Coesione comunitaria
Nei Vangeli non troviamo molti
elementi pratici per organizzarci come comunità: c’è, invece, prevalentemente un’etica
delle relazioni interpersonali.
Vi vediamo all’opera un piccolo gruppo di discepoli itineranti al
seguito di un Maestro, capo riconosciuto della piccola comunità, ma non
affiancato da luogotenenti o vicari.
Anche l’investitura di Pietro come pietra
di fondazione sociale sembra più
proiettata verso un futuro non immediato e l’autorità di questo apostolo sembra
aver trovato qualche resistenza nella sua affermazione, nel tempo in cui ci si
andò organizzando come società di fedeli, dopo la Passione.
Le attuali dimensioni della
nostra Chiesa sono enormemente maggiori
di quelle dei primi e antichi gruppi di fedeli, e così anche i problemi
organizzativi. Quando pensiamo ad un ritorno alle origini come soluzione per
i mali d’oggi, ci proponiamo l’impossibile. Qualsiasi operazione del genere non
può avere successo senza una mitizzazione
del lontano passato idealizzato,
vale a dire trasfigurato, e, quindi, senza
costruire in realtà un passato alternativo a quello
reale, adeguato ai nostri attuali fini. Del resto, delle prime aggregazioni
della nostra fede sappiamo poco e, per questo, abbiamo meno difficoltà ad
immaginare. In generale, si va poco
lontano senza narrazioni trasfiguranti,
per le quali in certe persone o certe storie o certe cose ci si convinca di vedere più di quello che appare.
Bisogna anche tener conto che, a differenza
delle effervescenti nostre comunità del Primo e Secondo secolo le quali
sembravano avere l’anatema facile, abbiamo un atteggiamento più sereno
verso il pluralismo sociale, e quindi
anche culturale, e cerchiamo di tenere insieme le diversità, invece che di
tentare di sopprimerle, silenziarle, raddrizzarle o escluderle. E, certamente,
la visione di un Popolo di Dio quale
quella che oggi ci affascina è molto diversa, ad esempio, da quella piuttosto
bellicosa impersonata bella Bibbia dagli antichi israeliti nelle loro guerra di
faticosa conquista di Canaan. Appare mutata la mitologia trasfigurante.
Ma come mantenere la coesione comunitaria di collettività tanto numerose e con
caratteristiche divergenti?
In Italia abbiamo ancora una popolazione che, in larga misura, fa riferimento all’etica cattolica per orientarsi tra giusto e sbagliato, anche se
i più sembrano aver perso dimestichezza con la pratica liturgica e con la
spiritualità personale consigliata. Ma questo non basta a costruire quella comunità attiva, partecipe, misericordiosa e
solidale che risponde all’ideale di Popolo
di Dio proposto nell’ultimo Concilio
ecumenico.
Essere popolo implica una durevole rete di relazioni e una
mitologia che serva a trasfigurarla,
in modo da consentire quell’identificazione personale in un ambiente collettivo
che, se da un lato supera l’individuo, dall’altro lato, proprio
superandolo e dandogli prospettive più larghe e lungimiranti, lo sostiene.
Nelle società umane questo elevarsi ad una dimensione più vasta viene solitamente mediato dai simboli,
che costituiscono potenti fattori culturali di coesione. Può trattarsi di
persone, o della memoria di persone del passato o anche solo immaginate, di
ambienti sociali, luoghi, edifici, segni, indumenti, consuetudini, riti,
oggetti e altro. Il simbolo media la relazione collettiva quando essa supera le
nostre capacità cognitive e i legami interpersonali sfumano in masse
indistinte: assimilandolo, ci si lascia da esso assimilare e questo unisce.
E, tuttavia, nemmeno questo basta: lo vediamo con le nostre liturgie, tanto
piene di simboli. Evocano l’unità, radunano ma non uniscono veramente e, soprattutto, stabilmente.
Poi, naturalmente, ci sono le istituzioni,
nelle quali le collettività vengono come irreggimentate
da un complesso di norme che in parte sono sorrette da un’autorità e in
parte sono anche condivise. Ma, se una collettività non è animata anche da una rete interpersonale viva, come accade ad esempio, in genere, sul lavoro, l’appartenenza non ci appaga. Ci si raduna per dovere o necessità, o per entrambi, ma come elementi di un ingranaggio sociale: finito il tempo del lavoro si è soli e ci si sente tali. Si vorrebbe anche altro.
D’altra parte, il piccolo gruppo di mondo
vitale, come le sfere parentali,
possono al massimo sorreggere piccole collettività tribali che vivono finché e nella misura in cui si riesce a
mantenere relazioni personali forti,
come nel gruppo dei Dodici al seguito del Maestro, e così siamo tornati
da dove si era iniziato.
L’esperienza insegna che non è assolutizzando
uno degli elementi di coesione che ho descritto a danno degli altri che si può trovare la soluzione
al nostro problema di costruzione sociale.
In realtà tutti rispondono ad
esigenze che derivano dalla nostra umanità, per la quale siamo viventi limitati
che tuttavia pensano in
grande e ambiscono a forme di socialità sempre più vaste e, nello stesso tempo,
intense. Il difficile è, appunto, la loro
armonizzazione, in modo che la collettività sorregga ma non schiacci o emargini
e che l’individualismo non disgreghi nella competizione senza fine per il
dominio sociale. E’ una sfida che non riguarda solo gli aggregati maggiori,
come ad esempio gli stati o le organizzazioni ecclesiali complesse, ma ogni comunità che si sviluppi oltre le dimensioni sociali di
prossimità, oltre i mondi vitali interpersonali, nei quali tutti si conoscono e
riescono ancora a chiamarsi per nome.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli