Ero ancora un
giovane universitario, vicino alla laurea in Legge, quando, partecipando ad un
ciclo di incontri organizzati dalla FUCI nell'estate del 1981 nella foresteria
del monastero di Camaldoli, in
provincia di Arezzo, sul tema Vangelo e Cultura, presi gli appunti che
seguono. Il relatore era un illustre teologo e filosofo, del quale, nel
rispetto delle norme sulla riservatezza personale, non posso divulgare il nome,
non avendone avuto l'esplicita autorizzazione. Il testo degli appunti non è stato da lui rivisto e corrisponde alle mie
capacità di comprensione delle sue lezioni. Divulgo questi appunti perché
possono costituire una base di partenza per una comprensione dei problemi in
essi trattati (questo vollero essere all'epoca nell'intenzione del relatore).
Ringrazio e saluto affettuosamente il relatore di allora: se mi autorizzerà, ne
farò il nome, e naturalmente sono sempre pronto a correggere eventuali errori
nella comprensione del suo pensiero che emergessero dai miei appunti.
Ripubblico periodicamente quel
testo quando tratto di mediazione culturale. Vi ho aggiunto appunti di
lettura del libro di Battista
Mondin, Le nuove ecclesiologie, del
1980, per dare il senso del lavoro di mediazione culturale che c’è dietro le
nuove concezioni in materia di Chiesa diffuse dal Concilio Vaticano 2°. Sono
nuove rispetto alla riforma che fu fatta circa mille anni fa; esse tuttavia vorrebbero essere un “ritorno” biblico, patristico, liturgico,
sebbene proiettato verso
"l'aggiornamento" (come osservò Stefano Bianco su Coscienza 6/13, nell’articolo che ho sotto citato), un rinnovare tornando alle origini.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte
Sacro, Valli
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Miei appunti sul ciclo di
lezioni su “Vangelo e Cultura” tenuto per la FUCI - Federazione Universitaria
Cattolica Italiana a Camaldoli dal 26-7-1981 al 1-8-1981. Con appunti di lettura dal libro
di Battista Mondin, Le nuove
ecclesiologie, del 1980
1.Divisione - mediazione
1.1.La
divisione tra Chiesa e società
Il relatore ha dichiarato di non voler trattare
il tema astrattamente e atemporalmente, ma storicamente e considerando
i due termini -vangelo e cultura- sia nella loro autonoma consistenza che nel loro
reciproco rimando.
In
Mancini-Ruggeri, Fede e cultura, pag. 61 si afferma che non vi è un
contrasto tra fede e ragione, ma deve rilevarsi una divisione
storicamente consumata tra Chiesa e società, soprattutto tra la Chiesa
dell’Occidente e la società strutturata sui rapporti di produzione industriale.
Da questa divisione sorge un disagio. Ci si domanda: “la fede ha un significato
per la vita o è una realtà marginale (come un hobby, irrilevante per la vita
sociale)?”.
1.2 Capire il senso della divisione tra Chiesa e
società e interrogarsi sulla sua radice. Un rimedio: la mediazione
Bisogna capire
in profondità il senso della divisione e interrogarsi sulla sua radice.
Come sostengono Mancini e Ruggeri nell’opera citata la divisione non è
necessaria di principio, come non è necessaria l’identificazione. Il
Cristo rifiutato non desidera la separazione, la divisione non è legge della
Chiesa.
L’età
costantiniana accolse Cristo, ma la croce divenne strumento di
vittoria contro il nemico e quindi di divisione con gli altri (si considerino la lotta tra
latini e greci, le crociate contro l’Islam, le lotte tra cattolici e
protestanti).
Vi è
stata un’incapacità della fede cristiana di proporsi come punto di
riferimento culturale. D’altra parte ha perso il carattere di religione
naturale, praticabile a prescindere dalla ragione.
Vi è
stata difficoltà ad accettare lo spirito scientifico (che stava per
diventare il cemento della nuova società): Galileo, Eldorado di Voltaire, Utopia di Moro sono situati fuori del mondo
cristiano.
Solo la
ragione autonoma / legge a sé stessa è stata ritenuta in grado di
sostituire la religione nella funzione di fondare la vita civile.
D’altra
parte, se Cristo è Signore universale, in cui tutto deve essere ricapitolato
per la salvezza, bisogna liberare la fede dal compito di dividere una unità
culturale dalle altre e l’autonomia della ragione non può essere
ritenuto criterio ultimo della fede.
Il
problema è il seguente: “Come prendere atto di questa divisione (come
osservato da Maritain: la storia non torna indietro) senza rinunziare alla
pretesa universale della fede?” Bisogna collocarsi creativamente nella
situazione venutasi a creare. Bisogna evitare sia la cattura ideologica, sia
l’estraneità insignificante, mantenere l’autonomia della cultura senza
elevare la cultura ad idolo autosufficiente.
E’
possibile pensare a una mediazione tra i due termini “fede e cultura”?
Il
termine “mediazione” può essere ambiguo e va chiarito. Infatti possono
concepirsi operazioni di mediazione in cui o la fede colonizza la cultura o è
la fede che si fa colonizzare.
1.2.1.Vicoli ciechi della mediazione-la sintesi
dialettica degli opposti
Nel pensiero dialettico due realtà
opposte vengono superate in una dimensione superiore che le contiene entrambe.
Operando in questo senso, la fede verrebbe a costituire un elemento necessario
della cultura, cioè un elemento della cultura: si otterrebbe una riduzione
della fede a cultura, a scapito dell’alterità irriducibile della fede.
1.2.2.Vicoli ciechi della mediazione-sincretismo
Nel sincretismo gli elementi eterogenei
si mediano in un quid tertium. Secondo questo metodo, occorrerebbe
provocare l’incontro tra due culture, e quindi bisognerebbe prima ridurre
l’eterogeneità ad omogeneità, nel caso di specie intendendo “fede” come
“cultura della fede” per poter poi mediare le due culture sincreticamente;
anche in questo caso si avrebbe una riduzione della fede a cultura.
1.2.3.Vicoli ciechi della mediazione-compromesso
Il compromesso deve essere considerato una forma
degenerata di sincretismo. Si cerca una mediazione individuando un terreno
comune. Tuttavia la fede è per sua natura radicale e mal si presta al
compromesso.
1.2.4.Vicoli ciechi della mediazione-adeguamento
rinunciatario
Vi può essere un adeguamento rinunciatario
dell’uno o dell’altro termine. O si produce una culturalizzazione del
cristianesimo o una teocrazia,
ottenendo poi in realtà o la fine della fede o la fine della cultura o di tutte
e due.
1.2.5.Vicoli ciechi della mediazione-l’uso
strumentale vicendevole.
Vi è una cultura della crisi, apologeticamente
usata per far prevalere la fede e una cultura sacrale che viene usata con
funzione legittimante-
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Miei appunti di
lettura sull’ecclesiologia del Concilio Vaticano 2°
L'organizzazione
della nostra collettività di fede, così come oggi ci appare e la conosciamo
risale a circa mille anni dopo le origini. Da allora e fino all'inizio degli
scorsi anni '60 è rimasta sostanzialmente la stessa: altri mille anni. Dal libro di Battista Mondin, Le nuove ecclesiologie, del 1980, traggo
questa citazione dal teologo Yves Congar (1904/1995), da L'ecclesiologia al 19° secolo (1960):
"Lo sforzo del papato era
consistito nel definire la chiesa come realtà che è non solo una associazione
spirituale, ma una società propriamente detta, visibile, istituzionalmente
differenziata, gerarchica e indipendente, che ha da parte di Dio un ordine proprio,
dotata non soltanto di realtà spirituali ma di mezzi visibili, esteriori,
insomma una società perfetta, che inoltre possiede a titolo speciale non
solo ministeri spirituali, che dirigono le coscienze personali verso
l'autorità tutta spirituale di Dio, ma anche ministeri propriamente gerarchici,
che hanno ricevuto e rappresentano qui sulla terra in forma visibile e
propriamente giuridica un'autorità soprannaturale, conferita
positivamente da Dio. Autorità che esiste nei vescovi e che esiste soprattutto,
per istituzione formale e speciale di Dio, come autorità di governo supremo,
sacerdozio e ministero, nel papa, successore di Pietro e vicario di Gesù
Cristo, delegato dei suoi poteri".
E' solo tra la prima e la seconda guerra
mondiale (1918-1939) che iniziarono a essere pensate diverse prospettive, ma appunto solo a livello culturale. Per arrivare a modifiche normative
occorre arrivare al Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Scrive Mondin, nel testo che ho citato:
"Pur senza dare nuove
definizioni dogmatiche e senza ricorrere a formule teologiche tecniche e
rigorose, ma facendo uso d'un linguaggio semplice di stile biblico, il Vaticano
2° è riuscito a tracciare un'immagine sostanzialmente completa e assai
affascinante della chiesa, assegnando a ogni singola parte l'importanza, il
ruolo, il significato che le compete".
Poi, per
chiarire il senso del cambiamento cita Georges Dejaifve (L'ecclesiologia del Concilio Vaticano 2° - 1973):
"Nella storia della chiesa
il giorno che ha segnato la promulgazione della costituzione Lumen gentium [=Luce per le genti] apparirà in avvenire certamente come un
inizio d'un'era nuova … La costituzione Lumen gentium costituisce
innegabilmente, a mio parere, una svolta
nell'ecclesiologia cattolico-romana … Si può dire che siamo passati da una
chiesa-istituzione a una chiesa-comunità, da una chiesa potenza a una chiesa
povera e pellegrina".
Scrive Battista Mondin in Le nuove ecclesiologie, Edizioni
Paoline, 1980, p.91:
“Nell’ecclesiologia
classica la chiesa pare esistere e al di fuori dei fedeli, i quali sembrano
attaccati alla chiesa come dall’esterno, in virtù della loro soggezione e
sottomissione all’azione dei poteri della chiesa, ossia dell’istituzione
ministeriale. Nell’immagine classica della chiesa l’istituzione sembra essere
il soggetto immediato di tutti i doni di Dio e il soggetto attivo della
distribuzione di tali doni ai fedeli”.
Le decisioni del Concilio Vaticano 2°, che
hanno un importantissimo profilo dogmatico, quindi relativo a fondamenti
irrinunciabili della fede, hanno cambiato molto quella concezione, in
particolare accogliendo il punto di vista del teologo che ha esercitato il
maggior influsso nel dibattito conciliare, il domenicano francese Yves Congar
(1904-1905). Alla base del suo pensiero vi l’idea che nella vita collettiva di
fede ogni valore umano sia ricapitolato e incorporato
mediante l’azione della Chiesa:
“Ad ogni crescita, ad ogni progresso, ad ogni estensione
dell’umano in uno dei campi della creazione - mediante la conoscenza oppure
mediante l’azione - deve rispondere un’incorporazione della fede,
un’incarnazione della grazia, un’umanizzazione di Dio. Questa è la chiesa,
questa è la cattolicità. La chiesa non è un piccolo gruppo sociale, isolato, un
blocco a parte che resterebbe intatto attraverso le evoluzioni del mondo; la
chiesa è il mondo in quanto credente in Cristo, che abita e salva il mondo per
mezzo della fede. La chiesa è l’umanità religiosa; che dico: è l’universo in
quanto trasfigurato mediante la grazia ad immagine di Dio”.
Da questa concezione
della missione delle collettività di fede deriva in particolare
l’esigenza di un ruolo molto attivo dei laici per esercitare
un’influenza sulle civiltà umane, quelle che definisce realtà terrestri, per
orientarle secondo gli ideali di fede. Queste realtà riguardano anche il mondo
della cultura, della scienza, dell’arte, della politica, della tecnica. Essi,
secondo Congar, sono indispensabili e insostituibili in quel lavoro in quanto,
a differenza dei sacerdoti e dei monaci, appartengono nello stesso tempo al
mondo e alla Chiesa. Compete anche a loro in quanto anch’essi, personalmente e
tutti insieme, sono tempio santo, abitati dalla presenza soprannaturale
dell’Altissimo, tutti partecipi della stessa vita gloriosa e beatificante.
Dopo il Concilio Vaticano 2° l’edificazione di quella realtà umana e
soprannaturale che viene definita Chiesa
è frutto anche dell’azione dei laici, che costituiscono la maggior parte del
popolo di fede. E’ necessario impersonare collettivamente la realtà ideale
disegnata dai saggi del Concilio, i
quali, approfondendo la riflessione sulla vita collettiva di fede, ne hanno
riscoperto e svelato i fondamenti
soprannaturali.
Distaccarsi da un'organizzazione della nostra
collettività che era integralmente un portato storico e che doveva essere
giudicata, nell'azione di purificazione
della memoria, insieme alla storia in cui era nata e vissuta e in cui tanta
parte aveva avuto nel bene e nel male, si è rivelato molto difficile, tanto da
far temere che questo non potesse farsi senza dissolvere la nostra esperienza
sociale religiosa. Karolo Wojtyla non avrebbe scelto di chiamarsi Giovanni Paolo, dai due nomi dei Papi
del Concilio Vaticano 2°, se non avesse avuto la chiara consapevolezza che
distaccarsi si doveva. Pensò tuttavia di poter produrre il mutamento dal
vertice, con l'alta autorità propria del suo ministero religioso, in tal modo
preservando la nostra collettività dal disfacimento. Ma il morbo di Parkinson
che lo colpì non gli lasciò vita e forze sufficienti per riuscirci.
Ha scritto Stefano Biancu nell'articolo dal
titolo "Dall'ombelico alla
città", pubblicato su numero 6/2013 di Coscienza, la rivista del M.E.I.C.:
"…l'antico
può rappresentare -oltre che una ricchezza- una tentazione: una via di fuga
spiritualistica e gnostica rispetto alla sfide che ci attendono. Le polemiche
che hanno accompagnato il cinquantenario del Concilio Vaticano 2° ne sono un
esempio eclatante: lo sforzo legittimo di leggerlo in una ermeneutica della
continuità tradisce, presso alcuni autori, un malcelato desiderio di
disattivare la portata rinnovatrice di quello che è stato un grande progetto
culturale. Come non manca mai di osservare un teologo del calibro di mons.
Crispino Valenziano, il Concilio è infatti - a tutti gli effetti - un progetto
culturale: un progetto culturale -
fondato su un "ressourcement" [=ritorno] biblico, patristico, liturgico e proiettato
verso "l'aggiornamento" - che, sotto molti aspetti, attende da
cinquant'anni che si passi alla fase esecutiva. Certo il Concilio non ha detto
tutto e il nostro compito di elaborazione teorica non è dunque oggi esaurito.
Ma ha indicato -con grande lucidità- un metodo: il metodo dell'ascolto e
dell'attenzione ai segni dei tempi".
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2.Mediazione - confronto - dialogo - incarnazione
Occorre
cercare una mediazione tra fede e cultura che operi creativamente un confronto
tra i due termini salvaguardando la reciproca autonomia, in modo che nessun
territorio sia preda dell’altro. Ma è sufficiente?
Secondo
Ruggeri il cristiano offre come dono la compagnia della fede. Ma è
possibile un’autonomia che non si sporchi le mani, una fede che si sottragga
del tutto al lavoro culturale?
E’
necessario rendersi conto che la mediazione è possibile, ma che sorgono diversi
problemi. Bisogna chiarire fin dove debba spingersi il metodo del dialogo
e fin dove il concetto di mediazione sia implicato in quello di incarnazione.
3.Chiarire i termini da mediare-compiti della
teologia contemporanea
3.1.Vangelo
Indicando come uno degli elementi da mediare come il
Vangelo e non come fede
si vuole significare la volontà di ritorno all’essenziale, originario,
autentico da annunciare e da vivere nella nuova situazione (per non
contrabbandare merce falsa o sottoprodotti).
Bisogna
chiedersi se la società moderna ha rifiutato il Vangelo o una Chiesa
che annunciava per Vangelo ciò che Vangelo non era o era una incarnazione
del Vangelo legata a una cultura ormai tramontata. Il distacco è
frutto di cattiva volontà degli uomini (sia intesi sia come annunciatori che
come ascoltatori) o frutto di una crisi della cultura in cui il Vangelo si
era inculturato?
Se si
vuole fare vivere il Vangelo nell’oggi della cultura, occorre, prima di
operare la mediazione culturale, riscoprire l’essenziale del Vangelo. E’
però impossibile una ricerca ingenua, come se si potesse scoprire un
Vangelo non ancora mediato, inculturato.
3.2.Cultura
Bisogna considerare la cultura dei nostri giorni
nella sua consapevolezza critica, intesa come presa di coscienza di ciò
che si è. La cultura dei nostri giorni non è solo un insieme di idee teoriche
astratte,ma un insieme di modi storici di vivere, esprimersi pensare, in senso
sociologico globale.
La cultura dei nostri giorni presenta le
seguenti caratteristiche:
a)autonomia, intessa
come autonomia dalla fede;
b)criticità, sia
rispetto all’autorità che alle altrui opinioni, anzi con la pubblica
opinione;
c)immanenza: si
presenta come un progetto mondano di liberazione o promozione umano e
non riconosce come cultura ciò che evade da questo progetto;
d)totalità:
costituisce insieme un progetto radicale e totalizzante che, pur rivolto
alla storia, contempla la totalità dell’uomo, del futuro dell’uomo, e nello
stesso tempo critico di una criticità rigorosa e capace di una effettiva
prassi di lotta.
I rischi
di una siffatta cultura sono che:
a)l’autonomia secolare si evolva in secolarismo;
b)l’immanenza si evolva nella creazione di un
idolo alternativo.
Vi sono
due questioni aperte, in merito al tema:
a)anche le culture cosiddette “deboli”
corrispondono a questo modello?
b)qual è oggi il vero “patner” del discorso
della fede con la cultura? L’intellettuale o l’uomo povero?
3.3.Compiti della teologia contemporanea
Ad un
primo livello di comprensione la teologia può essere intesa come scienza di
Dio non raggiunta solo con le nostre forze intellettuali, che ha fonte
nella Rivelazione e che concerne verità che possiamo cogliere solo nella
fede. La teologia è indispensabile per
la fede in ogni sua fase, infatti non è possibile riflettere senza var
coscienza di ciò che si fa: la consapevolezza è un inizio di teologia.
Ad un
secondo livello di comprensione la teologia viene intesa come scienza vera e
propria della fede, con un suo metodo e con la possibilità di varie
costruzioni concettuali che variano ampiamente.
La
teologia contemporanea sta mutando da teologia del Magistero a teologia
della Rivelazione.
Per la teologia
del Magistero o teologia dogmatica la fede è un insieme di dogmi, vale a
dire di verità rivelate da Dio e a noi insegnate dal magistero dei papi e dei
vescovi. Lo scopo di questa teologia e di fondare le verità insegnate dal
magistero (produce manuali di teologia formulati a temi del Magistero e prove
delle tesi e conseguenze per la vita).
A questa
metodologia si può obiettare che gli interventi del Magistero sono limitati ad
alcuni argomenti ben circoscritti e spesso sono determinati da intenti polemici
verso alcuni errori. La Rivelazione ha un contenuto molto più ampi degli
interventi definitori del Magistero, contenuto che deve essere accessibile
dalle fonti e che deve essere mediato perché parli ancora all’uomo,
facendo un un’opera archeologica, ma di attualizzazione per proporlo al nostro
tempo. Questo significa anche scoprire le mediazioni che hanno originato le
stesse fonti e capire che la storia e
necessaria per interpretare le fonti.
Il merito
della teologia contemporanea è stato di rendere la teologia più vicina alla
concreta vita di fede che inizia e spesso si mantiene come fede ingenua,
cioè tradizionalmente ricevuta. Dalla teologia contemporanea partono provocazioni
culturali che:
a)rendono consapevoli che non è possibile
mantenere quella fede tradizionale ricevuta se non a prezzo di una divisione
tra fede e vita;
b)invitano a verificare la fede sulle fonti (per
chiedersi “a che cosa è legata la mia fede?”, a tutte le concezioni mitiche di supporto, ad una certa ascesi o ad
altro?).
Il
problema della teologia contemporanea è di riscoprire il Vangelo” e, poiché il Vangelo puro non esiste
più, di fornirne una attualizzazione vitale, inventando un modo per esprimere
oggi quel Vangelo. La teologia si fa quindi luogo di mediazione tra fede
e storia perché la fede possa sopravvivere. La teologia contemporanea ha fatto
di ciò il suo metodo e il suo statuto.
4.Teologia liberale e teologia dialettica.
4.1.Rispondere alle esigenze dei tempi
La
teologia liberale e la teologia dialettica sono accomunate dall’intento di
rispondere alle esigenze dei tempi (inteso come adeguamento alla filosofia
delle scienze) e costituiscono tendenze di pensiero sempre riaffioranti.
In campo
cattolico il “modernismo” può essere considerato una espressione della teologia liberale.
La
filosofia dialettica (Karl Barth) si presenta come una reazione alla teologia
liberale.
Le sfide
con le quali queste concezioni teologiche intendevano confrontarsi erano quelle
poste dalla sintesi idealista, dall’evoluzionismo positivistico,
dalle scienze storico critiche, dal liberalismo politico economico.
4.1.1.La sintesi idealista
La sintesi idealista aveva posto in questione il
rapporto tra trascendenza e immanenza,
criticando il concetto di trascendenza di Dio e proponendo una concezione forte
della immanenza di Dio nell’uomo; quindi non una pura e semplice negazione
della trascendenza, ma la sottolineatura di una realtà presente nella
tradizione.
4.1.2.L’evoluzionismo positivistico (Comte)
Nella
concezione dell’evoluzionismo positivistico la religione si presentava come un
momento superabile e superato della concezione del mondo.
4.1.3Le scienze storico-critiche
Si volevano applicate anche ai Vangeli (oltre
che a fonti laiche, come ad es. i testi omerici) le concezioni delle scienze
storico critiche, evidenziando all’interno della Scrittura una evoluzione
analoga a quella che si riscontrava nel magistero e proponendo il cristianesimo
come fenomeno storico.
4.1.4Il liberalismo politico economico
Il liberalismo politico economico fondava la sua
concezione di democrazia sulla base della negazione dell’autorità, anche di
quella rivelata.
4.2.Soluzioni della teologia liberale
Sulla
scia di Hegel e del neokantismo nella teologia liberale la religione cristiana
costituisce il completamento e l’unificazione delle dimensioni culturali dell’uomo.
In Hegel
la religione cristiana viene considerata religione assoluta perché è la
religione dello spirito, che si trova nell’uomo. Tuttavia secondo Hegel anche
la filosofia ha lo stesso oggetto, sia pure procedendo per concetti e non per
rappresentazioni, e quindi la religione avrebbe lo stesso contenuto della
filosofia. In Italia il filosofo Gentile concepì, in quest’ottica, l’insegnamento
della religione cattolica nelle scuole elementari come mezzo per portare la
filosofia ai discenti sotto rappresentazioni mitiche.
Secondo
il teologo Friedrich Daniel Ernst
Schleiermacher ( 1768-1834) , la religione non sarebbe un insieme di verità
concettuali, né un insieme di norme etiche, ma un atto di intuizione del
sentimento dell’unità di infinito e finito (uno dei motivi del romanticismo).
Nella
teologia liberale si utilizzano le scienze storico critiche per distinguere un nucleo
originario della predicazione di Gesù dai successivi sviluppi dottrinali ed
ecclesiali: questa essenza costituirebbe il coronamento della cultura. Il
sacro viene concepito come culmine convergente delle categorie
del vero, del bello e del buono. Gesù viene ritenuto un
maestro di una forma più genuina della religiosità dell’uomo.
Espressione di questa tendenza è l’opera del
teologo Adolf von Harnack (1851-1930) L’essenza del cristianesimo, un
ciclo di lezioni universitarie tenute nel 1900 ad allievi di tutte le facoltà.
L’autore in quest’opera procede solo in modo storico critico e
non in modo dogmatico né apologetico. Va quindi alla ricerca
di un nucleo originario duraturo che permane nelle varie forme
transitorie che il cristianesimo ha assunto, di una essenza da
scoprire all’interno del Vangelo stesso, una sorta di evangelo dell’evangelo.
Anche il Vangelo si presenta come legato al tempo, ma conterrebbe forme
sempre valide sotto le quelle caduche, storiche, mutevoli. Questo nucleo
originario duraturo viene individuato nella predicazione di Dio come Padre (“Dio
è padre”). Poiché contiene questo nucleo originario duraturo il cristianesimo
non sarebbe una religione positiva come le altre, sarebbe la religione per
essenza. Il Regno di Dio è visto come realtà interiore (religione
dell’anima e del suo Dio). Per quanto
riguarda i problemi della cristologia, non è necessario credere nella
umanità-divinità di Cristo, ma basta guardare solo a ciò che Cristo ha detto.
Il centro non è Cristo, il figlio, ma soltanto il Padre. Cristo è la via
che porta al Padre, è un maestro di religiosità, è la forza personificata
dell’intimità con Dio, per questo le sue parole rimangono. Quanto alla questione delle due nature di
Cristo in una sola persona, essa sarebbe frutto dell’intellettualismo greco.
L’evangelo non è una dottrina teoretica, ma è dottrina in quanto insegna Dio
come Padre. In questa concezione l’etica è scissa dal culto esteriore, è
incentrata sull’amore e non è possibile trarne programmi di azione sociale.
4.2.1.Valutazioni sulla teologia liberale
C’è molto
di positivo e attuale
nella teologia liberale, in particolare l’impegno profondo nel dialogo con la
cultura e il ritorno al’esenziale (per evitare sacrifici inutili
all’intelletto). Vi è anche un apprezzamento del mondo contro l’ascetismo
(contro il quale si era scagliato Nietsche). Però l’esito di questa teologia è
stato la perdita di elementi essenziali quali la cristologia, la croce.
Costituì un adeguamento alla cultura del tempo, una sorta di religione borghese
che proponeva una pace di resa col mondo. La religione veniva appoggiata
solo in quanto appoggiava lo statu quo. Vi era un ottimismo circa le sorti
della civiltà ottocentesca, che invece risultò travolta dalla catastrofe della
prima guerra mondiale. E’ stato osservato che l’errore di questa concezione
teologica è stato quello di concedere al mondo il diritto di assegnare a
Cristo un posto nel mondo.
Va
ricordato che nel 1914 von Harnack firmò
un appello di intellettuali tedeschi per l’entrata in guerra della Germania.
4.3.1.Karl Bart e la teologia dialettica
Karl
Barth fu un discepolo dei teologi liberali. Entrò in crisi dopo la sua
esperienza pastorale (1909-1921) a contatto con i ceti operai ed a seguito dei
problemi posti dalla “questione di classe”. Propone ancora un approccio
culturale: concepisce il centro del messaggio cristiano nella predicazione
della venuta del Regno di Dio, il che porta a non rifugiarsi nella vita
interiore. Il Regno viene inteso come Signoria di Dio: vi è in
merito una lunga riflessione del suo Commento all’epistola ai Romani di San
Paolo. Barth è all’origine di una vera e propria rivoluzione teologica. Si
pone il problema di come parlare all’uomo di Dio lasciando parlare Dio e Dio
soltanto: un vero capovolgimento rispetto alla prospettiva della teologia
liberale. Barth sente l’esigenza di lasciare Dio nella sua alterità radicale
e non compie nessun tentativo per mediare filosofia e fede. Nella teologia di
Barth è centrale l’escatologia come annuncio del Regno, non nel senso di
auspicare una trasformazione politica, ma di annunciare la soppressione di
questo mondo e l’instaurazione di un Regno che non è di questo mondo. Si
proclama una differenza qualitativa tra Dio (inteso come Deus
absconditus) e il mondo. In questa concezione la potenza di Dio è la crisi
di tutte le forze,è il totalmente altro, inteso come contraddizione,
il nuovo, l’inaudito, l’inatteso, l’evangelo
assolutamente incondizionato. Di conseguenza si critica e si nega anche la
religione, intesa come insieme di concetti, opere e riti che consentono di
possedere Dio: in tal modo si produce un insopportabile idolo in cui l’uomo
proietta sé stesso (cfr Feuerbach); il Dio della religione è un idolo.
La
teologia di Karl Barth è dialettica in quanto il “No” di Dio al mondo non
significa condanna senza salvezza; dal radicale rifiuto scaturisce il “Si” di
Dio, la sua accettazione dell’uomo. E’ infatti proprio del procedimento
dialettico portare uno degli elementi all’estremo per vederlo convertitonel suo
opposto.
Nella
teologia protestante c’era una doppia predestinazione (per la condanna e per la
salvezza). In Barth la doppia predestinazione è contemporanea, poiché è nel
mentre Dio condanna tutto l’umano che lo accetta. La fede non può essere che salto
nel vuoto, non può avere alcun presupposto umano che deve essere adempiuto
come preliminare alla fede, non vi nessuna gradazione, la fede è l’inizio. La
fede è per tutti lo stesso salto nel vuoto, è per tutti possibile perché è per
tutti impossibile.
Per
quanto riguarda il rapporto fede-cultura, nella concezione di Karl Barth la fede
è il punto critico, non il coronamento, della cultura. La fede non fonda la
cultura, ma la cultura, con la sua avversaria, l’incultura, viene messa in
crisi nel modo più radicale. L’accusa più grave contro questa concezione
teologica è quella di irrazionalismo (per altro non rifiutata da Barth)
e di afasia, nel senso di mantenere il silenzio su Dio. In
proposito va osservato che secondo Barth il compito della teologia è la Parola
di Dio; egli fa le seguenti affermazioni:
a)come
teologi si deve parlare di Dio, non tuttavia come di colui
che è la risposta ultima ai problemi umani, ma come colui che mette in crisi
tutte le possibilità umane;
b)come uomini non possiamo parlare di
Dio; per nessuna via è infatti possibile dire l’incarnazione, la Parola di Dio;
c)la teologia dogmatica ortodossa presenta delle
verità (intese come concetti), non Dio nel suo farsi uomo;
d)la via mistica (percorsa da Barth all’inizio)
dice solo la negatività dell’uomo;
e)utilizzando la leva dialettica si può
raggiungere un equilibrio tra il “Si” della teologia dogmatica e il “No” della
teologia mistica, senza la pretesa di esporre la verità di Dio, ma con la
pretese di essere testimonianza di Dio.
f)dobbiamo essere coscienti di entrambe le
condizioni (teologi/uomini) e proprio per questo rendere onore a Dio.
Anche
nell’ultima fase del pensiero di Barth non viene mutata la concezione che la
Parola di Dio non è quella del teologo ma quella a cui il teologo rende
testimonianza. La Parola di Dio è un avvenimento che non può essere catturato.
4.3.2.Osservazioni sulla teologia dialettica
di Karl Barth
Nella
teologia dialettica di Karl Barth vi è la vigorosa affermazione della novità positiva del cristianesimo,
l’affermazione dell’autonomia di Dio e della sua Parola. Vi è tuttavia
il pericolo di cacciare il cristianesimo nel vicolo cieco dell’antiumanesimo e
nell’irrazionalismo, cioè nel fideismo. Vi è infatti la possibilità di un
fraintendimento: secondo il filosofo Bloch, il Dio di Barth è la
personificazione del filone teocratico della Bibbia; l’uomo, nella concezione
di Barth, sarebbe schiacciato dalla potenza di Dio e ciò che doveva essere
annuncio salvifico viene colto da Bloch come la schiavizzazione dell’uomo
perché il “No” di Dio all’uomo se detto da uomini non genera il “Si” di Dio
all’uomo.
La
teologia dialettica ha la possibilità di un proseguimento fecondo. Vi è
l’affermazione dell’assoluta centralità dell’azione divina, togliendo
fondamento alla pretesa dell’uomo di divinizzare la storia, di sacralizzare la
storia; questa teologia conduce alla comprensione della mondanità della storia.
L’affermazione dell’alterità di fede e cultura può evitare una sacralizzazione
del mondo che produca ostacoli alla comprensione del mondo. Rimane la questione
se l’estraneità di Dio dal mondo, della fede dalla cultura, sia proprio
l’ultima parola di Dio nel Vangelo.
5.Le teologie di Paul Tillich (1886-1965) e di Rudolf Bultmann
(1884-1976)
Le teologie di Paul Tillich e di Rudolf Bultmann si confrontano con la
filosofia della crisi, riprendono tematiche, ma non le soluzioni, della
teologia liberale.
5.1.1.La teologia di Paul Tillich
Per
Tillich l’esperienza della guerra è una svolta epocale-culturale. Determina il
tramonto dell’idealismo ottimistico e della teologia liberale. Dopo
l’esperienza della guerra si apre un’epoca di crisi. L’uomo del 20°
secolo non ha solo dietro di sé una storia di catastrofi, ma ha anche di
fronte un destino di catastrofi: ha vissuto la colpevolezza in dimensioni
mai raggiunte, dubita del proprio giudizio, sperimenta un abisso di assurdità.
L’affermazione di Nietsche “Dio è morto!” può assumere il significato
di una liberazione dall’idealismo. Si è
in condizione di dire Dio in modo
nuovo. Occorre far emergere la potenza della fede nascosta in ciascuno di
noi, contro l’abuso del nome di Dio. Tillich sostiene che occorre scoprire il
senso sconvolgente di questo nome: Dio. Addirittura nelle sue opere non uso il
termine stesso di “Dio”. Occorre dare una nuova espressione della dignità del
messaggio cristiano, adatta ai nuovi tempi. Per far questo occorre esercitare
il ministero della mediazione, inteso come opera di conciliazione e di pacificazione tra la fede e le esperienze
mutevoli dei singoli e dei gruppi, e superare anche il conflitto tra teologia
dialettica e teologia liberale. Occorre cercare ciò che divide e ciò che
unisce, sulle frontiere tra passato e presente (tra i tempi), tra Vecchio e
Nuovo Mondo, tra cultura e cristianesimo. Dopo la soluzione della teologia
dialettica basata sulla separazione e quella della teologia liberale basata sulla sintesi,
bisogna usare il metodo della correlazione per stabilire una sintesi
basata sulla relazione costante tra cristianesimo e cultura, tra domande
esistenziali e risposte teologiche.
Dio
risponde agli interrogativi degli uomini (dell’esistenza umana). Bisogna
partire dalla situazione umana da cui procedono gli interrogativi esistenziali
e ricercare quali risposte la rivelazione può dare a questi interrogativi. La correlazione
va intesa come interdipendenza di due fattori indipendenti. Domande e
risposte sono indipendenti (vale a dire che non è possibile trarre le risposte
dalle domande e non è possibile inserire la domanda nella risposta, perché la
domanda ha una sua autonomia, indipendenza e originalità).
Però ha
torto Barth quando non vuole indagare sulla natura delle domande umane,
rifiutando la teologia naturale e l’esame della situazione umana: si tratta di
un autoinganno. Vi è infatti una reciproca dipendenza tra la
domanda e la risposta, all’interno dell’impegno religioso. Infatti il
senso della risposta è legato a ciò che ci riguarda in modo definitivo, che
riguarda la questione dell’essere/non essere della salvezza/non salvezza.
Analogamente, l’orizzonte religioso comprende anche la domanda. Il teologo non può
dare una risposta convincente, se non partecipa con tutto il suo essere alla precarietà
della domanda (non è solo un esperto della risposta di Dio). La sostanza
della risposta è indipendente dal quella della domanda, ma non lo è dalla forma
della domanda.
La sostanza
della risposta teologica è il Cristo. Ma è differente se si risponde al
legalismo giudaico (allora il Cristo viene presentato come liberazione dalla
legge), alla disperazione esistenziale dello scetticismo greco (allora il
Cristo viene presentato come lògos, verità già nascosta e portata alla
luce), o al nichilismo del 20° secolo ecc.
L’elaborazione della domanda esistenziale
spetta al filosofo. Tillich in merito utilizza la filosofia dell’esistenzialismo.
Ma l’esistenza di risposte divine porta il teologo a discernere tra le
domande esistenziali.
Nell’opera Teologia sistematica Tillich
propone 5 domande esistenziali e 5 risposte teologiche. Alla domanda
concernente la ragione la teologia risponde con la rivelazione, a
quella su essere/non essere risponde con Dio, a quella sull’esistenza
risponde con Cristo, a quella
sull’esistenza risponde con lo Spirito, a quella sulla storia
risponde con il Regno di Dio.
Ad
esempio la teologia pone in correlazione il tema essere/non essere e
quello di Dio in quanto afferma che Dio è il fondamento dell’essere che
resiste alla minaccia del nulla (è il fondamento del coraggio di esistere).
Analogamente, pone in correlazione la storia (con il senso del
cammino, della precarietà del futuro) con il Regno di Dio, affermando
che il Regno di Dio è il senso, il
compimento, la realtà della storia.
Tillich
pensa di superare sia il soprannaturalismo (che intende Dio gerarchicamente sopra
il mondo - principio Zeusico) e il
naturalismo (che identifica Dio con il mondo), proponendo una visione di Dio
vicino al mondo ma altro dal mondo. Dio non si deve cercare fuori del
mondo, ma neppure è il mondo.
Pensa di superare l’autonomia (intesa come dimenticanza del senso ultimo
della vita e della cultura) e l’eteronomia (Dio si impone al
mondo) e propone una teonomia, intesa come visione di Dio il quale
domina l’essere dall’interno, come fondamento e senso ultimo.
5.1.2.Considerazioni sulla teologia di Paul
Tillich.
Nella
teologia di Paul Tillich vi è il rischio di non salvare a sufficienza né
l’autonomia di Dio né quella del mondo. In primo luogo può obiettarsi che la
Rivelazione viene trovata ovunque nel mondo (Barth) e che non
rispettando l’autonomia del mondo si causa il fallimento del tentativo di
reinterpretare le domande esistenziali e il mondo non accetta queste reinterpretazioni
(Bonhoeffer). Bonhoeffer critica Tillich, affermando che Tillich vuole dare
come un tutore al mondo - il tutore/Dio -, ma davanti alla possibilità che le ultime
questioni possano essere risolte senza Dio si trova nella necessità di
demolire l’apparente sicurezza del mondo, per cui fa vivere la religione sui
fallimenti umani nei vari campi.
Tuttavia
il fascino della teologia di Tillich è di essere un tentativo di teologia
della mediazione, con la preoccupazione amorosa e pastorale di trovare Dio
nelle realtà del mondo e della vita come ultima e vera realtà. Pedagogicamente
è una via utile perché afferma che bisogna calibrare le risposte. E’ una
teologia legata all’esistenzialismo, che corre anche il pericolo di cadere nell’intimismo.
5.2.1. La teologia di Rudolf Bultmann
In Rudolf
Bultmann il rapporto tra Vangelo e cultura è definito utilizzando il concetto
di ermeneutica, intesa come teoria dell’interpretazione o studio dei
presupposti generali del fatto interpretativo. In questa concezione la cultura
è uno dei presupposti dell’interpretazione, operazione che permette di
cogliere ciò che il Vangelo può dirci oggi.
Bultmann,
nell’occuparsi del rapporto tra Vangelo e cultura, propone due vie:
quella della demitizzazione, intesa come ricerca del nucleo essenziale,
e della interpretazione esistenziale.
5.2.1.1.La demitizzazione
Bultmann
propone il metodo di interpretazione della storia delle forme. Il testo
del Vangelo viene concepito come risultato di una elaborazione e di una
connessione organica di varie forme più originali che riportavano detti
e fati interpretativi ambientati e adattati nelle primitive comunità cristiane.
Occorre pertanto ripercorrere le storie di queste forme e compiere analisi
filologiche per mettere in luce quale era l’autentico detto o fatto, in modo da
chiarire il contesto e vedere l’intento interpretativo della comunità o
dell’evangelista. L’interpretazione deve essere guidata anche da una intenzione
teologica oltre che archeologica. Si deve arrivare a vedere quello che
questi testi hanno dire a noi oggi, bisogna scoprire l’appello
odierno del Nuovo Testamento, vale a dire che cosa è o non è la fede cristiana.
Il
primitivo messaggio cristiano ha subito già all’inizio, per funzioni
descrittive, un rivestimento mitico. Ad esempio nella
rappresentazione di una suddivisione del
mondo in tre strati: cielo, terra e inferno. O nella proposta di una visione della storia dell’uomo sottoposta
all’ingresso di potenze soprannaturali come angeli e demòni e votata ad una
fine prossima. Il mito è ogni rappresentazione nella quale ciò che è
divino viene presentato come mondano e umano. Nel mito gli
interventi di Dio vengono presentati come qualcosa di constatabile.
Allora, per rendere trasparente il significato più vero del Vangelo è
necessaria una demitizzazione, intesa come ricerca del senso
esistenziale. Poiché la nostra cultura non é più una cultura mitica, occorre
liberarsi del mito inteso come rivestimento culturale.
Nella
prospettiva del mito, il mondo è aperto al mondo dell’aldilà e non solo il
mondo naturale ma anche la vita personale sono sottoposti a potenze non
mondane. Nella prospettiva delle scienze il mondo è chiuso all’intervento di
potenze non mondane, ma aperto al pensiero scientifico; in questa concezione
l’uomo si interpreta come unità e imputa a sé stesso le sue azioni. Il pensiero
scientifico distrugge l’immagine del mondo come risulta dalla Bibbia.
5.2.1.2.L’interpretazione esistenziale
L’interpretazione esistenziale suppone una precomprensione
dell’esistenza. Per cogliere il senso dell’annuncio della Scrittura, occorre
che si sia aperti al senso dell’esistenza, che si sia aperti alle cose di cui
si tratta in quei testi.
Bultmann
utilizza l’esistenzialismo del
primo Heidegger per descrivere
l’esperienza che serve da precomprensione. In questa prospettiva si distingue
una esistenza autentica da una esistenza inautentica. L’esistenza autentica è aperta
all’inoggettivabile, vive dell’invisibile; l’uomo è storicità (intesa
come libertà, decisione, poter essere, ciò che non è tutto fatto); si
può cogliere l’altro come io e si può fondare un rapporto interpersonale
fondato sul’appello di novità che l’altro è. L’esistenza inautentica è quella
in cui l’uomo si affida a ciò che è tangibile e visibile, di cui può disporre;
l’uomo è ragione, nel senso che egli oggettivizza tutto ciò che
conosce - tutto ciò che viene conosciuto diviene oggetto su cui si
esercita il dominio, anche l’altro uomo. La filosofia tuttavia, secondo
Bultmann, non può passre dall’esistenza inautentica all’esistenza autentica:
solo l’evento salvezza verificatosi in Cristo consente questo passaggio.
Secondo
Bultmann l’appello liberante di Cristo non ci perviene per via
storica (attraverso l’oggettività degli scritti evangelici): il Gesù della
storia non salva (infatti non si può essere tutti esegeti e oltre tutto è
irraggiungibile. Tale appello liberante ci perviene per il tramite di una conoscenza
storico-esistenziale, come appello della predicazione attuale del chérigma
alla vita presente, annuncio escatologico che però già nel Nuovo Testamento ha
i tratti del mito. Ad esempio la resurrezione del Cristo non è un evento di
questo mondo: trova nel Vangelo di Giovanni i tratti di un annuncio
storico-esistenziale (non avviene adesso, non è un cambiamento fisico del
mondo, è un atteggiamento esistenziale: l’evento escatologico).
5.2.2.Osservazioni sulla teologia di Rudolf
Bultmann
Rudolf
Bultmann introduce in teologia il problema ermeneutico, la necessità di una
mediazione culturale per interpretare il vero senso dell’annuncio biblico. E’
tuttavia discutibile il tema della precomprensione, soprattutto per essere così
legato alla filosofia esistenzialista. Sono discutibili anche la negazione
della possibilità di raggiungere la persona storica di Cristo e la concezione
del mito. E’ positivo porre il problema della retta interpretazione e
stabilire un nesso tra Vangelo e
cultura. Bultmann, come già Tillich, afferma la necessità di pensare il
Vangelo con tutta la nostra cultura, non mischiando Vangelo e cultura né
ponendo diaframmi tra noi e il Vengelo; egli intende la cultura come via per
penetrare il Vangelo nella sua autenticità.
6.Jacques Maritain (1882-1973). L’umanesimo
integrale
6.1. Presentazione di Umanesimo integrale
Il relatore ha dichiarato di considerare,
dell’opera di Jacques Maritain, solo Umanesimo integrale-problemi temporali
e spirituali di una nuova cristianità del 1936 che contiene, come scrive lo
stesso autore, “il testo di sei lezioni tenute nell’agosto del 1934 ai corsi
estivi dell’Università di Santander”.
Maritain
ritiene che dopo la crisi modernista sia necessaria una nuova sintesi
tra cristianesimo e umanesimo moderno, che comprenda anche temi politici come
libertà, giustizia ecc. Questa nuova sintesi viene esposta in Umanesimo
integrale che è un’opera filosofica e teologica ispirata alla filosofia di
Tommaso d’Aquino; si propone una visione globale di temi filosofici e
teologici e di temi concreti con indicazioni politiche. Questa nuova sintesi ha
subito opposte critiche: di naturalismo da parte dei cattolici, di
soprannaturalismo da parte dei laici.
Lo schema
dell’opera si muove intorno al concetto di uomo. Si esaminano la
cristianità medievale e l’umanesimo moderno e si propone un ideale di nuova
cristianità intesa come
umanesimo integrale. Si considera la posizione pratica
dell’uomo davanti a Dio, il problema di che cosa sia l’uomo e la relazione tra
Grazia e libertà. Considerando il rapporto tra il cristiano e il mondo si
esamina l’ideale storico concreto della cristianità medievale e si
propone l’ideale storico di una nuova cristianità.
L’idea
chiave dell’opera è il principio tomista dell’analogia, che si
contrappone ad “univocità” ed “equivocità” e che afferma la possibilità che un
termine o un’idea possano essere concretizzati in modi essenzialmente diversi
pur conservando intatta la loro
formalità. In sostanza un principio può essere realizzato in modi
diversi pur rimanendo intatto il suo riferimento al nucleo centrale. Per
Maritain questo nucleo centrale è l’idea di cristianità intesa come cultura
o civiltà cristiana, una società
animata da principi cristiani.
6.2. L’uomo nella visione della cristianità
medievale
Nella
cristianità medievale l’uomo veniva concepito come persona, vale a dire come
universo di natura spirituale avente libertà di scelta. In questa concezione
l’uomo viene costituito dalla sua libertà come un tutto indipendente di fronte
al mondo e di fronte a Dio.
Tuttavia
l’uomo è persona ma persona
ferita, infatti porta
l’eredità del peccato originale, ha una natura ferita.
La
filosofia medievale sottolinea soprattutto la dimensione metafisica dell’uomo,
ma non studia l’uomo per sé stesso ma nei dinamismi concreti della sua libertà.
La concezione medievale del rapporto tra Grazia e libertà, tratta da Agostino,
afferma la piena gratuità e sovranità della Grazia e l’effettiva libertà
dell’uomo. Si coglie una certa inumanità teologica, infatti in epoca medievale
viene sottolineata la natura decaduta dell’uomo e l’arbitrarietà dell’elezione
divina. L’umanità viene vista come massa dannata e si esclude un
effettivo dramma interiore. L’atteggiamento pratico consigliato all’uomo è di
obliarsi in Dio: si guarda all’azione di Dio, si obliano sia l’azione umana,
sia i costi dell’impegno umano.
6.3 L’umanesimo classico (post rinascimentale)
evolve in un umanesimo disumano
Dalla
dissoluzione del medioevo emerge una civiltà profana che si separa dalla
incarnazione, si passa dal culto del Dio fatto uomo al culto dell’umanità
dell’uomo. La creatura viene riabilitata in senso antropocentrico.
Scrive
Maritain che nel protestantesimo questa riabilitazione appare travestita nel
suo contrario e si mostra in una soluzione di disperazione. Vi è una dialettica
tragica nella coscienza protestante; infatti in questa concezione la
creatura non vale nulla per il cielo (pessimismo teologico) e tuttavia,
attraverso la dottrina della predestinazione, della grazia senza libertà, si
giunge ad un ottimismo temporale, ad un ottimismo per il mondo terreno. Scrive
Maritain: “...il predestinato è sicuro della propria salvezza. Allora egli è
pronto ad affrontare tutto quaggiù e a considerarsi come eletto da Dio sulla
terra: le sue esigenze imperialistiche (per lui, uomo sostanzialmente macchiato
ma salvato, sempre corrotto dal peccato ma eletto da Dio) saranno senza limiti;
e la prosperità materiale gli apparirà come un dovere del proprio stato”.
Maritain ricorda in nota la teoria di Max Weber (1864-1920) sulle origini del capitalismo esposta nel
saggio Sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo e considera
assodato che il calvinismo (e la dottrina stessa di Calvino sul prestito a
interesse) abbiano svolto nel capitalismo “una parte certa e importante”.
Nel molinismo, sistema elaborato dal teologo gesuita spagnolo
Louis De Molina (1536-1600) in cui si esclude la predeterminazione fisica della
grazia, visto da Maritain come teologia umanistica mitigata, l’atto
buono viene sdoppiato in una parte che deriva da Dio e una parte che deriva
dall’uomo. La libertà umana disputa il terreno a Dio ed è quasi sullo stesso
piano di quella di Dio. Nel molinismo si cerca di salvare la libertà umana a
spese della causalità divina.
Come
reazione al molinismo si produce la teologia o metafisica umanistica assoluta, la teologia del
razionalismo, della libertà senza la Grazia, che Maritain individua,
esemplificando, nella filosofia di
Rousseau. In questa prospettiva non vi sono più Grazia senza libertà o libertà
e Grazia e libertà che si contendono il campo, ma solo la libertà,
l’indipendenza. Il molinismo separava il piano della natura (autosufficiente -
piano della ragione) dal piano della Grazia soprannaturale (della fede).
Nell’umanesimo assoluto l’infinito è portato sul piano naturale (Hegel, Bloch).
Per recuperare tutta la pienezza della prospettiva religiosa si passa dalla
separazione dei piani all’assolutizzazione di un elemento, all’antroprocentrismo
che si risolve in un umanesimo inumano. Infatti nella concezione dell’umanesimo
si afferma il dominio dell’uomo sulla natura ma anche l’essere l’uomo
dominato dalla natura.
Maritain
afferma che “...al termine di una evoluzione storica secolare, ci troviamo in
presenza di due posizioni pure: la posizione atea pura e la posizione cristiana
pura. Nella seconda si possono distinguere due correnti di pensiero: la teologia di Karl Barth e il tomismo. Barth presenta al centro dell’uomo Dio, ma annullando
l’uomo dinanzi a Dio, finisce per concepire un antiumanesimo primordiale.
Il tomismo si presenta come integralista (nel senso che tiene presenti sia l’uomo che
Dio) e progressivo (cioè parte dal presupposto che la storia non torna
indietro); intende salvare le verità umanistiche “sfigurate da quattro secoli
di umanesimo antropocentrico mediante un rifacimento totale delle nostre
strutture culturali, che significa passare a una nuova era di civiltà.
Bisogna
chiedersi se il trionfo della ragione strumentale sia un derivato
dell’abbandono di Dio o se l’abbandono di Dio e l’affermazione della ragione
strumentale siano gli esiti di uno stesso sviluppo di pensiero.
6.4. La nuova civiltà cristiana
6.4.1 Umanesimo integrale come umanesimo dell’Incarnazione
In una
nuova concezione di civiltà cristiana la creatura deve essere riabilitata in
Dio: la creatura non è un puro
mezzo, ma è vero fine.
Scrive
Maritain: “in questo nuovo momento della storia della cultura cristiana, la
creatura non sarebbe misconosciuta né annullata innanzi a Dio; non sarebbe
neppure riabilitata senza Dio e contro Dio; sarebbe riabilitata in Dio.
Non c’è più che uno scampo per la storia del mondo, dico in regime cristiano,
checché ne sia del resto: ed è che la creatura sia veramente rispettata nei
suoi legami con Dio e perché essa tiene tutto da lui; umanesimo, ma
umanesimo teocentrico, radicato là ove l’uomo ha le sue radici, umanesimo
integrale, umanesimo dell’Incarnazione”.
6.4.2.La distinzione tra spirituale e temporale
In questa
nuova prospettiva non c’è più antagonismo tra Grazia e libertà: la Grazia
sostiene e attraversa la libertà, è sua causa prima. Occorre recuperare una
coscienza di sé evangelica, elaborare un ideale storico di un nuova
cristianità, attraverso uno sviluppo culturale in modo da favorire lo sbocciare
di una vita propriamente umana, sul piano materiale, etico, religioso,
artistico.
Nel
cristianesimo vi è la distinzione tra religione e cultura. La religione
appartiene all’ordine del soprannaturale e trascende ogni civiltà e cultura: è universale.
Scrive Maritain: “L’ordine della cultura o della civiltà appare dunque l’ordine
delle cose delle cose del tempo, l’ordine temporale. Mentre che l’ordine della
fede e dei doni della grazia, concernenti
una vita eterna che è una partecipazione alla stessa vita intima di Dio,
costituisce al contrario un ordine al
quale conviene per eccellenza il nome di spirituale, e che trascende per sé
l’ordine temporale”.
Poiché la
cultura deve rispettare la persona e i suoi fini, deve favorire
l’effettivo raggiungimento dei veri fini della persona, quindi anche il fine
dell’attuazione religiosa, e
subordinarsi a tali veri fini. Ne consegue che la persona non è
subordinabile alla società, ma la società deve servire la persona.
6.4.3.Il Regno di Dio
La
distinzione tra temporale e spirituale, essenzialmente cristiana pone diversi
problemi nell’ordine teorico, il più
importante dei quali è quello del Regno di Dio. Vi sono tre errori: il
primo è quello di ritenere il mondo come il regno di satana, il secondo è di
concepire il mondo come attuazione del Regno (l’utopia teocratica), il terzo e
di concepire il mondo come regno dell’uomo e della natura pura. Per il
cristianesimo il mondo presenta una ambivalenza, su di esso regna sia Dio che satana. Non
bisogna accettare passivamente questa ambivalenza, ma analizzarla criticamente
e sforzarsi di realizzare la verità storica del Vangelo, informando,
transpenetrando e animando il temporale con lo spirituale.
Scrive
Maritain “Il mondo è bensì salvato, è liberato in speranza, è in marcia
verso il Regno di Dio, ma non è santo, è la Chiesa ad essere santa;
è in marcia verso il Regno di Dio ed
perciò tradimento verso questo regno non volere con tutte le forze una
realizzazione -proporzionata alle condizioni della storia terrena, ma così
effettiva quanto possibile, quantum potes tantum aude- o, più esattamente, una rifrazione nel mondo
delle esigenze evangeliche; tuttavia questa realizzazione, anche relativa, sarà
sempre, nel mondo, in un modo o in un
altro, deficiente e contestata. E nello stesso tempo che la storia del mondo è
in cammino (è la crescita del frumento)
verso il Regno di Dio, è anche in cammino (è la crescita dell’erba
folle, inestricabilmente mescolata al frumento) verso il regno della
riprovazione ... il cristiano deve sforzarsi tanto più di realizzare in
questo mondo (in modo perfetto e assolto se si tratta della propria vita di
persona; in modo relativo e secondo l’ideale concreto conveniente alle diverse
età della storia, se si tratta del mondo stesso) le verità del Vangelo; egli
non si sforzerà mai abbastanza a far progredire le condizioni della vita
terrena e a trasfigurare questa vita. Questo stato di tensione e di guerra è
necessario alla crescita della storia, è soltanto a tale condizione che la
storia temporale prepara enigmaticamente la sua finale consumazione nel Regno
di Dio. Ma se ciò che diciamo è esatto, lo scopo che il cristiano si propone
nella sua attività temporale, non è il fare di questo mondo stesso il
Regno di Dio, bensì di fare di questo mondo, secondo l’ideale storico richiesto
dalle diverse età o, se così posso dire, delle mute di questo, il luogo d’una vita terrena
veramente e pienamente umana, cioè piena certamente di debolezze, ma anche piena
d’amore, le cui strutture sociali abbiano come misura la giustizia, la dignità
della persona umana, l’amore fraterno e che pertanto prepara l’avvento del
Regno di Dio in modo filiale, non servile, cioè mediante il bene che fruttifica
in bene, non mediante il male, che, pur andando verso il proprio luogo, serve
al bene come mediante violenza...il cristianesimo deve informare o
piuttosto transpenetrare il mondo, non in quanto questo sia il suo scopo
principale (è per lui un fine secondario indispensabile) e non affinché il
mondo divenga sin d’ora il Regno di Dio, ma affinché la rifrazione del mondo
della grazia vi sia sempre più effettiva e l’uomo possa vivervi meglio la sua
vita temporale”.
6.4.4.il compito temporale del cristiano-una
santità volta verso il temporale
Maritain
distingue la Chiesa come gerarchia, che opera nel campo spirituale e non
si preoccupa di animare direttamente il temporale, e la Chiesa come
laici cristiani, che ha il compito dell’animazione del temporale. Il
relatore ha osservato che nei documenti del Concilio Vaticano II la distinzione
è presente, ma non così netta.
Per
Maritain occorre evitare sia il temporalismo che l’estraniazione. L’uomo, in
quanto cristiano, opera nel campo
spirituale, come membro della Chiesa, e da cristiano anima il campo
materiale nel temporale. Scrive Maritain in un celebre paragrafo di Umanesimo Integrale che
ritengo opportuno trascrivere quasi integralmente, tanto i suoi echi si
ritrovano nella nostra comune formazione culturale-religiosa:
“...Un rinnovamento sociale vitalmente cristiano
sarà opera di santità o non sarà; dico di una santità volta verso il
temporale, il secolare, il profano... Se una nuova cristianità sorge nella
storia, sarà l’opera di una tale santità...si è in diritto di attendere una
spinta di santità di stile nuovo.
Non
parliamo di un tipo nuovo di santità, questa parola sarebbe equivoca (il
cristiano non riconosce che un tipo di santità eternamente manifestata in
Cristo). Ma mutando le condizioni storiche possono dar luogo a modi nuovi, a
stili nuovi di santità. La santità di San
Francesco ha altra fisionomia da quella degli Stiliti, la spiritualità
dei gesuiti, la spiritualità domenicana o benedettina rispondono a stili
diversi. Così si può pensare che la presa di coscienza dei compiti temporali
del cristiano chiami a un nuovo stile di santità, che si può caratterizzare
come la santità e la santificazione della vita profana.
A dire il
vero, questo nuovo stile è nuovo soprattutto nei confronti di certi concetti erronei e materializzati.
Così, quando questi subiscono una specie
di accasciamento sociologico (è ciò che è accaduto spesso nell’età umanistica
classica) la distinzione ben conosciuta degli stati di vita (stato regolare e
stato secolare), compresa in senso materiale, è intesa in modo inesatto. Lo
stato religioso, cioè lo stato di quelli che si votano alla ricerca della
perfezione, è allora visto come lo stato dei perfetti, e lo stato secolare come
quello degli imperfetti, di guisa che il dovere e la funzione metafisica degli
imperfetti è d’essere imperfetti e di restar tali, di condurre una vita mondana
non troppo pia e solidamente piantata nel naturalismo sociale (anzitutto in
quello delle ambizioni familiari). Ci si scandalizzerebbe se dei laici
cercassero di vivere diversamente: si preoccupino soltanto, mediante pie
fondazioni, di far prosperare sulla terra dei religiosi che, in cambio
guadagneranno loro il Cielo, e l’ordine sarà così soddisfatto.
Questa
maniera di concepire l’umiltà dei laici sembra esser stata molto diffusa nei
secoli 16° e 17°. Il catechismo spiegato ai fedeli, del domenicano Carranza,
allora arcivescovo di Toledo, fu così condannato dall’Inquisizione spagnola su
un rapporto del celebre teologo Melchior Cano. <E’ da condannarsi, dichiarava questi, la pretesa di dare ai fedeli una
istruzione religiosa che conviene ai soli preti>. Egli alzava la voce con vigore anche contro la lettura della
Sacra Scrittura in lingua volgare, e contro coloro che si assumono il compito
di confessare tutto il giorno. Lo zelo spiegato dagli spirituali per indurre i
fedei a confessarsi e comunicarsi spesso
gli era molto sospetto, e gli si attribuisce d’aver detto in una predica che, a
suo parere, uno dei segni della venuta dell’Anticristo era la grande frequenza
ai sacramenti.
Più
profondamente, e noi tocchiamo una questione molto importante della filosofia
della cultura, si può intendere che c’è una maniera non cristiana di intendere
la distinzione tra sacro e profano.
Per
l’antichità pagana, santo era sinonimo di sacro, cioè di ciò che
è fisicamente, visibilmente, socialmente a servizio di Dio. Ed è solo nella
misura in cui era penetrata dalle funzioni sacre che la vita umana poteva avere
un valore innanzi a Dio. Il Vangelo ha profondamente mutato ciò,
interiorizzando nel cuore dell’uomo, nel segreto delle relazioni invisibili tra
le personalità divine e la personalità umana, la vita morale e la vita di
santità.
Da allora
il profano non si oppone più al sacro come l’impuro al puro, ma come un dato
ordine di attività umane, quello il cui fine specificatore è temporale,
s’oppone a un altro ordine di attività umane socialmente costituite in vista di
un fine specificatore spirituale mediante la predicazione della Parola di Dio e
la distribuzione dei sacramenti. E l’uomo impegnato in questo ordine profano e
temporale d’attività può e deve, come l’uomo impegnato nell’ordine sacro,
tendere alla santità (e per giungere lui stesso all’unione divina e per attirare
verso il compimento delle volontà divine l’ordine tutto intero al quale
appartiene). Di fatto quest’ordine profano, in quanto collettivo, sarà sempre
deficiente, ma noi dobbiamo tuttavia, e dobbiamo tanto più, volere e sforzarci
affinché sia ciò che deve essere. Perché la giustizia evangelica domanda da sè
di tutto penetrare, di impadronirsi di tutto, di scendere sino al più profondo
del mondo.
Ebbene,
si può rilevare che questo principio evangelico s’è tradotto e manifestato nei
fatti solo progressivamente e che il suo processo di realizzazione non è
terminato.
Le quali
osservazioni ci fanno meglio capire il significato di questo nuovo stile di
santità, di questa nuova tappa nella santificazione del profano dicui abbiamo
parlato or ora. Aggiungiamo che questo stile, toccando alla spiritualità
stessa, dovrà senza dubbio comportare caratteri particolari propriamente
spirituali -a esempio un insistere sulla semplicità, sul valore delle vie
ordinarie, su quel tratto specifico alla perfezione cristiana d’essere la
perfezione non di un atletismo stoicistico di virtù, ma di un amore tra due persone, la persona
creata e la Persona Divina, infine su quella legge di discesa dell’Amore creato
nelle profondità dell’umano per trasfigurarlo senza annullarlo, si cui s’è
parlato nel capitolo precedente- caratteri di cui alcuni santi dell’età contemporanea sembrano
aver il compito di farci presentire l’importanza“.
6.4.5.L’ideale storico concreto di una nuova
cristianità
L’ideale
storico concreto di una nuova cristianità è l’essenza ideale oggi realizzabile,
mediando con la cultura d’oggi.
La
cristianità può realizzarsi in forme diverse; la nuova cristianità deve essere
in sintonia con il movimento storico.
Si
possono distinguere degli elementi comuni ad ogni cristianità ed esattamente:
a)un movimento comunitario;
b)un regime personalistico;
c)un regime non sacralizzato.
La
cristianità può essere realizzata analogicamente in diversi modi.
La
cristianità medievale, che Maritain considera positivamente come artefice di un
mondo il quale -pur pieno di manchevolezze- era “tale da poter essere
vissuto“,aveva costruito il proprio ideale storico concreto intorno ad una concezione
sacrale-cristiana del temporale (Il Sacro Romano Impero). Sue
caratteristiche erano:
a)un’unità organica qualitativamente massimale
(fondata sullo spirituale);
b)predominio del compito ministeriale
del temporale, rispetto a quello
dello spirituale (il re come “vescovo
dell‘esterno“, le crociate);
c)causalità strumentale del temporale rispetto al
sacro;
d)impiego dell’apparato temporale per i fini
spirituali (mezzi coercitivi);
e)diversità di razze sociali (intesa come disparità essenziale di categorie sociali
ereditarie, ceti/classi) riconosciuta alla base della gerarchia delle funzioni
sociali e delle relazioni d‘autorità;
f)un’opera comune: edificare l’impero di Cristo.
L’ideale
storico concreto di una nuova cristianità deve basarsi su una concezione
profana-cristiana del temporale.
Sue
caratteristiche devono essere:
a)il pluralismo (economico, giuridico,
religiosa; l’unità non parte dall’unità di fede, ma da un’unità minimale sul
temporale a livello della persona, per questo la nuova cristianità “può essere
cristiana pur raggruppando nel suo seno dei non cristiani”; la nuova
cristianità si basa sulla tolleranza dogmatica verso le altre religioni
(ritiene la libertà dell’errore come un bene in sé) e sulla tolleranza
civile, intesa come dovere dello Stato di rispettare le coscienze);
b)l’autonomia del temporale (intesa come
autonomia della ricerca del fine intermedio);
c)la libertà della persona (la forza non deve
essere usata per costringere alla verità, vi deve essere un minimo di
coercizione per un minimo di unità temporale);
d)l’unità di razza sociale: si deve sviluppare
una democrazia personalista;
e)la sua opera comune deve essere edificare
una comunità fraterna sulla terra.
Mediante
qualcosa di divino, l’Amore, devono realizzarsi istituzioni buone ispirate all’amicizia
civile.
In
conclusione bisogna salvare le verità della cultura moderna dagli errori
in cui tale cultura è coinvolta e ciò mediante una rifusione sostanziale e
totale che consenta di arrivare al primato vitale della qualità sulla quantità,
del lavoro sul denaro, dell’umano sul tecnico, della saggezza sulla scienza, del servizio comune delle persone
umane sulla cupidigia individuale di arricchimento indefinito o sulla cupidigia statale di
potenza illimitata.
6.5. Valutazione della filosofia di Maritain
Ci si può
chiedere se i valori proposti a fondamento della nuova cristianità derivino
necessariamente ed esclusivamente dalla fede cristiana. Maritain ritiene che
solo la fede cristiana li possieda e che non possano essere raggiunti per altre
vie.
Ci si può
chiedere se questi valori, sentiti come cristiani, siano derivati solo dal
Vangelo o derivino anch’essi da una mediazione.
Ci si può
chiedere quale sia lo spirito del servizio cristiano e se il mondo sia cieco e
incosciente senza i cristiani.
La
filosofia di Maritain ha il merito di sottoporre a un vaglio critico
l’umanesimo e la cultura moderni. Comporta il rischio di una sacralizzazione
del temporale.
7.La teologia di Karl Rahner (1904-1984)
7.1.Applicare la svolta antropologica in
teologia
Karl
Rahner vuole recuperare l’antropocentrismo applicando anche in teologia,
e non solo nelle scienze del temporale, la svolta antropologica, per superare
così ogni opposizione tra Dio e mondo. Secondo Rahner la cultura moderna deve animare
la nostra comprensione del Vangelo.
Secondo
questa concezione, la teologia deve operare dall’interno della cultura
moderna, dove si è avuta una generalizzata svolta antropologica, nel senso che
l’uomo è posto al centro della teoria e della prassi (soggettività moderna)
come quel soggetto che pensando ed agendo mette sempre in questione sé
stesso. L’uomo è divenuto l’oggetto centrale della filosofia; non si è
prodotta solo quella svolta copernicana di cui parlava Kant, ma si ritiene che
ogni domanda dell’uomo sull’essere sia anche necessariamente anche domanda sul
soggetto che si interroga (cfr Heidegger, Essere e tempo).
Secondo
Rahner, che si muove nella linea di pensiero che va da Tommaso d’Aquino a Heidegger, vi è
nell’uomo un autopossesso conoscitivo originario mediante il quale
l’uomo conosce sé stesso; tale autopossesso conoscitivo originario è unito alla
conoscenza di sé stesso, ma da questa sempre distinto. Nell’atto della
conoscenza bisogna distinguere una conoscenza tematica (dell’oggetto
preso in considerazione) e una conoscenza atematica (di sé stesso)
distinta dalla prima. Quando conosce un ottetto, l’uomo ha sempre questo
autopossesso conoscitivo, nel senso che conosce l’oggetto come uomo e quindi conconosce sè stesso (conosce
di conoscere e in tal modo conosce sé stesso). Questa è una esperienza
trascendentale (esperienza del continuo superamento dell’oggetto della conoscenza) che è
condizione della possibilità di conoscere, nel senso che ciò che non ha
rapporto con l’uomo non solo non interessa ma neppure si può conoscere.
Anche in teologia la svolta antropologica è feconda, doverosa e fondata
rigorosamente. Infatti la problematica teologica non ruota intorno a verità oggettuali esteriori all’uomo, al
dogma oggettuale, ma intorno alla irriducibile soggettività dell’uomo. L’uomo
non è un settore particolare della teologia: i problemi dell’uomo sono tutta
la teologia. Tale concezione non contraddice un sano
teocentrismo/cristocentrismo. L’uomo è l’essere dell’assoluta trascendenza
verso Dio. La soggettività umana confrontandosi con gli oggetti come finiti
rimanda all’essere assoluto, a Dio: Dio e l’uomo non sono contrapposti. In ogni
atto è anche sempre implicata l’apertura all’essere assoluto di Dio, che
costituisce il termine ultimo di ogni atto umano. Ciò comporta la sconfitta
dell’umanesimo ateo (Feuerbach / Satre), che afferma “o Dio o l’uomo”, che è
necessario perché l’uomo viva che Dio muoia.
7.2L’uomo è aperto e disponibile alla
Rivelazione
Questa
concezione è cristocentrica perché
l’umanità dell’uomo Gesù, Dio, è inscritta nella realtà dell’uomo. La
Rivelazione è rivelazione della salvezza dell’uomo, tutte le realtà sono
salvifiche in relazione all’uomo. Si risolve in tal modo l’alternativa tra
teologia liberale (Rivelazione come proiezione della soggettività umana) e la
teologia di Barth (Rivelazione come no detto all’uomo). Nell’uomo vi è una
apertura all’essere totale che non è possesso dell’essere totale. Poiché l’uomo
è aperto e disponibile a una rivelazione di Dio, senza predeterminarla, Dio non
dirà un “no” all’uomo (“no” totale), ma presupporrà una certa capacità di
accoglienza. La Rivelazione presuppone l’uomo, l’uomo non pretedermina
la Rivelazione (vi è nell’uomo un’apertura assoluta all’assoluto).
7.3.La Grazia
La Grazia
è Dio che si autocomunica, non solo quindi dono di Dio (qualcosa che Dio ci
dà), ma è Dio stesso che si dà, che colma l’apertura dell’uomo all’assoluto.
Dio è il futuro assoluto dell’uomo.
7.4L’ìncarnazione
L’incarnazione è la promessa irrevocabile di
Dio in Cristo, opera della Grazia nella storia dell’uomo, inizio e fine
dell’antropologia, che è teologia.
L’uomo che accetta fino in fondo la propria esistenza dice di sì a Dio e a
Cristo; dire di sì a Cristo e a Dio significa accettare fino in fondo la
propria esistenza.
7.5L’ateismo
Ateismo
significa rifiutare Dio. Il rifiuto di Dio può situarsi su due livelli: a
livello della conoscenza atematica (vale a dire nella profondità del cuore) o a
livello della conoscenza tematica (chi si proclama ateo a questo livello non
significa che non abbia accettato Dio sul livello atematico). Viceversa chi si
proclama credente può rischiare di non accettare la parola di Dio sul
piano atematico.
Vi è una
difficoltà ad esprimerci con schemi culturali del passato nel valutare il
dilagante e dichiarato ateismo della moderna secolarizzazione. Vi è la
possibilità di un cristianesimo anonimo: comunque agisca, l’uomo agisce
accettando o rifiutando Cristo, anche se non arriva ad una esplicita
affermazione di fede. Vi è una storia generale della salvezza che
coinvolge tutti gli uomini di tutti i tempi, per il fatto di essere aperti
all’assoluto, e una storia speciale della salvezza che, a livello esplicito, è la storia degli atti
con cui Cristo ci salva.
7.6 Valutazioni della teologia di Karl Rahner
Secondo
il teologo Han Urs Von Balthasar, Rahner avrebbe valorizzato l’atto secolare
dell’amore esplicito dell’uomo a discapito dell’amore esplicito per Dio.
8.Teologia e prassi di liberazione: la teologia
della speranza, la teologia politica, la teologia della liberazione
8.1 Considerazioni generali
La
teologia della speranza, la teologia politica e la teologia della liberazione
considerano i riflessi per la teologia delle prassi di liberazione e, in
particolare del rapporto tra il Vangelo e le culture militanti formatesi nel
concreto delle prassi di liberazione (movimento operaio, movimenti di
liberazione nell’America Latina, movimento femminista, movimenti giovanili,
movimenti di liberazione di altri gruppi sociali emarginati).
8.2.Teologia della speranza
La
teologia della speranza raccoglie il nucleo della provocazione culturale del
neo-marxismo e della filosofia della speranza del filosofo tedesco Ernst Bloch
(1885-1977).
Secondo
Bloch, la crisi del marxismo scientista ha prodotto una riscoperta della corrente
calda del marxismo, quella filosofia che insegna a sperare. La storia è
unificata dal primato del futuro; l’atto dello sperare orienta la storia verso
l’utopia, intesa come ogni presente che può essere realizzato sebbene
non predeterminabile.
Il teologo
tedesco Jurgen Moltmann (1926), stimolato dalla lettura dell’opera di Bloch,
vista come espressione di un marxismo che cattura la speranza (si noti che il
mondo protestante pone al centro della riflessione teologica l’escatologia [da éskata
“le cose estreme” e logia “discorso” - “trattazione”:
parte della teologia che ha per oggetto l’indagine sui destini ultimi dell’uomo
e dell’universo. Fonte:Zingarelli 2001 -Vocabolario della lingua italian),
costruì una teologia della speranza non più come teologia di una virtù
(le virtù teologali: fede, speranza, carità), ma come teologia che
adotta la speranza come una prospettiva per lumeggiare tutta la fede. La centralità della prospettiva
escatologica comporta che il futuro riacquisiti una dimensione temporale
e che l’annuncio cristiano apra un domani alla storia umana. Secondo Moltmann
il cristianesimo è escatologico dal principio alla fine. Egli propone una
visione di Dio non più in alto e immobile, ma concepito come futuro assoluto,
assolutamente fedele (io sarò quel che sarò, YHWH) e una visione della
storia non più ciclica, ma aperta al futuro di Dio, fondata sulla
resurrezione di Cristo e non sulla base dell’uomo soltanto; ciò che consente di
dare una speranza anche per chi è debole e perde e non solo per chi è forte e
vince.
Ciò
comporta per Moltmann una nuova visione della Chiesa, intesa come comunità
dell’esodo e non come istituzione conservatrice. In ciò si può vedere un
aggancio per una teologia politica.
8.3.Teologia politica
La
teologia politica può essere considerata una provocazione culturale lanciata
dai teologi Moltmann, Metz (Johann-Baptist Metz, 1928) e da molti altri.
Essa
parte dalla considerazione, non solo della frattura tra società e religione, ma
anche dei risultati della critica marxista e illuminista, che ha messo in
luce la dimensione ideologica e
sovrastrutturale della religione in funzione di determinati rapporti di potere
con funzione di conferma del potere esistente. Ritiene che non sia sufficiente
dimostrare teoricamente la non opposizione tra Dio e l’uomo, ma che sia
necessaria una pratica diversa da parte dell’uomo di fede, per cui la
fede religiosa, specialmente se istituzionalizzata, e la vita del credente
assumono un ruolo politico. E’ quindi necessario costruire una nuova
teologia politica, distinta dalla vecchia teologia politica che
sacralizzava l’aspetto politico-istituzionale o affidava alla Chiesa le redini
del potere.
Occorre
innanzi tutto deprivatizzare la religione. Privatizzare la religione
significa sottolineare ciò che la Parola di Dio ha da dire all’uomo come
singolo (v.specialmente Rudolf Karl Bultmann, 1884-1976). E’ necessario
deprivatizzare non eliminando il soggetto e l’esistenza (Moltmann è discepolo
di Rahner), ma mostrando che questa esistenza è implicata nelle mobilità
sociali e che se la fede non comprende le sue implicazioni sociali rimane
astratta anche rispetto al singolo. Si deve così arrivare a una nuova
formulazione del messaggio cristiano che determini in maniera post critica
il rapporto tra Chiesa e società.
La
scuola filosofica marxista di Francoforte (Mark Horkeimer, Theodor Wiesegrund
Adorno, Herbert Marcuse, Erich Fromm) riteneva che non fosse possibile un uso
pubblico della ragione (illuminismo) senza una prassi liberante. Analogamente
secondo il teologo Metz non è possibile una fede critica e adulta senza che si
instauri una relazione tra prassi della fede e concezione teoretica della fede.
Non basta domandarsi “la mia fede è ragionevole?”. Bisogna che nel rapporto tra
fede e prassi sociale la fede si mostri efficace nella vita.
Dal punto
di vista della riflessione biblica, questa corrente teologica evidenzia come la
Bibbia annunci una salvezza pubblica e
non privata. La Bibbia contiene un annuncio critico e liberante, escatologico.
Questa teologia introduce il concetto di riserva escatologica fondata
sulla memoria di Cristo. La riserva escatologica ha in teologia la stessa
funzione dell’utopia in filosofia, fa vedere la costante provvisorietà di
questo mondo. La teologia escatologica corrisponde alla teoria critica della
società (scuola di Francoforte).
La
riserva escatologica non è priva di contenuto, perché è fondata sulla memoria
di Cristo, della sua passione, morte e resurrezione: è una memoria sovversiva e
liberatrice che rompe l’incanto della coscienza dominante.
La
Chiesa, in questa prospettiva, viene concepita come luogo della libertà
critica nei confronti della società, di questa memoria critica e
sovversiva, della testimonianza pubblica di ciò che può dire e dice l’annuncio
di Cristo. Nel medioevo la Chiesa si è servita della società politica, nella
concezione di Maritain la Chiesa si divide il compito con la società politica:
secondo la teologia politica non c’è annuncio della Chiesa che sia neutrale,
non politico. Anche all’interno della Chiesa, come all’interno della società,
l’opinione pubblica esercita un ruolo, per cui la teologia deve
esercitare un influsso responsabile sull’opinione pubblica e di conseguenza sulle istituzioni. Quindi
non si risolve in un annuncio teorico, ma rende una collaborazione e un
servizio disinteressato.
E’ stato
osservato che quella di Metz sarebbe una teologia politica senza contenuti.
L’obiezione è fondata, perché in effetti non è possibile una teologia politica
teorica, che non si risolva in una prassi di liberazione.
8.4La teologia della liberazione
La teologia della liberazione tenta di accompagnare alla teoria la
prassi. Essa non comincia la sua riflessione solo dalle promesse divine, ma
anche dalle concrete possibilità di liberazione. E’ teologia che parte dalla
prassi di liberazione. E’ un nuovo pensare teologico che si origina dalla
prassi.
9.Vivere il Vangelo nella nostra storia
9.1. Non esiste un Vangelo non mediato
Il Vangelo non è solo un’idea da
capire, una visione globale del mondo, è anche un appello personale da vivere:
la mediazione culturale è intima ad ogni esperienza umana, quindi anche
a quella del Vangelo.
Secondo
il teologo Edward Schillebeeckz (1914-), la realtà dell’esperienza è
intimamente legata ad un modello culturale -anche la fede-, è colorata /
codeterminata dal bagaglio culturale.
La fede è
intimamente inserita nella storia e non c’è fede se non espressa (mediante
parole, immagini, categorie concettuali, immagini rappresentative). E’ una
realtà che discende dall’incarnazione, vista come condiscendenza di Dio
alla realtà umana per incontrarci sul nostro terreno.
Non c’è
un Vangelo puro, non mediato o da non mediare culturalmente. Anche la
ricerca dell’essenziale nel Vangelo non è mai la ricerca di un nucleo
astorico, formulabile una volta per tutte e poi rivestibile con i più
diversi panni culturali, un dato conchiuso in sé stesso. Si tratta della
ricerca di un incontro analogo, proporzionato e proporzionale
all’incontro con Cristo che hanno avuto i discepoli ma originale, con
categorie, immagini ed espressioni della nostra cultura. Se non ci fosse
nessun cristiano non si sarebbe nessun Vangelo.
Non
esiste un Vangelo non mediato. Quello che chiamiamo Vangelo scisso dalla
cultura, non mediato, è in realtà un Vangelo inculturato in una cultura morta.
La prima
mediazione culturale consiste nel vivere il Vangelo nella propria vita.
La fede vissuta costituisce una mediazione culturale. Vivere il Vangelo
significa accogliere il Vangelo con tutta la propria cultura, con
tutta la propria personalità. Non significa svuotarsi di sé stessi (in questo
senso è errata l’ascetica che riduce l’umiltà a passività), ma significa
accogliere il Vangelo con sé stessi, attivando tutta la capacità di
accoglienza che si ha in sé stessi.
Mediazione culturale significa poi dare
voce al Vangelo, cioè farlo essere Vangelo, farlo vivere dagli altri, per
gli altri. Dare voce significa azione (per evitare l’intellettualismo) e
parole (per evitare il prassismo), attraverso il dialogo culturale e la
condivisione attiva. Bisogna vivere il Vangelo nella propria storia:
l’evangelizzazione è sempre inculturazione.
9.2.Nell’attualità: vivere la fede in un mondo
divenuto adulto e autonomo
Nel
medioevo la mediazione culturale si è risolta valorizzando tutta la
società umana perché la cultura diventasse tutta teologia, perché la cultura
diventasse tutta cristiana. E’ stato un progetto affascinante, ma
sbagliato ed antievangelico. Il disincanto che ne è conseguito, nel nostro
mondo divenuto adulto e autonomo,
non è stato solo una dura necessità, ma è stato un aprire gli
occhi sul dinamismo vero del Vangelo. Cristo non vuole colonizzare tutta
la realtà umana, sacralizzare tutto, ma
utilizzare quello che basta per l’annuncio; in questo senso Dio è per tutti.
La
creaturalità del mondo va compresa nell’orizzonte storico-salvifico del mondo:
attraverso l’incarnazione il mondo appare totalmente mondano e Dio totalmente
divino (il mondo non è un “pezzo” di Dio). E’ in questo senso che si parla di autonomia
mondana.
Ci si
chiede se la separazione tra la Chiesa e la società porterà alla insignificanza
della fede.
Se il
Vangelo fonda e annuncia la mondanità del mondo, già solo per questo non è
insignificante; esso è il garante continuo della non sottomissione del mondo a
nuovi idoli. Contro l’alienazione sacrale, mantiene il mondo nel suo vero
futuro.
Il
Vangelo ha una sua valenza politica, nel senso che può fondare una mediazione
politica. Quest’ultima non si risolve essenzialmente solo in una animazione del mondo
politico mediante principi di fede che consentano una analisi e una
comprensione della situazione. Ci si può chiedere infatti se come cristiani
abbiamo principi di azione politici diversi strutturalmente dai non cristiani e
se la carità sia patrimonio esclusivo cristiani. In realtà l’annuncio
centrale di Cristo come salvatore assoluto dell’uomo attraverso la mediazione,
che fonda gesti paradossali, capacità critica e la denuncia,
permette di difendere l’umano minacciato
dai falsi assoluti. La mediazione culturale non deve tendere
a sintetizzare la cultura cristiana e la cultura pagana in una cultura cristiana
mondana ma, attraverso l’annuncio, la prassi e la teologia, contribuire
a fondare una cultura veramente umana e autonoma.
9.3.Considerazioni sulla polemica tra “cultura
della mediazione e cultura della presenza” [all'epoca molto viva tra alcuni movimenti laicali italiani]
A chi si chiede se la salvezza in
Cristo debba essere cercata fuori della storia o nella storia
bisogna rispondere che è possibile e necessario vivere un nuovo tipo di
rapporto Chiesa e mondo e ciò non solo come singoli ma anche comunitariamente.
Bisogna creare le condizioni della possibilità dell’ascolto, tenendo conto
dell’interlocutore, ma appunto non solo come preti in sacrestia e laici come
individui responsabili nella loro coscienza.
In
questo senso il problema di stabilire quale presenza debba essere
realizzata dai cristiani nel mondo è effettivo. Sicuramente per rendere
possibile un significato della fede nella realtà storica è necessaria una presenza
comunitaria, ma di che tipo? Ci si
può chiedere, in questa prospettiva, quale tipo di interventi della gerarchia
sia giustificato, legittimo e produttivo (parola disinteressata, astinenza,
quali parole?). Star zitti non è legittimo né per la gerarchia né per i laici,
ma vi è la possibilità di una ambiguità della presenza.