Tirocinio democratico in Meet
(il post è dopo lo spot di Meet)
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Sono una persona anziana: so di più!
Nel programmare, in quest’anno
associativo 2020/2021, un serie di incontri del gruppo in videoconferenza Meet, abbiamo voluto cogliere l’appello
al rinnovamento che ci è venuto dall’episcopato nazionale e, da ultimo, dall’Ufficio
catechistico nazionale.
Lo strumento telematico richiede, certo, una diversa organizzazione del
lavoro, in particolare tempi più stringenti e l’impegno di tutti i partecipanti ad una
reale partecipazione, e quindi uno sforzo di preparazione personale. Non ci si
collega solo per assistere, non basta
esserci, perché l’esserci in modalità telematica si fa
evanescente se non si prende la parola e questo comporta, per consentire a tutti di farlo, interventi più concentrati, quindi più brevi. Nel programma della riunione
in Meet che avremo sabato prossimo 17 ottobre sono
previsti tre minuti per ogni
intervento, in un metodo in cui si prende tutti
la parola in ordine alfabetico e
quindi, essendo previsti venti interventi, se si è meno di venti a
partecipare si potrebbe anche prendere di nuovo la parola. Ognuno si impegna
non solo a dire la propria ma anche
ad argomentare e, soprattutto, ad allacciarsi alle argomentazioni di chi ha
parlato prima.
Però c’è di più in questo nuovo metodo per incontrarsi: si può anche
sperimentare la capacità di auto-organizzarsi in assemblea, che non è sicuramente
il punto forte nel nostro modo abituale di farci Chiesa. Infatti, in questo
ambito, si è ancora organizzati, prevalentemente, a tutti i livelli, come una autocrazia,
vale a dire con un sistema di potere in cui chi ha autorità non dipende da
coloro che a quell’autorità sono soggetti, ma solo da chi sta più in alto, con un popolo
il cui connotato principale è
essenzialmente quello di essere sottoposto
ad una gerarchia impersonata
totalmente dal clero, quindi da uomini con uno stato di vita sacralizzato e
molto diverso da quello degli altri fedeli.
Insomma, detto in altre parole: i laici nella nostra Chiesa, al dunque,
quando si tratta di decidere qualsiasi
cosa non contano nulla e, al più, li si accetta come consiglieri o come esecutori. In un bel libro di qualche anno
fa, lo storico Fulvio De Giorgi definì il nostro laicato come il brutto anatroccolo.
Cambiare questa situazione, e la corrispondente mentalità in chi comanda
e in chi subisce, è difficile, per gli ostacoli che derivano soprattutto dalle
esigenze quotidiane ed ordinarie dell’amministrazione di un ingente patrimonio
immobiliare e mobiliare accumulato nei secoli: finora mi pare che non si sia
riusciti a trovare una forma di gestione comparabile agli esempi migliori delle
pubbliche e private amministrazione, con ciò che purtroppo ne consegue e che
anche in questi mesi è venuto tristemente alla luce. La burocrazia necessaria per quell’amministrazione
pesa sulla vita ordinaria della Chiesa impedendo l’allargamento
della condivisione nei processi decisionali, e questo a tutti i livelli (anche
le parrocchie, ad esempio, sono proprietarie di complessi di immobili e
gestiscono flussi finanziari non irrilevanti). E’ un problema antico, che
potrebbe essere avviato alla soluzione introducendo con gradualità processi
democratici, che comprendano anche una certa trasparenza.
Così, siamo più che altro abituati ad “assistere” e, al più, a recitare parti nelle liturgie, in copioni in cui ci viene richiesto di leggere la nostra parte sul foglietto, mentre il
celebrante recita la sua, contraddistinta con la lettera “C”.
L’incontro in videoconferenza, esigendo una partecipazione attiva, ci
spinge invece a costituirci in assemblea deliberante, innanzi tutto per
approvare il metodo proposto dall’organizzatore, che deve deporre atteggiamenti
dispotici. Infatti si partecipa veramente solo in ciò che si condivide. Quindi
l’organizzatore deve essere capace di
affidare la sua creatura alla collettività che si è da lui lasciata
convocare e a cui l’iniziativa è destinata, e questo per far crescere il gruppo come
società capace di decidere: questo è uno dei modi in cui si può essere popolo. L’altro, l’ho scritto, è quello
di esserlo semplicemente come sudditi all’autorità
altrui.
Dunque, un metodo che non sia una liturgia
immodificabile, con un conferenziere nella veste di sacerdote dell’evento, ma
una riunione che comprenda anche una fase preliminare in cui i presenti in modalità telematica si
costituiscano in assemblea anche per
esaminare proposte di modifica del metodo inizialmente proposto e per
deliberare su di esse, con possibilità di procedere diversamente. Ciò che praticamente non accade mai nei nostri ambienti religiosi, salvo che in
Azione Cattolica, che è un’associazione con organizzazione democratica.
Questo
implica anche la possibilità, e dal mio punto di vista il rischio, di
tornare al passato, a quando semplicemente
si assisteva, si ascoltava,
si facevano domande e si attendeva
dal conferenziere, al termine, l’esposizione della soluzione giusta, vale a dire come si dovesse
pensarla sul tema in questione. Del
resto, una volta ammesso il metodo democratico, e l’AC è una palestra di democrazia, si deve
ammettere anche quel risultato. Tutto dipende dalla capacità di argomentazione
e di persuasione di chi propone il metodo più partecipativo.
Gli argomenti a favore di questa soluzione
sono:
a) adottandola, tutti i partecipanti partecipano realmente e, anche,
realmente si collegano tra loro, assumendo l’impegno
personale di argomentare tendendo conto degli altri, non limitandosi a dire
la propria;
b) secondo quell’impostazione, non si è
costretti a subire una soluzione già precostituita dall’inizio, una qualche verità imposta d’autorità, ma si possono
esplorare liberamente gli argomenti implicati in un progetto di soluzione e
provare a costruirne una come prodotto del dialogo in assemblea, sulla base di
persuasione e non di sottomissione; senza tuttavia che questo risultato sia
sottratto ad un ulteriore esame in futuro, come una verità non negoziabile, dovendo, anzi,
essere sempre oggetto di ulteriore
riflessione, quando sopraggiungano nuovi argomenti o la situazione storica di
riferimento cambi. Ciò che è prodotto dal dialogo, al dialogo rimane soggetto.
In particolare, quando si esamina l’idea che si ha del “popolo”, ci si accorge presto che non c’è
in materia una verità che si sia imposta sempre e dovunque, come è
facile capire ragionando su tema “Come
siamo popolo?”, invece che su “Che
cosa è il popolo?”. Il concetto di “popolo” e il modo di essere “popolo” sono storicamente variati a
seconda delle culture di riferimento e, in particolare al contesto politico,
quindi all’organizzazione del governo della società. Ogni politica ha costruito
il suo popolo. E’ accaduto, ad
esempio, nel processo di unificazione nazionale italiana, partendo da genti
stanziate nell’Italia geografica, ma aventi connotati di popoli diversi, a partire
dalla lingua e da altri importanti elementi culturali. Così si capisce come si
sia potuto osservare, a unità nazionale conseguita: “Si è fatta l’Italia, ora bisogna fare gli italiani” (Massimo d’Azeglio).
La distinzione fondamentale, in materia di popolo e di popoli è tra popolo come gente unita essenzialmente dall’essere soggetta ad un certo sistema di potere, o come comunità attiva e partecipante,
partecipe innanzi tutto del governo della società di riferimento.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro Valli