Discutere e decidere con metodo, antidoto
contro l'antica piaga delle mormorazioni
1. In una sequenza del film Il pranzo di
Babette (1987), del regista Gabriel Axel, ambientato in una piccola
comunità evangelica in uno sperduto paesino costiero della Danimarca settentrionale, una donna di quel gruppo cita, a proposito
del clima non sereno che si era creato tra i fedeli, un brano biblico a
proposito delle malvagità di cui è
capace la nostra lingua, nonostante sia
una piccola parte del corpo. Quando vidi il film, lo cercai: è nel capitolo 3
della lettera di Giacomo, che trascrivo di seguito nella versione della TILC Traduzione interconfessionale in lingua corrente, dal
sito bibbia.edu.
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Fratelli, non siate in molti a voler diventare maestri
degli altri. Sapete infatti che noi maestri saremo giudicati da Dio in modo
particolarmente severo. Tutti commettiamo molti errori. Se uno non
commette mai errori in quel che dice, è un uomo perfetto, capace di dominare se
stesso. Noi mettiamo il morso alla bocca dei
cavalli, per fare in modo che ci ubbidiscano, ed è così che possiamo dominare
tutto il loro corpo. Guardate le navi: anche se grandi e spinte da un vento
molto forte, per mezzo di un piccolissimo timone vengono guidate là dove vuole
il pilota. Così anche la lingua: è una piccola parte del corpo, ma può vantarsi di grosse
imprese. Un focherello può incendiare tutta una grande foresta. La lingua è come un fuoco. È come una cosa malvagia messa
dentro di noi, e che porta il contagio in tutto il corpo. Essa infiamma tutta
la vita con un fuoco che viene dall’inferno. L’uomo è capace di domare gli animali di ogni specie:
bestie selvatiche, uccelli, rettili, pesci…; e di fatto li ha domati. La lingua, invece, nessuno è capace di
domarla. Essa è cattiva, sempre in movimento, piena di veleno mortale. Noi usiamo la lingua per lodare il Signore
che è nostro Padre, ma anche per maledire gli uomini che Dio ha fatto simili a
sé. Dalla stessa bocca escono parole di preghiera e parole di
maledizione. Fratelli, questo non deve avvenire. Forse che da una stessa fonte
può uscire insieme acqua buona e acqua amara? No! Nessun albero di fichi produce olive, e
nessuna vite produce fichi. Così una sorgente d’acqua salata non può dare acqua
da bere. Qualcuno, tra voi, pensa di essere saggio e intelligente?
Bene! Lo faccia vedere con i fatti, comportandosi bene; mostri insieme
gentilezza e saggezza. Se invece il vostro cuore è pieno di amara
gelosia e di voglia di litigare, fate a meno di vantarvi e non dite menzogne
che offendono la verità. Una saggezza di questo genere non viene da
Dio: è sapienza di questo mondo, materiale, diabolica. Infatti dove regnano la gelosia e la voglia
di litigare, ci sono disordini e cattiverie di ogni genere. Invece la saggezza che viene da Dio è
assolutamente pura; è pacifica, comprensiva, docile, ricca di bontà e di opere
buone; è senza ingiuste preferenze e senza alcuna ipocrisia. Le persone che creano la pace attorno a sé sono come
seminatori che raccolgono nella pace il loro frutto: una vita giusta.
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Gli esperti dicono
che la lettera di Giacomo origina da comunità palestinesi della metà del Primo
secolo, quindi all'epoca delle origini. Quando
si sente fantasticare di un ritorno alle origini
come soluzione dei problemi del presente, questo non mi convince tanto, perché alle origini c'è quello di cui si tratta in quel
brano biblico, e anche di peggio, e, in particolare più o meno quello che c'è
oggi in tema di contrasti comunitari. E c'è anche nelle nostre parrocchie,
anche nella nostra certamente!, e non
solo nel tempo presente.
Me ne parlava già mia madre, quando qui da noi a San Clemente faceva la mamma catechista.
Aveva
studiato catechetica nella vicina università dei salesiani, dopo un corso qui
in parrocchia e un altro alla Lateranese. Nel vivace clima di rinnovamento
della catechesi inaugurato dal Documento di base del 1970, aveva iniziato a
introdurre metodi nuovi, ad esempio gli audiovisivi, proiettava delle
diapositive, faceva sentire dei dischi, in un'epoca in cui si pensava ancora
che il catechismo fosse imparare a memoria le
risposte scritte sul libretto che veniva dato a bambini dall'età delle
elementari (all'epoca Prima Comunione e Comunione e Cresima si facevano a nove/dieci anni).
E, insomma, dopo certe mormorazioni
sui suoi metodi, un triste anno, senza alcun preavviso del parroco o
avvertimento da parte delle altre mamme catechiste (diverse
delle quali aveva lei stessa reclutato), si trovò esclusa dal catechismo. Ci
soffrì molto, ma secondo i costumi dell'Azione Cattolica verso i preti, affiancare non assillare, si dedicò ad altro, e
sicuramente la parrocchia e la catechesi ci rimisero.
Ma doveva proprio andare così? Deve sempre andare così?
A sentire Papa, vescovi e preti, che
ciclicamente si lamentano delle mormorazioni e delle lingue affilate in azione,
ricordando anche che si tratta di un peccato grave di cui accusarsi in
confessione, sembra che ancora vada così e che nessun rimedio finora si sia
rivelato veramente valido.
Ci sono poi parroci con piglio piuttosto
autoritario che se la sbrigano per le
spicce con due urlacci, e altri che cercano il dialogo, come è nel caso nostro.
Ma, paradossalmente, a volte chi mormora preferisce i primi e questo,
semplicemente, perché, quando gli si chiede di andare sul concreto, e soprattutto
di quantificare la misura del proprio contributo personale alla fase esecutiva,
si sente in difficoltà, perché molto propenso a consigliare,
molto meno a fare.
Dagli anni ‘80 i laici sono sempre più chiamati a
collaborare in vari campi che prima erano riservati a chierici e religiosi. Ma
bisogna considerare che noi laici
tendiamo a sopravvalutarci. Nelle cose di Chiesa, ci sentiamo ad esempio
teologi per natura, capaci di trattare da competenti pure col Papa, anche
se si è letto poco e male, e, insomma, si sa poco di tutto. Teologi si comincia ad essere con il dottorato, un titolo di studio successivo alla laurea specialistica, e
così anche in medicina, ingegneria, matematica ecc. Con la laurea cosiddetta
specialistica si è considerati esperti, con
quella triennale o baccalaureato persone acculturate
in una certa disciplina. Questo in tutto eccetto che nel diritto, dove, per
l'importanza che vi ha la pratica giudiziaria,
si è considerati giuristi anche senza
dottorato, ma dopo essersi distinti nel foro, in particolare nelle
giurisdizioni superiori.
Se uno non ha studiato abbastanza per
raggiungere quei gradi in una certa disciplina, ma legge e cerca di ragionare,
con una certa disponibilità ad imparare nel dialogo con i competenti, allora è
un ignorante colto, come è anche uno
specialista in una disciplina rispetto a specialisti in altre discipline. È
praticamente la condizione di tutti, perché si può essere veramente competenti
solo in campi molto limitati. L’importante però è esserne consapevoli, perché
collaborando con gli altri ci si riesce ad elevare sopra i nostri limiti
individuali. Ma anche a questo si deve essere formati e occorre farne
tirocinio, cosa che, però, raramente accade in religione. Così si litiga e, non
sapendo sviluppare ed esporre argomenti ragionevoli, anche perché si è incerti
su tutto ma su tutto si vuole mettere bocca però solo di testa propria, allora si mormora.
2. In realtà, quindi, in genere è più che
altro questione di metodo.
L'organizzazione
ecclesiastica, di tipo feudale/clericale, non forma al dibattito se non
nell'ambito universitario, e dunque si sta molto a ricasco del capo gerarchico
e quest'ultimo è insofferente di chi si allarga, anche perché chi lo fa spesso
si intromette solo a chiacchiere e fa perdere tempo.
Però, da quando c'è
stato il Concilio Vaticano 2^ (1962-1965), ai laici viene chiesta una maggiore
collaborazione proprio in quanto laici, non come una sorta di clero di
complemento. Non è tanto questione di supplire i vuoti spaventosi e il rapido
invecchiamento dei ministri ordinati, anzi questo è un modo sbagliato di
impiegare il laicato, quanto di allargare gli orizzonti di un clero che, per
quanto formato in un impegnativo percorso scolastico e accademico, non è
competente su tutto, e non può esserlo perché nessuno può esserlo.
Se mettiamo insieme
diversi preti, con una formazione da prete, essi, anche collaborando tra loro,
riusciranno a fare solo ciò che un prete ha imparato a fare, liturgia,
sacramenti, formazione religiosa, l’assistenza materiale ai bisognosi, e che può
fare secondo il suo particolare stato di vita, che, ad esempio, tra i
cattolici di rito latina gli vieta l’intimità con la donna (pur dovendo
predicarvi sopra) e lo vincola ad una determinata condizione giuridica e
sociale. La Chiesa, però, vuole,
addirittura trasformare tutta la società: a questo ci esorta la dottrina
sociale dalla fine dell’Ottocento. Questo lavoro non è solo strumentale alla
fede, come se le fosse esterno, ma rientra proprio in essa, come agápe e
quest’ultima è nientedimeno che il principio del Regno, che però ci
rimarrà sempre all’orizzonte perché non è da noi compierlo ma solo anticiparlo
nell’attesa vigile. Con questa estensione, non certamente un’opera solo da
preti.
La consapevolezza
di ciò si è raggiunta gradualmente e ha incontrato forti resistenze tra i
cattolici, per l’accentuato clericalismo che ne permea la Chiesa e che si
manifesta ad esempio in chi, sognando
una parrocchia diversa, pensa che ciò che non va sia il suo parroco. La prima dottrina sociale
che sognò indurre nel popolo e per suo tramite una società radicalmente
diversa, che è come dire trasformare quel popolo, e innanzi tutto facendone un
popolo da popolazione che era, pensava che il Papato possedesse la
sapienza per guidare quel processo. La storia successiva le diede una dura
lezione in senso contrario. Durante il Concilio Vaticano 2^ se ne prese atto:
al suo centro vi fu infatti la teologia
sul popolo e, in questo ambito, quella
sui laici. Ora da questi ultimi si chiede anche capacità di autonomia,
intesa come capacità di ideazione e di collaborazione sui principi di azione
sociale. Dal 2005 nel Magistero ricorre pressantemente l’esortazione ai laici
di sviluppare questa capacità, ma, per la verità, essi non sono formati a
farlo, questo non rientra nella loro istruzione religiosa, ma anche
nell’istruzione scolastica in genere, salvo che in taluni ambiti universitari.
In religione l’autonomia è ancora vista come manifestazione di libertà ed essa
è considerata con sospetto, come arbitrio e dunque fonte di disordine e
di disgregazione sociale, ed anche ecclesiale. È una concezione obsoleta, ma
che resiste e quindi fatica ad essere superata, non solo per i timori ancora
diffusi tra il clero, ma anche per il fatto che costa fatica per coloro, i
laici, ai quali fu a lungo vietata.
3. Quando tra laici, che agiscono come
Chiesa, ci si riunisce per prendere una decisione su come svolgere un lavoro
che richiede collaborazione, si dovrebbe partire dall’accordarsi su questo
principio: nessuno, da solo, ha in tasca la soluzione, che vale solo se si
raggiunge un’intesa su di essa, proprio perché l’opera che c’è da fare è
collettiva. Ciò che ognuno pensa ha questo difetto, sempre: scaturisce da un
individuo limitato e ne sconta i limiti. Le osservazioni degli altri non devono
essere quindi subite come affronti, perché servono ad allargarne le
prospettive. L’autonomia richiede che non si sia mai semplici esecutori di
decisioni altrui, ma nel confronto tra diversi punti di vista l’azione
collettiva si fa più efficace, perché si arricchisce di competenze che nessuno
da solo può dominare. Allora, più che battagliare, occorre spiegarsi.
Inoltre si dovrebbe
convenire su quest’altro principio: non è ammissibile nessuna proposta che non
comporti un ragionevole impegno personale nella sua esecuzione da parte di chi
la fa. In genere si preferisce il ruolo di semplici consiglieri, diciamo di
suggeritori dei direttori d’orchestra, o meglio l’impegno a sole
chiacchiere, rifuggendo di spendere tempo e fatica nella realizzazione di ciò
che si propone, diciamo come orchestrali, assoggettandosi all'indispensabile percorso formativo e di tirocinio e assumendo anche la responsabilità del risultato.
In Azione
Cattolica, a tutti i livelli, si fa tirocinio di quel modo di procedere, nel decidere insieme. È per questo che la di
definisce palestra di democrazia.
È sbagliato
convocare una riunione in cui ciascuno si limiti a dire la propria: in
genere si finisce sempre a litigare. E non cambia nulla. Il gruppo non decide
nulla.
Ci deve essere,
prima, quella che nella prassi della pubblica amministrazione e in quella
giudiziaria si chiama istruttoria.
Dunque bisogna istituire una
commissione, con non meno di due membri, per consentire un dibattito al suo
interno (tutto ciò che matura in una singola persona ne sconta i limiti
cognitivi), che faccia una ricognizione del problema in decisione (raccogliendo
documenti, sentendo persone, informandosi su come altri gruppi hanno fatto e
sul risultato di quelle decisioni, informandosi, nel caso di un gruppo
parrocchiale, degli orientamenti diocesani, individuando le soluzioni proposte
dai componenti del gruppo ed esponendone i pro e i contro che sono stati
evidenziati). Questo lavoro molto importante non si fa in adunanze plenarie ma
in un gruppo ristretto, che sviluppa
relazioni a-tu-per-tu, e consente di arrivare in adunanza
plenaria, con la partecipazione di tutto il gruppo di lavoro, avendo superato
la fase in cui di solito si litiga, ci si accalora, si inizia a strillare e ci
si impermalisce. La commissione istruttoria non deve però arrogarsi la
decisione, ma solo esporre realisticamente, razionalmente e compiutamente i
connotati del problema. Durante l’adunanza plenaria riferirà in merito mediante
una relazione svolta da una/o dei suoi membri. Ma deve svolgere anche un ultimo
compito di grande utilità: individuare, sentendo i componenti del gruppo di
lavoro gli orientamenti maggioritari e le persone che, relazionandone, li
esporranno nell’adunanza plenaria.
Il giorno di
quest’ultima deve essere individuata una persona che la presieda, la quale deve mantenere una posizione neutrale nella
direzione del dibattito, anche se, al momento di decidere, può manifestare il
suo orientamento e il suo voto. La/il presidente deve essere persona
estroversa, colta, equilibrata e apprezzata dagli altri, e diversa dal centro
di potere che può sindacare l’attività del gruppo di lavoro.
Chi presiede darà
parola, fisserà la durata degli interventi, fisserà l’eventuale data di rinvio
della riunione.
Riferirà in adunanza
innanzi tutto una persona della commissione istruttoria, poi le persone che
rappresentano gli orientamenti maggioritari, quindi possono ascoltarsi esperti
o esponenti esterni al gruppo di lavoro e infine si darà la parola alle persone
che ne fanno parte. La/il presidente, secondo l’andamento del dibattito, può
proporre di mettere in votazione una mozione di compromesso per cercare di
raggiungere l’unanimitá. Nel caso che il tentativo non riesca, inviterà gli
esponenti degli orientamenti maggioritari emersi ha formulare mozioni da
mettere in votazione, quindi si procederà al voto e la decisione risultata
maggioritaria sarà quella collettiva del gruppo. Una volta presa, i membri del
gruppo di lavoro devono impegnarsi a difenderla all’esterno. Accade che le
decisioni dei laici tendano ad essere semplicemente ignorate negli ambienti
ecclesiali, con il pretesto della sinodalitá, che di solito viene intesa
come considerare inefficaci le decisioni collettive non approvate da un capo
gerarchico.
Un’adunanza plenaria, a meno che non
si decida un rinvio, non dovrebbe concludersi mai senza una votazione
deliberativa. Altrimenti si finisce per rimpiangere il capo autocrate,
disamorandosi della procedura.
Ma ogni decisione
dovrebbe essere sottoposta a verifica dopo un certo tempo di esperienza
pratica. Il compito di questa verifica
dovrebbe essere affidato alla commissione istruttoria di cui si è detto.
L’adunanza plenaria
e quella commissione dovrebbero essere istituzioni permanenti del gruppo di lavoro.
Non si è scritto di
un capo. In realtà, nei piccoli gruppi di lavoro ecclesiali è meglio che non ci
sia. Qualsiasi centro monocratico di decisione è infatti a rischio di
degenerazione autocratica, ed esso è più grave in una Chiesa come la nostra afflitta
da processi di sacralizzazione dei suoi centri di potere. Meglio che il potere,
almeno nelle organizzazioni di prossimità sia diffuso, mantenendo la condizione
di blanda anarchia che, veramente, si viveva all’interno della cerchia dove
tutto iniziò. Non, naturalmente, disordine, ma attenuazione del principio
gerarchico, almeno in ciò che fanno i laici, in modo da favorire l’impegno
responsabile di autodisciplina. Nessuno dovrebbe avere crisi di astinenza da capo.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli