RESOCONTO DELLA
RIUNIONE IN GOOGLE MEET DEL
GRUPPO AC SANCLEMENTE! DEL 12 DICEMBRE 2020
di Mario Ardigò
Il 12 Dicembre 2020, dalle ore 16:45, si è
tenuto in Google Meet l’incontro
del gruppo AC SANCLEMENTE! del cammino cristologico proposto dal sussidio del Settore Adulti
dell’Azione Cattolica “Da corpo a corpo”, articolato su cinque unità. In
questa riunione dialogheremo sulla seconda tappa, caratterizzata dal
verbo “Sfiorare” e dai temi del Progetto formativo
dell’Azione cattolica del primato della persona, come cammino di
libertà e di responsabilità.
Eravamo in 13, compreso
l’assistente ecclesiastico don Emanuele.
Abbiamo iniziato vedendo un
filmato nel quale don Antonio Ascione ha proposto una riflessione sul brano
evangelico di riferimento, i versetti dal 13 al 16 del Vangelo di Marco:
(13) Alcune persone portavano i loro bambini a Gesù e
volevano farglieli benedire, ma i discepoli li sgridavano. (14) Quando Gesù se
ne accorse, si arrabbiò e disse ai discepoli: «Lasciate che i bambini vengano
da me; non impediteglielo, perché Dio dà il suo *regno a quelli che sono come
loro. (15) Io vi assicuro: chi non lo accoglie come farebbe un bambino non vi
entrerà». (16) Poi prese i bambini tra le braccia, e li benediceva ponendo le
mani su di loro.
da TILC Traduzione interconfessionale in lingua
corrente [in https://www.bibbiaedu.it/]
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[trascrizione da fonoregistrazione]
La seconda tappa del
nostro percorso ha una parola particolare: sfiorare. E questo termine ci
rimanda subito a considerare il contatto tra i popoli, il contatto
delicato pieno di tenerezza. Per questa ragione abbiamo scelto come brano per
la nostra riflessione Gesù e i bambini nel Vangelo di Marco.
Questo brano ci
presenta appunto un fatto particolare. Gesù predica e a una certo momento le
donne portano i loro bambini da Gesù perché li potesse accarezzare, potesse
imporre su di loro le mani e li potesse benedire. Ma gli apostoli scacciano
subito i bambini dalla presenza di Gesù.
In realtà, per gli
ebrei, i bambini fin quando non avevano dodici anni non erano considerati
propriamente delle persone. Non avevano, per loro, una coscienza morale. Solo
verso gli undici anni, quando celebravano il Bar mitzwah [bar mitzwah (letteralmente
"figlio del precetto"), è di fatto una specie di esame, in cui un
ragazzo deve dimostrare di sapere leggere la Bibbia in ebraico e comprenderne
il significato] allora essi venivano considerati persone che potevano prendere
parte pienamente alla comunità sociale e
religiosa.
E’ vero che nelle
Sacre Scritture troviamo delle affermazioni molto belle per quanto riguarda i
bambini. “I figlio sono come delle frecce in mano ad un eroe, beato l’uomo che
ne ha piena la faretra”. Quindi i figli sono considerati una benedizione di
Dio. Ma gli ebrei consideravano i bambini poca cosa, rispetto invece agli
adulti. Gli adulti potevano prendere parte pienamente alla realtà del Regno,
secondo gli apostoli, ma i bambini no.
Ma Gesù anche questa
volta rovescia la logica dei discepoli: proprio loro, i bambini, sono la misura
dell’accoglienza del Regno. A chi è come loro appartiene il Regno.
E poi c’è un’immagine
molto bella, quella che caratterizza la nostra tappa. Gesù prende in braccio i
bambini e li benedice, li abbraccia.
Certo al tempo di Gesù
c’erano i rabbini o personaggi religiosi molto influenti ai quali gli adulti
portavano i loro bambini per farli benedire. Ma
Gesù non solamente li benedice, li abbraccia e li indica come misura
dell’accoglienza del Regno dei Cieli. Toccare, abbracciare, custodire.
Una volta Gesù, nei
pressi di Gerusalemme, guardano la città, disse: “Gerusalemme, come avrei
voluto essere come una chioccia che allarga le proprie ali per raccogliere i
propri pulcini.” Molte espressioni
troviamo nei Vangeli sulla paternità, sulla
tenerezza di Gesù. Ebbene, queste espressioni ci indicano i sentimenti,
così belli, puri, di Cristo, verso gli uomini e le donne che hanno bisogno di
lui e poi anche dei bambini. E allora questi atteggiamenti della custodia,
della tenerezza, dell’abbracciare,
del proteggere, del prendersi cura, hanno tutti bisogno di un’espressione della
nostra corporeità veramente vissuta, che si realizza nel contatto con gli altri
e manifesta in questo contatto la bellezza dell’amore di Dio, che è un amore
materno e paterno allo stesso tempo.
Questo vangelo ci
insegna non solo a rispettare i bambini, ma a vedere nei bambini la misura del
Regno - a chi è come loro è dato il
Regno di Dio. Perché “a chi è
come loro” ? Perché i bambini sono privi di pregiudizi, i bambini sono
senza prevenzioni, i bambini hanno bisogno di tutto, di essere curati, educati,
custoditi e amati. E Gesù, attraverso questo gesto di tenerezza,
dell’abbracciare i bambini, di benedirli, di custodirli fra le sue braccia,
insegna a ciascuno di noi queste dimensioni della nostra affettività.
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E’ stato poi presentato un
breve filmato che riguardava
un’esperienza di servizio dell’Azione Cattolica presso la casa famiglia per
bimbi fragili Hogar Niños Dios a Betlemme, in cui svolgono il loro servizio
delle suore.
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Associati dell’Ac, compresa la Presidenza
nazionale, scoprirono nel 2017 quella
struttura di assistenza all’infanzia durante un pellegrinaggio in Israele. Quell’incontro
caratterizzò molto quell’esperienza. Al ritorno fu deciso che l’Ac facesse
qualcosa di più. Quindi da allora associati di Ac iniziarono ad andare, ogni
mese dell’anno, ad Hogar Niños Dios a Betlemme per svolgervi
volontariato di servizio.
Ogni sogno si realizza quando
qualcuno invita a lanciarsi in quel sogno. Hogar Niños Dios ha
fatto bene all’Ac.
La missione di volontariato dura ogni volta
dieci giorni e coinvolge molto chi vi
partecipa. I volontari si occupano di tutto: dei ragazzi, del giardino, delle
faccende di casa.
La struttura si trova molto
vicino alla Basilica della Natività, che può quindi essere raggiunta con
facilità.
Ad oggi hanno partecipato a
questa esperienza circa 150 persone, giovani e meno giovani. Da quando si è
cominciato, non c’è mai stato un mese in cui sia mancata la presenza dei
volontari di Ac. Per partecipare avere buona volontà e scrivere a alvederlastella@azionecattolica.it
. Il sogno comincia quando si decide di mettersi in cammino.
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Giulia ha ricordato che, in preparazione alla
riunione, ci eravamo preparati a presentare figure significative sul tema dello
sfiorare, inteso come tenerezza, prendersi cura.
Daniele
Parte da alcune domande.
Si è chiesto quanto può essere
incisivo questo stile della tenerezza, dello sfiorare e se può
veramente cambiare il corso delle cose, o se si tratta solo di sentimentalismo,
come quel clima melenso che la pubblicità commerciale crea intorno al Natale,
centrato sull’essere tutti più buoni.
La violenza è inevitabile o si
può essere forti anche nella tenerezza?
Propone come figura esemplare di
un Vangelo della tenerezza quella di don Pino Puglisi [1937-1993 –
sacerdote che operava da parroco nel quartiere palermitano di Brancaccio,
assassinato da mafiosi per la sua azione sociale]. Ancora oggi tutti ricordano
il sorriso di don Pino verso i più poveri, i più piccoli, quelli che avevano
più bisogno. Era capace di questa tenerezza, pur essendo una persona molto
decisa, molto “forte” e molto incisiva nelle azioni che faceva.
Ricorda questa frase di don Pino
Puglisi, in cui la tenerezza era abbinata alla fedeltà: “Se la fedeltà senza
la tenerezza può diventare solo organizzazione, la tenerezza senza la fedeltà
può correre il rischio di diventare semplice sentimentalismo”. Quindi,
secondo il suo pensiero, le due cose dovevano andare insieme.
Daniele ritiene che si debba
stare attenti a non cadere nel sentimentalismo, specie adesso che ci si
avvicina al Natale, e tutto ci porta verso quella dimensione. Essa poi ci porta
più che altro a fare qualche beneficienza che aiuta più che altro noi a
sentirci a posto con la coscienza che chi la riceve. Crede che la tenerezza,
per essere incisiva, debba camminare con la fedeltà.
La fedeltà c’è l’ha insegnata don Pino, ma risalta
particolarmente anche nell’esperienza dell’Azione Cattolica a Betlemme nella Hogar Niños Dios. Quest’ultima porta con
sé la responsabilità, la continuità, la scelta, la fatica e il sacrificio. La
tenerezza da sola non basta, se si vuole costruire uno stile che sia anche
incisivo.
Gloriana
Presenta la figura dell’avvocatessa
pacifista liberiana Leymah Gbowee, premio Nobel per la pace 2011.
[da Wikipedia: membro fondatore e coordinatrice in
Liberia dell'organizzazione "Women in Peacebuilding Network
(WIPNET)", ossia la Rete delle donne per la costruzione della pace. Nel
2003, insieme ad altre donne, ha organizzato una mobilitazione per la pace.
Inizialmente erano coinvolte solo donne cristiane, ma successivamente sono
state incluse anche donne musulmane. Nacque così il movimento
interconfessionale noto come "Women of Liberia Mass
Action for Peace" (Azione collettiva delle Donne liberiane
per la Pace). Questa associazione mise in atto una serie di iniziative pubbliche e non violente contro l'allora presidente
del paese Charles Taylor. Questo movimento fu determinante al
raggiungimento della pace e all'elezione di Ellen Johnson
Sirleaf come presidente della Liberia.[4]
Nel 2006, ha
co-fondato "Women Peace and Security Network Africa" (WIPSEN-A),
un'organizzazione no-profit pan-africana impegnata a promuovere la
partecipazione delle donne, dove ha ricoperto la carica di direttore esecutivo
per sei anni. Nel febbraio 2012, dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la pace
2011, Gbowee ha lanciato la Gbowee Peace Foundation Africa (GPFA), a Monrovia,
in Liberia, che offre opportunità di sviluppo educativo e di leadership per
donne, ragazze e giovani]
Leymah Gbowee ricevette il premio Nobel per la sua
lotta non violenza per la sicurezza delle donne e del loro diritto a
partecipare al processo di pace. La sua figura fu citata dal Papa nel messaggio per la Giornata mondiale della
pace 2017
«La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati
impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar
Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la
discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare,
sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia
di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta
nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione
della seconda guerra civile in Liberia.»
Il suo è un esempio che ha associato la nonviolenza anche alla lotta per
la libertà delle donne e della sua nazione. Durante la guerra civile in
Liberia, si attivò per porre fine a quel conflitto fra fratelli che
appartenevano allo stesso popolo. Rifugiata in un campo profughi assistette
alle violenze contro le donne. Tuttavia questa esperienza non la spinse a
lottare in modo violento. Capì che bisognava innanzi tutto abbattere i muri che
erano state costruite tra i cuori, per sanare le violenze subite. Ha creato un
movimento nonviolento interconfessionale tra donne sia musulmane che cristiane
che si riuniva nelle strade e nelle piazze per fare delle preghiere, vestendosi
di bianco. In Africa le donne vestono in modo molto variopinto e quell’abito
bianco le rendeva molto visibili, oltre che a simboleggiare la non violenza. In
questo modo ha contribuito alla fine
della guerra civile.
Sta tuttora continuando la sua
lotta nonviolenta mediante una fondazione che offre alle opportunità formative
alle donne, anche per una loro leadership nella società.
Gloriana ha poi ricordato il Discorso alla luna di papa Giovanni
23°, affacciato in piazza san Pietro la sera dell’11 ottobre 1965:
«Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma
riassume la voce del mondo intero: qui di fatto tutto il mondo è rappresentato.
Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera... osservatela in alto,
a guardare questo spettacolo. Noi chiudiamo una grande giornata di pace... Sì,
di pace: "Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà".
Se domandassi, se potessi chiedere ora a
ciascuno: voi da che parte venite? I figli di Roma, che sono qui specialmente
rappresentati, risponderebbero: ah, noi siamo i figli più vicini, e voi siete
il nostro vescovo. Ebbene, figlioli di Roma, voi sentite veramente di
rappresentare la "Roma caput mundi", la capitale del mondo, così come
per disegno della Provvidenza è stata chiamata ad essere attraverso i secoli.
La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, diventato padre per
la volontà di nostro Signore... Ma tutti insieme, paternità e fraternità e
grazia di Dio, tutto tutto... Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene
così; guardandoci così nell'incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da
parte, se c'è, qualche cosa che ci può tenere un po' in difficoltà... Tornando
a casa, troverete i bambini, date loro una carezza e dite: questa è la carezza
del Papa.
Troverete qualche lacrima da asciugare: abbiate per chi soffre un parola di
conforto... Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specie nelle
ore della tristezza e dell'amarezza... E poi, tutti insieme ci animiamo:
cantando, sospirando, piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci
aiuta e che ci ascolta, continuiamo a riprendere il nostro cammino.
Addio, figlioli. Alla benedizione aggiungo l'augurio della buona notte.»
Raccomandò quindi un gesto di
tenerezza. Da bambina capì, dalle parole
degli adulti, che c’era stato un cambiamento di passo, come se la Chiesa si
fosse impegnata ad accarezzare l’umanità.
Adriano
Ha presentato la figura di
Ernesto Olivero, fondatore a Torino nel 1964, insieme alla moglie, del SERMIG – Servizio missionario giovani,
un’organizzazione di volontari impegnati a sconfiggere la fame con le opere di
giustizia.
Negli anni ’80 all’interno del
SERMIG è nata la Fraternità della speranza, che ad oggi ha un centinaio di aderenti,
coppie di sposi e monaci e monache che si dedicano a tempo pieno al servizio
dei poveri e alla formazione dei giovani, nello spirito del vangelo.
In tempo di Covid abbiamo
scoperto che molte famiglie, anche con bambini, soffrono la fame in Italia.
Venne assegnato al SERMIG in
comodato d’uso dal Comune di Torino l’ex
Arsenale militare di piazza Borgo Dora, un quartiere di cattiva fama. Olivero,
incoraggiato da Gorgio La Pira, lo considera il primo grande passo di una
profezia si pace. Lo trasformò, con l’aiuto di volontari, e l’11.4.1984 fu
inaugurato come Arsenale della pace dal presidente della Repubblica
Sandro Pertini. E’ un laboratorio di convivenza e di dialogo, di formazione dei
giovani, di accoglienza; un monastero metropolitano aperto 24 ore su 24.
Ci sono progetti per persone di 140 nazionalità, ad esempio per ex carcerati,
giovani in difficoltà, madri abbandonate, tantissime persone che vengono
reinseriti nella società.
I giovani del SERMIG hanno
siglato il loro impegno nella Carta dei giovani.
Olivero ha dato vita al movimento
internazionale Giovani per la pace che si incontra periodicamente in incontri
mondiali radunando decine di migliaia di giovani, per ridisegnare il mondo
partendo dalle nuove generazioni. Il primo incontro si è tenuto nel 2002
a Torino, con 100.000 giovani.
Per la sua fama di mediatore, al
di sopra delle parti, Olivero svolse in Libano una missione di pace nel 1988,
uno dei pochi civili ammessi in piena guerra civile. Fu anche incaricato dall’allora
ministro della Giustizia Giuliano Vassalli di una mediazione nella rivolta nel
carcere di Porto Azzurro, all’Isola d’Elba, nel 1987. Fu nominato anche consigliere
per la pace dal papa Giovanni Paolo
2°.
Mario
Lo sfiorare è per lui legato al contatto ravvicinato e quindi ci ha
presentato come figura esemplare quella della moglie, Angela. La loro unione è legata all’Azione cattolica
perché si conobbero in FUCI.
In questo tempo di COVID ha
assistito a sue lezioni a distanza. Quando fa lezione, ma anche quando fa altre
riunioni, la ascoltano, riesce a fare gruppo! E’ anche rappresentante sindacale
nella scuola dove lavora. Riesca ad avvicinare le persone, cosa che a lui
riesce invece difficile.
Dall’esempio della moglie, riesce
a capire papa Francesco quando parla della tenerezza come di una forza
rivoluzionaria. Le cose cambiano quando con quel particolare atteggiamento
si riesce ad avvicinare le persone le une alle altre.
Carlo
Presenta tre figure:
-
don Zeno Saltini,
-
Lanza del Vasto,
-
Giuliana Martirani,
che hanno coniugato tenerezza, non violenza e
opere. Vale a dire che non si sono limitate ad una elaborazione
filosofica o politologica, ma sono riuscite a fare qualcosa di concreto.
Don
Zeno Saltini fu il fondatore della Comunità di Nomadelfia, nel grossetano. E’
un’esperienza in cui vivono insieme delle famiglie in cui madri accolgono anche
bambini non propri, che si prendono cura di gruppi anche di questi bambini non
loro.
Don
Saltini era stato assistente ecclesiastica dell’Azione Cattolica. Tutto
cominciò da un’iniziativa di radicalità evangelica in favore dei bambini dopo
la fine della Seconda Guerra mondiale. Don Saltini iniziò a prendersi cura di
bambini rimasti senza famiglia occupando l’ex campo di concentramento di
Fossoli in Emilia. Da luogo di esercizio della violenza divenne luogo di
esercizio della fraternità, in particolare per la cura dei bambini. Questa
esperienza si trasferì poi nel grossetano quando un membro della famiglia
Pirelli donò a don Saltini la tenuta dove ora è Nomadelfia. Nomadelfia
significa: dove la fraternità è legge.
Lanza
del Vasto, siciliano, fu affascinato da Ghandi e e andò in India per mettersi
alla sua scuola. Dopo aver imparato il messaggio e la pratica della non
violenza da Ghandi tornò in Europa -
Ghandi gli aveva dato un nuovo nome indiano che significava Servitore della
pace – e diventò un predicatore della non violenza soprattutto in Francia e
in Italia.
Fondò
la Comunità dell’Arca che è composta da gruppi che vivono nello
spirito della nonviolenza.
Carlo
ne visitò una che si trovava a Massafra nel Salento, in Puglia, dove un gruppo
di famiglie condivise l’esperienza ghandiana e di Lanza del Vasto. Lavoravano
nei campi – erano fautori dell’agricoltura biologica -, lavoravano se stessi
vivendo la preghiera e l’educazione alla pace nella vita quotidiana,
praticavano l’esperienza religiosa ecumenica.
Curavano l’educazione non violenta dei figli. Questo lo colpì
moltissimo. Quella comunità poi si sciolse, ma la masseria, di Monte S.Elia, fu
donata dalla Comunità dell’Arca al WWF ed è oggi un’oasi del WWF, che anche questa è un’esperienza di
rapporto non violento con la natura.
Il
terzo personaggio è Giuliana Martirani. E’ una docente universitaria napoletana
che ha impostato tutta la sua esperienza di insegnante sull’educazione alla
pace. E’ presidente del Movimento internazionale nonviolento.
Fu
tra i fondatori di un partito politico, il Partito dei Verdi, che tra le
sue radici ha l’impostazione cattolica data dalla Martirani. In nome della
tenerezza e della nonviolenza si può anche fondare un partito politico, che
esiste tuttora.
La
Martirani ha scritto i libri La civilità della tenerezza. Nuovi stili di
vita per il Terzo Millennio, edizioni Paoline, 1997, e Il drago e
l’agnello. Dal mercato globale alla giustizia universale, edizioni Paoline,
2001 [entrambi non disponibili in commercio], in cui espone il suo pensiero.
Antonietta
Ricorda la sua esperienza ventennale di
volontariato con il gruppo di don Luigi Novarese CVS – Centro Volontari della
Sofferenza, che accompagna i malati per gli esercizi spirituali.
Angela
Ricorda l’episodio narrato nel 34° capitolo dei Promessi sposi, della
madre di Cecilia.
Renzo
è a Milano, si sta recando a casa di don Ferrante e di donna Prassede per
cercare Lucia, che i quel momento si trova nel lazzaretto. Ci sono tumulti. C’è
la peste, una situazione terribile di grande confusione e concitazione.
Eppure
di fronte all’immagine di tenerezza infinita di quella donna, tutto si placa,
addirittura anche la violenza dei monatti, di quegli inservienti che andavano casa per casa a ritirare con un
carro i cadaveri dei morti di peste.
Quella madre depone su carro, con atteggiamento d’amore, il cadavere
della figlioletta. Tutti intorno, si fermano e la compatiscono.
Angela ci ha mostrato un filmato con quell’episodio.
Arrivato alla cantonata della strada, ch’era
una delle più larghe, vide quattro carri fermi nel mezzo; e come, in un mercato
di granaglie, si vede un andare e venire di gente, un caricare e un rovesciar
di sacchi, tale era il movimento in quel luogo: monatti ch’entravan nelle case,
monatti che n’uscivan con un peso su le spalle, e lo mettevano su l’uno o l’altro
carro: alcuni con la divisa rossa, altri senza quel distintivo, molti con uno
ancor più odioso, pennacchi e fiocchi di vari colori, che quegli sciagurati
portavano come per segno d’allegria, in tanto pubblico lutto. Ora da una, ora
da un’altra finestra, veniva una voce lugubre: “qua, monatti!” E con suono
ancor più sinistro, da quel tristo brulichìo usciva qualche vociaccia che
rispondeva: “ora, ora.” Ovvero eran pigionali che brontolavano, e dicevano di
far presto: ai quali i monatti rispondevano con bestemmie.
Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar
quegl’ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo
sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava
l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.
Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio,
una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa;
e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran
passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa,
che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non
cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante;
c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava
un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo
aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla
pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’
cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben
accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come
se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e
data per premio. Nè la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio,
col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina
bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata
gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte
del sonno: della madre, chè, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse
fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un
sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia con una specie
però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi
indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la
toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete.” Così dicendo, aprì
una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le
tese. Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di
lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.”
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi
ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per
l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la
morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un
letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole:
“addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre
insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi
voltatasi di nuovo al monatto, “voi,” disse, “passando di qui verso sera,
salirete a prendere anche me, e non me sola.”
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra,
tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte
in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché
il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté
fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per
morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col
fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe
del prato.
Una
immagine, quella di quel brano, molto significativa per la tenerezza, lo sfiorare.
Ha ricordato anche la parte
finale della poesie del Manzoni 5 Maggio, dedicata dal poeta alla morte
di Napoleone Bonaparte. Dopo aver ripercorso l’avventura di quel condottiero e
imperatore francese, che era stato arbitro delle sorte dell’Europa e che era
stato costretto in esilio nello scoglio malarico dell’isola di Sant’Elena, in
mezzo all’Atlantico, il poeta sostiene che Napoleone, alla fine della sua vita
non era più solo, infatti:
Ahi! forse a tanto strazio
Cadde lo spirto anelo,
E disperò: ma valida
Venne una man dal cielo,
E in più spirabil aere
Pietosa il trasportò;
E l’avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desidéri avanza,
Dov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
per concludere
Il Dio che atterra e
suscita,
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
Questa
è un’immagine della tenerezza di Dio, che non abbandona e si fa vicino,
prossimo, soprattutto nei confronti di
chi è lasciato solo dagli altri.
Don Emanuele
Ha ricordato di aver prestato opera di volontariato nel CVS. E’
un’organizzazione con un carisma molto particolare. Si propone di vincere la
sofferenza, per farne una forza, lavorando per i disabili, per la loro
spiritualità.
Ha
poi ricordato che fin dall’inizio del suo ministero papa Francesco ha
sviluppato il suo insegnamento sulla tenerezza, che richiede di essere umili e
silenziosi. Per questo ci presenta come esempio la figura di S. Giuseppe.
Don
Emanuele ci ha poi parlato di Phan Thi Kim Phuc, che da bambina venne fotografata,
l’8-6-72,m mentre, in Vietnam, fuggiva
dai bombardamenti nuda e ustionata, in mezzo a soldati statunitensi.
[ da Wikipedia: Kim Phuc e la sua famiglia erano residenti del villaggio di Trang Bang,
nel Vietnam del Sud, quando l'8 giugno 1972[1] alcuni Douglas A-1 Skyraider della Forza aerea del Vietnam del Sud sganciarono
bombe al napalm sul villaggio, che era stato occupato dalle forze
nord-vietnamite. L'attacco uccise quattro persone nel villaggio. Il
fotografo Nick Út, che scattò alcune fotografie agli
abitanti del villaggio in fuga, fra cui Phuc, vinse il premio Pulitzer proprio per quella fotografia, che in
seguito fu anche scelta come World Press Photo of the Year del 1972.
L'immagine di Phúc che corre nuda nel caos divenne una delle immagini più
celebri della guerra del Vietnam. Dopo
le fotografie, Út portò Kim Phuc e gli altri bambini feriti, all'ospedale
di Saigon, dove la bambina fu
curata per quattordici mesi e dimessa dopo diciassette interventi. Rievocando
da adulta quella vicenda, Kim Phúc ha dichiarato che in quel momento stava
urlando "Brucia! Brucia!", in quanto era stata ustionata gravemente
dalla bomba.
Kim
Phuc ha successivamente studiato a Cuba,
e nel 1992 ha sposato il connazionale Bui Huy Toan. In seguito
si è trasferita in Canada col marito, con il quale ha
avuto due figli. Kim Phuc è diventata cittadina canadese nel 1996. Il
10 novembre 1997 è stata nominata ambasciatrice dell'UNESCO. Nel 1999 è stata pubblicata la sua biografia, intitolata La bambina nella fotografia. La
storia di Kim Phuc e la guerra del Vietnam] e scritta da Denise Chong.
Il 22 ottobre 2004 Phuc è stata insignita di un dottorato ad honorem in
legge presso l'università di York,
a Toronto, per il suo impegno a sostegno delle piccole vittime
delle guerre in tutto il mondo, tramite la KIM Phuc Foundation International.
Il 27 ottobre 2005 le è stata consegnata una laurea ad honorem in
Legge dalla Queen's University a Kingston. Ha scritto
la sua autobiografia, edita in Italia da Edizioni Scripsi nel
settembre 2019 con il titolo Il fuoco addosso.
Quella
fotografia è considerata uno dei simboli della guerra nel Vietnam per
l’immagine di intensa sofferenza di una bambina vittima di quel conflitto.
Tocca l’animo di chi la vede e suscita sentimenti di compassione e di
tenerezza. Spinge verso l’essere umani e al desiderio di pace, e anche a
seguire l’esortazione del Signore alla riconciliazione. Anche Phan Thi Kim
Phuc, che all’’inizio odiò quella foto, arrivò a riconciliarsi con il fotografo
che l’aveva ripresa, proprio per quell’essere veicolo di sentimenti di ripudio
delle guerre e delle violenze.