Dai Natali passati
1. Una commessa del supermercato
vicino casa mia anni fa manifestò a mia
moglie il suo stupore per l'aggressività mostrata dai clienti nei giorni sotto
Natale nel fare le ultime spese prima delle feste, in particolare per i regali e per le cibarie del pranzo natalizio. E' una cosa che risalta anche nel
grande centro commerciale non lontano dal quartiere dove abito e nelle strade
del centro di Roma solitamente frequentate per le spese natalizie e a piazza
Navona, dove bisogna portare i
bambini tra Natale e la Befana. Le consuetudini sociali delle feste natalizie
spingono fortemente a comprare e a mangiare,
ma talvolta non lo si fa con la gioia che dovrebbe scaturire dalla
comprensione interiore della teologia natalizia, ma con affanno, per essersi
ridotti agli ultimi giorni, con angoscia, perché si pensa che i soldi non bastino
(è a volte è proprio così), e anche con un certo rimorso, per averne spesi
tanti per un obbligo sociale senza
che gli eventi delle feste, in particolare il "Natale con i tuoi", diano particolare soddisfazione.
Ieri, sul quotidiano che di solito leggo, c'era un articolo in cui si davano
consigli per evitare che il pranzo natalizio si trasformi in un incubo a causa dell'incapacità di parenti e amici di
coesistere pacificamente almeno in quell'occasione, lasciando fuori della porta
i motivi di divisione e contrasto. Insomma, a volte il Natale diventa un obbligo sociale costoso e sgradito e c'è chi
sbotta esclamando che non vede l'ora che questo tempo passi e si ritorni alla
vita normale. Solo nei genitori di
bimbi piccoli questo sentimento è attenuato, perché queste cose "si organizzano per loro",
cosicché quella che viene definita la magia
del Natale diventa essenzialmente una cosa per bambini. Di tutto questo il
clero si lamenta e, in fondo, vi vede un proprio insuccesso nello spiegare il
Natale alla gente, perché sempre meno si nota il significato religioso di
queste feste sociali e, in definitiva, la giustificazione del fare festa la si
trova semplicemente nel fare festa,
in una teologia alternativa che è quella di Babbo
Natale, secondo la quale, in particolare, solo i bambini sono spinti ad essere più buoni, per ricevere dei premi dagli adulti - babbi natale, in quella sorta di giudizio universale in cui per i più
piccoli finisce per consistere la festa. E per un bambino che vive questo
Natale della teologia alternativa può anche sorgere il dubbio che Gesù bambino sia Babbo Natale da
piccolo.
Del
resto non è facile né immediato capire la sofisticata teologia
dell'Incarnazione che sta alla base dell'istituzione delle feste natalizie. Fin
dagli inizi essa fu cosa per teologi. Non deve ingannare l'apparente semplicità
delle narrazioni evangeliche sui fatti della nascita del Nazareno, sulle quali
le preoccupazioni teologiche di molto successive a quell'evento hanno influito
in misura rilevante e ciò fin dal primo formarsi della tradizione che è
alla base dei racconti confluiti nei
Vangeli canonici. Abbiamo scarsi riscontri della verità storica, secondo i
criteri che gli storici utilizzano per vagliarla, delle storie evangeliche, ma
in particolare per quanto riguarda la nascita del Nazareno, fin dal particolare
del luogo di questo fatto. Le origini della nostra fede non vanno situate nelle
montagne (che però non sarebbero
considerate tali secondo i criteri che usiamo in Italia) della Giudea, ma nelle
pianure e basse colline della Galilea intorno al lago di Tiberiade. Del resto
al nostro primo Maestro fu dato l'appellativo di Nazareno, nel senso di originario della città di Nazareth, in
Galilea, (e di Nazoreo, parola il cui
significato però non si ritiene coincidere con quell'altra, indicativa della
provenienza geografia) e i suoi primi seguaci venivano facilmente riconosciuti,
dal loro accento, come provenienti dalla Galilea. Anche nell'individuazione della città di
Nazareth come quella in cui il nostro primo Maestro crebbe, si ritiene che
possa aver avuto influenza l'intento teologico di evidenziare come le Scritture
avessero preannunciato la sua nascita, il suo avvento, in quel luogo.
La teologia cristologica ha potentemente agito
sulla comprensione del senso dell'Avvento,
inteso come abbassamento del
fondamento soprannaturale di tutto fino alla nostra dimensione umana per la
nostra redenzione, in tutta la storia del pensiero espresso dalla nostra fede, fino all'epoca
attuale. In particolare è stata ed è molto coinvolgente per moltitudini di
fedeli quella proposta dal pensiero e nell'esperienza di vita di Francesco
d'Assisi in cui quell'abbassamento è declinato anche nel senso di farsi povero tra i poveri, un aspetto che, per quanto ho capito, era meno
presente nell'originaria teologia natalizia e ha sorretto l'ideologia
pauperistica la quale è ancora molto forte nella nostra attuale comprensione
della fede ed è collegata con uno stile di vita penitenziale che, per ciò che ritengo di aver compreso, non
caratterizzava le nostre prime collettività religiose. In queste ultime, per
come si legge in quelle parti delle nostre Scritture sacre che ne trattano,
c'era la consuetudine di vendere i propri
beni, ma non per farsi poveri, ma
per metterli in comune, in modo che tutti
i fedeli della comunità potessero beneficiarne, secondo le loro necessità,
secondo quello che è stato definito un comunismo
delle origini della nostra fede.
In definitiva mi pare che ogni tempo abbia
espresso una sua particolare cristologia, e quindi poi una sua teologia del Natale, e questo anche tenendo conto solo di quelle
che sono state considerate in linea con quella dogmaticamente fissata tra il
quarto e il quinto secolo della nostra era. Ad esempio, quella espressa da
Francesco d'Assisi risentiva fortemente dei problemi che la collettività di
fede manifestava a quei tempi per quanto riguardava i costumi dei potenti, dei
prìncipi civili e di quelli religiosi. E allora il problema del Natale che abbiamo oggi, per cui talvolta non
riusciamo a vivere queste feste con gioia,
può essere individuato nel fatto che non disponiamo più di una teologia del Natale che ce ne faccia comprendere il senso nella civiltà in
cui viviamo, o meglio, nel fatto che la teologia
del Natale corrente in larghe masse
di gente non è più di origine cristologica, ma babbonatalistica. I colori del Natale in tutto il globo, da noi
come nelle nazioni in cui lo si festeggia
senza più il minimo riferimento religioso, sono in fondo quelli scelti dalla
statunitense The Coca-Cola company per la sua bevanda di maggior successo
commerciale. Né è pensabile sanare la ferita con il puro e semplice recupero di
una delle teologie natalizie storicamente precedenti, perché esse non
rispondono più alle domande che per le persone umane scaturiscono dalla loro
vita sociale di oggi in merito al senso ultimo dell'esistenza. Ciò è
rappresentato con molta evidenza dall'incredibile e confusa accozzaglia di
personaggi che su certe bancarelle del
presepe vengono proposti per animare i
presepi delle nostre famiglie,
che ancora si fanno richiamandosi all'esempio di Francesco d'Assisi. Non si
riesce più a cogliere il senso blasfemo di certe inclusioni di statuine nel
presepe.
C'è un lavoro da fare ed esso spetta ai teologi. Noi fedeli comuni possiamo solo tentare di sperimentare nuove vie per dare un
senso al Natale, all'avvento del Dio -con-noi, nella nostra
storia di oggi, non rassegnandoci all'oblio dello cristologia fondativa della
nostra fede. Su queste esperienze poi rifletteranno i teologi, secondo la loro
scienza.
2. Il
Natale in genere viene
considerato una festa della famiglia: si sta con i propri cari e ci si scambia
dei doni. Ci si fanno anche degli auguri per l’anno che viene. C’è anche la vaga
idea che per, almeno per un giorno, si debba cercare di essere più buoni. E’
rimasta la sensazione che nella festa sia coinvolte potenze soprannaturali, che
vengono perlopiù iconograficamente rappresentate in un magico vegliardo
vestito con i colori di The Coca Cola Company –Atalanta - GA – USA. Ci
dicono che la festa trae origini da antiche tradizioni che celebrano la luce
che vince le tenebre. Quest’ultima idea ci può collegare al suo significato
religioso più recente: “lux lucet in tenebris”, espressione tratta dal Vangelo
di Giovanni, è scritto sulla facciata del Tempio valdese, qui a Roma, a piazza
Cavour, di fronte al “nostro” Palazzaccio. Il Natale è infatti una festa
cristiana.
Nella
liturgia cattolica la festa dura otto giorni, fino a Capodanno. Si celebra
sempre lo stesso evento. In epoca carolingia si è iniziato a contare gli anni a
partire da esso, ci si è costruita sopra un’«era». Il momento iniziale è ipotetico, le fonti sono imprecise. Si
è voluto con ciò segnalare l’importanza di una svolta che aveva
cambiato l’antico mondo greco-romano e segnato profondamente l’evoluzione
delle culture europee, che è proseguita fino a noi. Essa consistette
nell’innesto dello stupefacente senso di giustizia sociale dell’antico ebraismo,
che Emmanuel Levinas definiva “meraviglia
delle meraviglie”, nell’ideologia filosofica e politica greco-romana,
realizzando in tal modo la sua universalizzazione. Lo strumento culturale che
consentì questo processo fu la traduzione in greco della Bibbia ebraica, la
versione cosiddetta dei “Settanta”, risalente all’Egitto del terzo secolo
dell’era antica, in epoca ellenistica. Ma la sua macchina incubatrice fu la
Galilea del primo secolo, la Galilea delle genti, uno straordinario melting pot
in cui si attuò un vivace incontro/scontro di civiltà. A partire dal quel
marginale, veramente periferico, frammento di umanità si produsse nel giro di
quattro secoli la completa sostituzione dell’ideologia religiosa, politica e
sociale dell’impero che allora dominava i popoli del Mediterraneo e di parte
dell’Europa settentrionale, i precursori di coloro che, nell’Ottocento e
Novecento, giunsero ad essere i dominatori del mondo. Si tratta di un processo
sul quale a scuola ci sono state date scarse notizie e ancor meno nella
formazione religiosa di base, per quelli che vi sono stati esposti. Di solito
si passa dal raccontare dei cristiani perseguitati al narrare dei cristiani
dominatori politici. La fase intermedia è avvolta nel mistero. In effetti c’è
proprio un problema di fonti. Quello su cui di solito si concorda era che nel
primo secolo della nostra era c’era un’attesa di qualcosa come l’ideologia
cristiana. L’insoddisfazione per l’ideologia antica emerge con molta chiarezza,
ad esempio, già negli scritti platonici (5°/4° sec. era antica).
La
narrazione cristiana sul Natale ci presenta il Bimbo del Natale come l’Atteso,
e anche l’Annunciato. In essa c’è molta teologia e molta politica. Il Natale
cristiano essenzialmente non è, insomma, una “festa della famiglia”, come
spesso si usa presentarlo in religione. E, per la verità, nonostante la grande
importanza che oggi si dà alla famiglia nell’etica cristiana, essa è quasi del
tutto assente nelle fonti neotestamentarie. Il Natale in senso religioso ci
parla di una straordinaria metamorfosi sociale.
La
famiglia del Bimbo del Natale viene, come dire, “risucchiata” verso la Giudea,
dalle origini galilee, per adempiere a quelle attese. Queste ultime piombano
addosso a quella mamma e a quel papà sotto forma di sogni, di una visione
angelica e poi di alcune profezie fatte alla madre sull’infante durante suoi
soggiorni in Giudea. I genitori del Bimbo accettano, consentono, di farsi
collaboratori della realizzazione di quelle attese. Ma non viene chiesto loro
nulla di eccezionale, solo di fare quello che tutte le mamme e tutti i papà
fanno per i loro bimbi. Si prendono cura del piccolo, lo nutrono, lo vestono,
lo proteggono, lo educano. E ciò in linea, per ciò che credo di aver capito,
con l’idea di giustizia dell’ebraismo di tutti i tempi, che la vede realizzata
a partire dalla quotidianità, e anche nelle consuetudini più minute,
nell’osservanza anche di precetti minimi e solo apparentemente senza
importanza, mentre essa, in realtà, “fa
siepe” intorno ai principi più grandi ed è espressione del medesimo anelito
di santità. Ciò emerge anche dal successivo insegnamento del Maestro secondo
cui chi trasgredisce nel piccolo sarà considerato piccolo anche al momento
dell’appagamento delle attese. La mamma e il papà del Bimbo del Natale sono
considerati importanti esempi di vita di fede dai cristiani. La teologia del
Natale è molto più di una mitologia. Non mira a sorprendere con “effetti
speciali”, che pure vi sono, e possono essere considerati come una sorta di
colonna sonora della narrazione.
Il
prendersi cura degli altri è al cuore della teologia cristiana. Si verrà
giudicati, è scritto, in base a come ci si prende cura degli altri. E’ una
teologia che vediamo espressa nella narrazione di quel viandante che, scendendo
verso Gerico, si imbatte in un uomo lasciato mezzo morto per strada da
briganti, e se ne prende cura. Ma anche nel ministero pubblico del Maestro, che
ci viene presentato addirittura commosso fino alle lacrime di fronte alla morte
di un amico, e ancora vedendo folle che non hanno di che mangiare e i malati e
i sofferenti. Egli non rimane inerte, si attiva e si prende cura degli altri.
Questo atteggiamento caratterizza la figura del re-pastore del suo popolo che
esprime la particolare forma di regalità nella concezione cristiana. Un
modello, quello del pastore, del tutto avulso dalla funzione economica della
pastorizia, che in realtà comprende anche il trarre vantaggi economici dal
gregge, e tutto concentrato, appunto, solo sul prendersi cura degli altri,
senza lasciare che nessuno si disperda. Il cristiano è uno che si fa
coinvolgere dalle sofferenze altrui e si prende cura dei sofferenti. Questa
concezione è alla base di tutto il pensiero sociale cristiano che si è espresso
in varie forme nei due millenni della storia di questa fede fino a che, in una
straordinaria metamorfosi che ne ha comportato una ulteriore
universalizzazione, si è trasfuso nelle grandi dichiarazioni politiche sui
diritti umani dalla fine del Settecento in poi. Un processo che è tuttora in
corso. In qualche modo, insomma, le attese delle origini non sono mai state
colmate.
La
politica è stata spesso di ostacolo. In particolare l’ibridazione con la
tradizione del diritto romano, nel campo costituzionale e in quello
civilistico, ha comportato problemi. Essi si sono manifestati in modo sempre
più grave in particolare nel secondo millennio dell’era cristiana, quando la
Chiesa cristiana occidentale, centrata su Roma, venne organizzata come un
impero religioso, sul modello feudale, esprimendo una corrispondente teologia,
un imponente apparato giuridico specializzato e un’efferata polizia
ideologica, modello di tutte le successive organizzazioni del genere. Negli
scorsi anni Sessanta iniziò il processo di destrutturazione e di metamorfosi di
quest’ordine divenuto oppressivo e controproducente, processo che, dopo un
congelamento trentennale sembra aver ripreso il suo corso. Il fattore
propulsivo decisivo di questo moto di riforma è stato, dalla metà
dell’Ottocento, il ripartire di un’azione di popolo per la giustizia sociale,
non più comprimibile in religione con mezzi autoritari, per l’affermarsi della
democrazia politica. Si è trattato di un processo che in Italia è stato
particolarmente evidente. Esso ha lasciato profonde tracce nel nostro sistema
giuridico e ha influenzato in maniera determinante le decisioni dei saggi del
Concilio Vaticano 2°, negli scorsi anni Sessanta. E’ la luce che, insieme a
molte altre che vengono da altre componenti sociali, continua a risplendere
nelle tenebre sociali. E’ la luce del “prendersi cura”, la luce che risplende
nel Natale religioso.
3. Il Tempo liturgico di Natale dura circa due
settimane, fino alla festa del Battesimo del Signore, la domenica dopo la
solennità dell'Epifania, che in questo anno liturgico cadrà il prossimo 10
gennaio. Per i primi otto giorni dal giorno di Natale, dal punto di vista
liturgico è come se si fosse sempre in quel giorno. La rilevanza liturgica del
Tempo di Natale manifesta che le festività natalizie spingono a portare
l'attenzione della gente su un aspetto molto importante della nostra fede, la
cui comprensione è maturata nel corso dei cinque secoli dopo l'evento delle
resurrezione del Nazareno. Uno dei motivi per cui non mi attira l'idea di un ritorno alle origini, ai tempi
apostolici, è che esso mi priverebbe del Natale.
La teologia, la comprensione della nostra
fede, che sta dietro alle feste natalizie è piuttosto complessa. Uno dei suoi
temi mi pare che sia la capacità dell'esistenza umana di contenere e
manifestare il fondamento soprannaturale, quindi di essere più che una parte della natura. Questa concezione, che
è stata profondamente assimilata nella civiltà europea anche se se ne è persa
in genere consapevolezza (essa quindi rimane come teologia implicita, non più esplicita),
desta ancora molto scandalo in altre religioni storiche contemporanee. Essa è
alla base dell'ideologia egualitaria e
dei diritti umani fondamentali che caratterizza molto l'Europa politica di
oggi. Le si contrappongono, ad esempio, l'ideologia e la correlata teologia
implicita (che si richiama all'antico confucianesimo) della Cina continentale
contemporanea, che manifesta oggi un modello vincente, capace quindi di imporsi su moltitudini e di governarle,
alternativo alla civiltà europea.
In realtà, quando celebriamo il Natale, non torniamo quindi alle origini, intesi
come il tempo dell'esistenza terrena del nostro primo Maestro, ma riflettiamo
su quella teologia cercando di aprirne/rinnovarne la comprensione tra le masse
con il potente strumento della liturgia, che è appunto azione di massa. Essa, centrata sulle narrazioni evangeliche della
nascita del Nazareno, consente di proporre una sintesi pacificata del cuore delle concezioni di fede in materia, le quali
in realtà ebbero storicamente uno sviluppo piuttosto travagliato e, come
ciclicamente è accaduto nella storia della nostra confessione religiosa, anche
violento, crudele e mortifero. Infatti nelle nostre collettività religiose ci
si è molto accapigliati per questioni teologiche, e questo è un tratto che
veramente risale alle origini, e, da
un certa epoca in poi, da quando la nostra fede divenne l'ideologia dell'impero
mediterraneo in cui si era diffusa e che per almeno tre secoli aveva tentato
senza successo di estirparla o almeno di
contenerla, ci si è anche molto combattuti nel vero senso del termine. Ai tempi
nostri le questioni vengono affrontate con un altro spirito, anche se una certa
aggressività permane, e questo nuovo modo di ragionare sulle questioni di fede,
per cui non ci si uccide più per controversie teologiche, è esso stesso uno
sviluppo prettamente teologico (e abbastanza recente) delle concezioni di fede che stanno alla base
delle festività natalizie. Un altro motivo per cui non mi entusiasma il
programma del ritorno alle origini è
che, seguendo questa tendenza, perderei questo sviluppo importante della nostra
comprensione della fede comune, ricadendo nelle ere che oggi consideriamo buie in
cui per questioni religiose si emarginava e si uccideva.
Dunque, l'esistenza umana, di ogni essere
umano, manifesta il suo fondamento soprannaturale. Questo significa che essa,
pur scaturendo da un processo di natura, non è riducibile ad esso. Di
questo in genere ci si convince nel progredire della propria interiorità
personale a contatto con la cultura del proprio tempo, in cui si è immersi. Si soffre nel vedersi ridotti a parte di un meccanismo
naturale o sociale, ma anche nel vedere
gli altri ridotti in questa condizione. C'è una verità su di noi, che è
quella appunto manifestata nel Natale, che ci
libera da una condizione di asservimento in cui fatalmente si cade nella
propria vita di esseri umani, e che riguarda il decadimento naturale del nostro
corpo e i condizionamenti sociali della nostra esistenza. Questa verità, in
fondo, contrasta con la natura e la storia così come ci si presentano, diciamo
con il mondo così com'è. Ma senza di essa noi perdiamo
la speranza, che è ragione di vita
per gli esseri umani. Siamo dunque consapevoli di vivere una realtà personale minacciata, al modo in cui lo è la vita
di un neonato, che dipende in tutto da qualcuno che si prenda cura di lui. E
tuttavia che il senso della vita umana e la nostra capacità di sperare si basano su questo non accettare la condizione
di asservimento e di riduzione che quella minaccia induce, ma di prendersi cura dell'esistenza umana per elevarla alla sua verità, al modo in cui
lo si fa quando si diventa genitori tra gli esseri umani, che è molto più
impegnativo di ciò che avviene in natura tra gli animali che biologicamente ci
sono più simili.
I racconti del Natale ci dicono che la nascita
di un essere umano è molto più di un semplice fatto riproduttivo, di ordine
biologico, perché un essere umano è molto più della sua biologia. Esso è capace
del soprannaturale, nel senso che lo contiene e lo manifesta. Questo spiega la
pervicacia con cui in religione ancora (ma si tratta di idea che risale
effettivamente alle origini) ci si oppone a concezioni che tendono a
considerare e a trattare la vita umana solo
nella sua biologia e utilità sociale, facendo distinzioni tra coloro che meritano di vivere e coloro che per vari
motivi possono essere soppressi. Naturalmente
appare paradossale come una teologia animata da questi principi possa aver
fatto, storicamente, tante vittime umane, ed effettivamente lo è, almeno con la
nostra sensibilità contemporanea. Da un lato ciò si spiega, storicamente, con
la stretta connessione che, da una certa epoca in poi, ha legato la nostra
confessione religiosa ai poteri civili, per cui ogni variante teologica veniva
anche apprezzata come sovversione politica,
con ciò che ne conseguiva in termini penali, e poi col fatto che certi principi
venivano considerati tanto importanti e la loro affermazione nel dialogo
pacifico tanto difficile che, talvolta, si preferiva tagliare corto ed
estirpare le opinioni contrarie e chi le sosteneva. Ai tempi nostri i problemi
sono diversi, ma ci sono. In Europa, in particolare, c'è la difficoltà di
esprimere una teologia esplicita che faccia riscoprire il fondamento religioso
di valori considerati fondamentali nell'ordinamento sociale e politico del
nostro continente, ma anche di far prendere coscienza, di generazione in
generazione, di quella verità sull'esistenza umana di cui dicevo. Le due
questioni, in ordinamenti politici di democrazia popolare avanzata, sono
strettamente connesse, perché radicare
certi valori nella masse significa
anche, attraverso i meccanismi democratici, ottenere il riconoscimento sociale
e politico. Il radicamento sociale dei valori di fede non è più, come accadde
per circa millecinquecento anni nelle civiltà cristiane, una questione di accordi tra sovrani civili e religiosi, ma dipende dai
meccanismi democratici, che funzionano bene se si riesce a elevare le masse ad una condizione di non pura rassegnazione ad
essere soggette a meccanismi biologici e sociali, che equivale a diffondere tra
di esse la speranza di fede. Per
certi versi le nostre teologie e i nostri consueti metodi di diffusione delle
concezioni religiose sono inadeguati a questo fine; essi infatti si sono
formati in epoche del passato, in cui in fondamenti della coesione sociale
erano molto diversi e, benché si sia cercato di adattarli ai tempi nuovi,
risentono ancora della loro origine storicamente datata. C'è anche la tentazione,
talvolta, di sfruttare le occasioni che, per certi versi, le crisi delle
democrazie popolari contemporanee offrono alle vecchie concezioni e, ad
esempio, di puntare molto su personalità carismatiche per l'affermazione dei
valori di fede, al modo in cui nelle crisi delle democrazie emergono capi
populisti, e ciò per suscitare adesioni emotive e conformistiche, un modo in
fondo per ridurre le masse a meccanismo sociale invece che elevarle al di sopra
di esso.
Essere veramente coinvolti nel Tempo di Natale
significa cogliere la sfida che i
tempi nostri ci propongono e, insieme, l'impegno
che storicamente ci viene richiesto, nell'interesse della comune umanità:
radicare la speranza religiosa nel
mondo di oggi non rinunciando ad alcuna delle grandi conquiste di civiltà dei
nostri tempi.
4. Anni
fa, in prossimità del Natale celebrammo in una riunione del nostro gruppo di AC
a “liturgia” del presepe vivente ideata da Lorenzo Daniele, nel corso della
quale si allestisce insieme il presepe, deponendovi una propria statuina e
formulando un pensiero. Quando mi
accostai al presepe con la mia statuina del pastore tra le mani per dire il mio
pensiero su questo Natale, mi trovai in
difficoltà, come sempre mi è accaduto in occasioni simili. Per quanto infatti
sia molto affezionato al presepe, tanto che in casa mia ce n’è sempre uno
piccolo allestito, mi riesce difficile uscire dalla pura e semplice
contemplazione della rappresentazione. Questo mi accade perché sento molto
forte il rischio, e la tentazione, di riversarvi sopra ideologie mie o altrui
che lasciano il tempo che trovano. Inoltre, come ho detto agli amici del gruppo
di Ac, mi riesce più facile immedesimarmi in Giuseppe, il papà terreno del
divino Bambino, più che in un pastore, in un semplice spettatore della
natività. Questo perché anch’io sono stato padre di due neonate, le ho avute
letteralmente tra le mani, le ho cresciute e viste crescere e fortificarsi, in
sapienza e grazia, come è scritto di quel Bimbo del Natale, e ieri sera erano
vicino a me, donne fatte. Le rappresentazioni del Natale coinvolgono molto chi
è genitore, perché rimandano a
un’esperienza di gioia profonda che egli ha vissuto, nei primi giorni in cui ha
cominciato a conoscere il nuovo essere umano che da lui è scaturito. Si ha tra
le mani un bimbo molto piccolo e si fanno molti sogni su di lui. Si spera che
cresca bene. E questo, ieri, mi sono sentito di dire: speriamo che cresca bene.
Riferito al fondamento di tutte le nostre speranze questo augurio,
naturalmente, assume un significato molto più ampio e riguarda tutta l’umanità
e il suo destino, noi e tutta l’altra gente intorno a noi, e addirittura quella
che ci ha preceduti nel tempo e quella che verrà dopo di noi: cresca, dunque,
la speranza che è in noi, ci pervada e si diffonda sempre più, fino agli
estremi confini della terra e del tempo; siamone messaggeri e testimoni secondo
la missione che ci è stata affidata.
Nei racconti del
Natale si intuisce che c’è molto di più di una vicenda famigliare, di una
coppia che ha un figlio, vale a dire di un evento che rientra nella normalità delle
cose degli esseri umani, come di tutti i viventi. C’è politica, c’è teologia.
Quel Bimbo del Natale ci viene presentato come l’Atteso, e non solo dai suoi
genitori. Ma ci viene anche spiegato che molte delle attese su di lui, in
particolare quelle legate alla politica, sono andate deluse, mentre quelle
della teologia delle origini sono state di molto superate. “Tu sei re?”, chiese
la politica al nostro primo Maestro che le era davanti nella condizione di
prigioniero e di accusato. La risposta che fu data ha generato infiniti
ragionamenti su come si debba intendere la regalità che noi attribuiamo, in
fondo fin dalla sua nascita, a colui nel
quale riponiamo tutte le nostre speranze. Di lui è scritto che è il Verbo e “tutto per mezzo di lui fu fatto e senza di
lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto”. E’ anche scritto che egli
è luce per noi, che brilla nelle tenebre, e che dimorò fra noi e noi vedemmo la
sua gloria, come di Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità (cfr Gv
1). Questa è la realtà che ha oltrepassato tutte le attese della teologia.
Anche nei bei pensieri che sento in occasione del
Natale, come pure nei canti e nelle varie liturgie e consuetudini di festa di
questo tempo, ci sono molta politica e molta teologia. Anche noi abbiamo delle
attese su quel Bimbo. Ed è come se, da genitori, volessimo indicargli una
strada da seguire, come abbiamo fatto con i nostri figli. Non si dice, del
resto, che uno dei più gravi e impegnativi compiti dei genitori è l’educazione
dei loro figli? Possiamo immaginare che anche Maria e Giuseppe l’abbiano
svolto. Dico “immaginare”, perché negli scritti che riconosciamo come sacri, e
che poniamo a fondamento della nostra fede, c’è veramente poco su questo. E,
innanzi tutto, non ci sono stati tramandati detti del nostro primo Maestro che
ce ne parlino. Chissà se ha narrato ai
suoi discepoli della sua vita prima diventare Maestro? Se lo ha fatto, chi lo
ascoltava ha tenuto per sé le sue parole, non ce le ha riferite. Quindi noi,
oggi, abbiamo pochi punti di riferimento per sapere come comportarci con quel
Bimbo del Natale. In Maria, nella quale vogliamo riconoscere la figura della
Chiesa, egli ci è figlio, ma, nello stesso tempo, siamo anche suoi discepoli ed
egli ci ha generati alla fede.
Allora, anche in
questo Natale, come in quello di anni fa in cui si fece quella “liturgia del
presepe” (si era nel 2014), il proponimento che faccio è quello di lasciare
spazio a quel Bimbo, di essere disposto a lasciarmi sorprendere da lui, senza
che le mie aspettative su di lui sovrastino il suo insegnamento e il suo
esempio di vita, e gli siano d’impaccio, di intralcio, nella sua crescita in
me, in noi, nella nostra società e nel nostro tempo. E, anche, di usare verso il
Bimbo del Natale quella delicatezza che abbiamo nella cura dei nostri bimbi
piccoli, quando sono del tutto affidati a noi e noi gioiamo nel vederli dormire
tranquilli nelle loro culle, perché hanno mangiato, li abbiamo puliti, sono al
caldo nei loro panni e tra le loro copertine, e allora anche noi possiamo finalmente
chiudere gli occhi e sognare di loro.
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli