Apostolato, evangelizzazione, catechesi
Se si è convinti che la nostra fede abbia ancora un’utilità
sociale, al di là delle sue suggestive manifestazioni cerimoniali e artistiche,
bisogna affrontare il problema dell’apostolato che consiste nella
questione di come esserne impersonificazioni credibili, tali da attrarre altri in un’agàpe, vale a dire in una convivenza benevola e solidale secondo i principi
del vangelo. Questo apre la seconda fase che è, appunto, quella dell’evangelizzazione,
che è, prima di tutto, un sistema di convivenza di quel tipo. Nella catechesi si
introduce, poi, la tradizione, anzitutto liturgica, e questa fase ha sostanza
di vera e propria iniziazione e
comporta una comunicazione, da una parte, e un’appropriazione, dall’altra, di
una cultura caratterizzata dal fare riferimento al vangelo. Il vangelo è riassumibile
in questo: non si è condannati ad essere schiavi della spietata legge di natura,
che comprende violenza e morte; agli esseri umani è aperta la via della
convivenza/agàpe.
C’è poi un’altra
questione, che prescinde all’apostolato, e che riguarda il puro e semplice
vivere da cristiani dichiarati nella propria società, affrontando la critica e
l’insofferenza sociale verso le religioni in generale e la nostra in
particolare. La resistenza contro i cristiani è dovuta, in genere, alla loro
lunga e spesso spietata egemonia politica, con pretesa di assoggettare la società
all’assimilazione. Inutile minimizzare: questa politica di supremazia è storicamente
vera. Ci fu nel passato, ma bisogna riconoscere che ancor oggi vi sono pretese
in questo senso, nel presupposto che la nostra religione sia ancora
maggioritaria in Italia e che la maggioranza abbia diritto di dettar legge sul
pensiero della gente. Naturalmente, secondo la Costituzione repubblicana vigente,
questa è una pretesa del tutto infondata.
Problemi
seri ci sono quando si saltano le fasi di apostolato ed evangelizzazione e si
passa direttamente alla catechesi. Un orientamento catechetico consiglia
appunto questo, ad esempio di partire dalla proclamazione del Vangelo, inteso
come i
Vangeli, i
testi evangelici, nel presupposto che vi sia ancora nella società la capacità
di intenderli senza che siano spiegati, sine glossa come
insegnava Francesco d’Assisi. Questo, che poteva essere realistico nella civiltà
italiana del Duecento, non è più vero ai tempi nostri. D’altra parte la spiegazione è data anzitutto nelle fasi di apostolato ed evangelizzazione, che sono caratterizzate da
modi di relazioni tra persone. L’agàpe, vale a dire ogni convivenza
benevola e solidale, è già evangelizzazione e può predisporre alla catechesi. Quest’ultima
dovrebbe sempre farsi in base a una richiesta di una persona raggiunta dall’evangelizzazione.
Nella prima formazione religiosa, quella che
si fa per Prima Comunione e Cresima, si dà per scontata quella richiesta di
catechizzazione, ma in realtà questo dovrebbe essere verificato sul campo. La
persona umana, fin da molto piccola, fin da bambina, è capace di queste scelte,
fin da quando esce dalla cerchia familiare e comincia a vivere in società, che
di solito, nella nostra società, sono quelle scolastiche e di gioco, fatte di bambini.
Quindi, se dovessi occuparmi di catechesi, cercherei innanzi tutto almeno di suscitare
quella richiesta cercando di rendere manifesti i collegamenti tra
apostolato-evangelizzazione-catechesi. Che succede, però, se si incontra un rifiuto?
Ai tempi del mio primo catechismo si andava per le spicce, diciamo così. Me ne
rimase il ricordo di qualcosa che bisognava imparare a memoria per partecipare alla festa della
Prima Comunione e della Cresima. Non venni esposto, lì, nella nostra parrocchia,
ad una vera evangelizzazione, che si manifestò solo più tardi e innanzi tutto
in famiglia. Quando capii l’agàpe la fede si radicò in me. E questo
nonostante che non sia mai riuscito, come dicono, ad amare la Chiesa nelle
sue manifestazioni concrete, visibili, nelle sue personificazioni, e in tutti i suoi costumi e liturgie: la considero, sotto questo aspetto, una società come tante, con il bene e il male, sempre bisognosa di riforma, sempre
capace di far molto soffrire, e per
nostra buona sorte essa non è più quella del Primo secolo e nemmeno quella,
tremenda, di certe altre epoche del passato. Vale in quanto contiene e tramanda
l’agàpe soprannaturale.
Di fronte a un rifiuto verso linguaggio e
costumi esplicitamente religiosi non mi sorprendo, non mi impermalisco, non
insisto, anche se continuo a vivere come persona che non nasconde certamente la
propria fede. Cerco però di tradurre il
linguaggio religioso in modo che possa essere ben inteso da chi non ne è acculturato.
Il linguaggio religioso contiene molti elementi teistici, che tuttavia non sono
essenziali alla nostra fede. La descrizione del soprannaturale risente molto
delle concezioni delle fedi precristiane e, ad esempio, la raffigurazione
artistica del Padre si rifà evidentemente a quella del Giove degli antichi
politeismi Mediterranei. In che modo poi il Figlio è figlio del Padre? La teologia
usa espressioni analoghe e certamente
il Figlio non è figlio del Padre allo stesso modo in cui io lo fui di mio padre.
Queste difficoltà di comprensione di solito sono superate nella pratica liturgica, che è in primo luogo
un modo di vivere insieme. In qualche modo, mi sono accorto che certe verità di
fede si sentono liturgicamente, prima di essere accettate
concettualmente (capite mai: se ne parla infatti come di misteri).
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa, Roma, Monte Sacro, Valli