione del clero, e il clero è fatto in prevalenza di persone che vivono come virtù a)la libera rinuncia alla libertà, b)l’ineguale diaconia di uomini e donne basata solo sul genere, sull’essere uomini o donne, con il genio di queste ultime orientato a ruoli di accudimento per natura, quindi c)la separatezza nell’essenziale tra uomini e donne. Questa è, oggettivamente, la base di partenza. Ma il documento dei vescovi non ha impostazione conservatrice o addirittura reazionaria.
I condizionamenti ambientali e storici spiegano il minimo accento esplicito alla questione femminile nella Chiesa che troviamo ne I Cantieri di Betania. E tuttavia, orientando la riflessione su quel brano evangelico dell’episodio avvenuto nella casa di Marta e Maria, è effettivamente come se si fosse centrata tutta la ricerca sulla sinodalità su quel tema, e questo davvero non è poco.
Su quella base biblica ci è stata data, in definitiva, la facoltà di parlare.Facciamolo.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli
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Dal Web:
https://www.famigliacristiana.it/blogpost/le-donne-discepole.aspx
Famiglia Cristiana on line (su internet), 14 marzo 2019
“Le donne discepole” di Gianfranco Ravasi, biblista, nella rubrica “50 parole greche del Nuovo Testamento”
I lettori che seguono con continuità il nostro viaggio testuale all’interno del Vangelo di Luca ricorderanno che la scorsa settimana abbiamo presentato una figura femminile apparentemente sconcertante – era una nota prostituta – trasformata in un esempio di conversione e liberazione dopo l’incontro con Gesù (7,36-50). Subito dopo la narrazione di tale episodio leggiamo questa nota: «Egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni» (Luca 8,1-3).
Gettiamo, allora, lo sguardo su questo corteo che accompagna Gesù. Ecco innanzitutto i Dodici: è piuttosto scontato per un rabbì essere scortato dal gruppo dei suoi discepoli. Inatteso è il resto dei seguaci: una piccola accolta di donne che avevano alle spalle storie di sofferenza, rubricate secondo il linguaggio del tempo, in malattie varie ma anche in possessione di «spiriti cattivi». Sappiamo che nelle culture antiche, compresa quella biblica, avvenivano spesso contaminazioni tra il demoniaco e le infermità. Esemplare è il caso della lebbra che “scomunicava” chi ne era affetto perché la si considerava punizione di una colpa grave del soggetto. Anche il ragazzo – che ai piedi del monte della Trasfigurazione è guarito da Cristo e che rivela indubbiamente i sintomi dell’epilessia – è considerato dal suo stesso padre vittima di uno “spirito” maligno (Luca 9, 37-43).
Se già non era decoroso per un rabbì avere donne come discepole, a maggior ragione era sconveniente essere in compagnia di figure femminili che avevano alle spalle storie oscure. Di alcune di costoro affiorano i nomi: la prima è Maria di Magdala, «dalla quale erano usciti sette demòni», un tratto biografico che è da spiegare con quanto abbiamo sopra detto, ma che la tradizione ha subito interpretato assegnandole inopinatamente il ruolo di prostituta e identificandola con l’omonima peccatrice della citata scena precedente, svoltasi nella casa di Simone il fariseo. Noi, però, lasciamo a parte la Maddalena perché ne delineeremo un ritratto più avanti, in occasione della sua memoria liturgica che cade il 22 luglio.
A lei è accostata una nobildonna non altrimenti nota, Giovanna, moglie di Cuza. Quest’ultimo è definito in greco epítropos, vocabolo che può essere tradotto con “sovrintendente” o “amministratore” o anche “fattore” (tale è nella parabola dei vignaioli assunti nelle diverse ore del giorno in Matteo 20,8) e persino “tutore” (Galati 4,2). In realtà, Cuza è un alto funzionario del re Erode Antipa, figlio di Erode il Grande. Questo sovrano emise la sentenza di morte per il Battista e resse la Galilea dal 4 a.C. al 39 d.C. Segue nell’elenco una certa Susanna, che portava lo stesso nome di un’eroina di onestà dell’Antico Testamento (Daniele 13).
Infine vengono evocate «molte altre» donne che sostenevano con i loro «beni» questo predicatore ambulante privo di sussidi finanziari e votato alla povertà. Il verbo usato per indicare la loro opera è diakonéin, “essere al servizio”, ma con una sfumatura di amore, fede e generosità (dal verbo, infatti, deriva la parola “diacono”). Le donne, che nella società giudaica antica non erano neppure un soggetto giuridico, sono invece le compagne di viaggio e di missione di Gesù, al quale offrono quanto posseggono con una generosità che non sarà certo testimoniata da uno degli apostoli, Giuda, che «era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro» (Giovanni 12,6).